Vincenzo MURA, Utopie… e altro ancora. Nota di lettura.

VINCENZO MURA, UTOPIE... E ALTRO ANCORA

Descrizioni precise e originali e una forte tensione etica si apprezzano immediatamente nelle poesie dell’ultimo libro di Vincenzo Mura Utopie… e altro ancora; e, non marginalmente, anche la weltanschauung dell’autore, nei cui versi affiora la sua storia personale e quella collettiva, e quel sentimento di finitezza che con l’avanzare degli anni sferra la sfida più cruenta. A non sfuggire è anche il legame forte dell’autore con la sua Isola, in particolare, col villaggio natio, Pattada.

Leggere, scrivere, comporre versi è anche una forma peculiare di lotta, di resistenza, una gramsciana chiamata alle armi attraverso l’istruzione, la conoscenza, la consapevolezza; di pari passo con “L’assillo costante dei sognatori, dei visionari” come giustamente osserva Giovanni Fiori nella sua prefazione, quella “Dei poeti, per l’appunto.”

Le settantasette poesie del libro restituiscono al lettore uno sguardo d’intensa bellezza e autenticità sulle cose: quello interiore dei sentimenti e dei valori, e quello calato nei luoghi in cui il poeta ha vissuto e vive. E ciò basterebbe per esprimere un convinto giudizio positivo sull’intera opera. Ma ad aggiungere rilievo a questo lavoro ritengo che sia la dimensione testimoniale, storica e civile della sua scrittura. Fino agli anni cinquanta in molti villaggi della Sardegna si è vissuto più o meno come nei secoli precedenti; un tempo immoto, infranto solo dagli anni sessanta in poi con lo sviluppo culturale, economico e infrastrutturale che ne ha stravolto l’assetto comunitario e identitario. Le generazioni nate tra la prima e la seconda guerra mondiale, come quella di Vincenzo Mura, hanno così vissuto in prima persona il trapasso tra due mondi e due culture; e di questo troviamo in Utopie… e altro ancora frequenti tracce, e del suo carico di attese, prima, e di disillusioni, poi.

Tali premesse per dire quanto quel mondo di prima sia inevitabilmente elemento di comparazione per percepire e valutare il mondo di adesso, nonché il senso e le ragioni dei versi che oscillano tra canto di mondo edenico e amaro disincanto, tra molcente nostalgia e sguardo impietoso sui giorni che viviamo. Passato e presente affiorano come chiaroscuri di solarità e cupezza, incanto e disinganno: “torbide nubi/di innocui rancori/e macerie stagionate di falsi disappunti morali” (Orizzonti), o “demoni /dalle inquietudini ingiustificate” (Serraglio); “Immense erano /le nostre speranze in terra…/ e subito venne il dopo…/con errori e utopie incompiute” (Giovinezza). C’è qui una fede, un’attesa tradita, un sogno di riscatto sociale che non s’è mai inverato, e la presa d’atto di una diffusa apatia, di una rassegnata accettazione dello status quo, di rarefazione di ogni empito di giustizia sociale: “Dal mio angolo d’ombra/aspetto servile/un comando/e qualche briciola di pace/ormai ostaggio dell’indifferenza /ed evirato/da ogni stimolo di eversione…/e rivolta” (Cani e gatti), oppure, “Vivo nell’indifferenza/votato alle piccole incombenze/e alle miserie del quotidiano,/soddisfatto e pago/del meno peggio,/silenzioso profeta/dell’abitudine/e del vegetare conforme.” (Il menopeggio). E c’è in questi versi tutta l’onestà e la coscienza critica di quella grande occasione mancata che solo chi ha vissuto la tragedia della guerra e dei lutti, della dittatura e della  povertà affamante, e poi, accompagnata dall’entusiasmo di una forte fede politica, l’avvio di una stagione di democrazia e di rinascita fino, ahinoi, allo sfilacciarsi del tessuto democratico e alla morte delle grandi ideologie, al decadimento culturale e partecipativo col trionfo del capitalismo e il  prevalere delle logiche di mercato, può forse capire fino in fondo il sentimento sconsolato di sconfitta, e l’impossibile rassegnazione. A far male, è anche il silenzio di chi avrebbe sensibilità e parole per esprimere con forza la propria indignazione e quella dei senza voce, sulle tante ingiustizie e disumanità in atto, e invece tace, si ritrae (“Nel silenzio di poeti e cantori / stramazzò la creatura neonata / chiamata democrazia… / e noi non si batté ciglio / e non si disse parola” – Sotto i nostri occhi).

E’ sullo sfondo di tali considerazioni che dovrebbero essere lette le poesie di questo libro.

Entrando invece nel merito dei componimenti, chiedendoci cosa ci colpisce in essi, cosa muovono in noi, cosa ce le fa apprezzare, possiamo dire subito il canto dolce e amaro, sommesso e forte della sua terra, con quell’amore incontenibile che Dante ben colse, immortalandolo nella Commedia (“…e a dir di Sardigna / le lingue lor non si sentono stanche” – Inferno, XXII canto). Spiccano infatti con forza la bellezza delle descrizioni di luoghi e contesti e l’autenticità e intensità dei sentimenti espressi.

La perizia descrittiva è una qualità importante di queste poesie, per originalità ed evocatività (“L’autunno stempera / con riposanti malinconie / le tempeste torride / e le incontinenze dell’estate / che impietosa scolora / e svena negli estremi sussulti / e negli orgasmi languenti / dopo aver salutato le rondini / e murato in letarghi definitivi / ossessioni estenuanti di cicale / moleste e incalzare insonne / di instancabili grilli notturni.” – Radura; ma anche Esuberanze, Mondo antico). L’anzidetta è caratteristica sintomatica della buona poesia rispetto alla non poesia (che imita senza originalità la prima, con scarsa cura della sintassi, della scelta delle parole, della loro ottimale disposizione nei versi), assieme all’autenticità, rispetto a suo contrario (l’approssimazione del testo rende infatti non persuasivi i pensieri e i sentimenti espressi). Qui invece i versi sono sempre ben costruiti, con ricca aggettivazione che s’imprime nel lettore (Radura).

I componimenti di rado superano la lunghezza della pagina, e scorrono con buon ritmo e musicalità in un alternarsi di poesia lirica e civile, spesso all’interno del medesimo testo. Con stile radicato nel novecento che ricorda a volte Montale, proprio per lo spessore descrittivo, ma anche Lorca, in alcuni testi, per l’afflato lirico (“Tesoro mio,/la nostra favola/ci riempie gli occhi/di mille falene palpitanti/e strega l’universo/con i gemiti d’armonia/che invadono il cuore/e trasfigurano in realtà/e illusione nel prodigio/dei giorni incantati/che furono… e sono.” – Veliero).

Molte le poesie apprezzate, e tra queste vorrei segnalare: Senilità, Il menopeggio, Volevamo cantare, Piccolo borghese, Poeta e cantore, Canti senili, Guscio, Maestrale, Natale 1943, Esuberanze, Mondo antico, Veliero, La Ciaccia 1975, Utopie, Il mio paese nasconde tesori, Sono, Arenile.

Giovanni Nuscis

*

Canti senili

Nella collina

grigia di tempo

in sentieri di cenere

e rosse polveri riarse

abbiamo visto soccombere

le nostre utopie

e con le illusioni

le magie e i sogni

le giovinezze perdute

che in giorni lontani

divamparono in passioni

e amori festosi.

Come nebbie

si sono dissolte le stagioni

e i fasti, senza mai fermare

le nostre peregrinazioni.

Quanti anni

ho trascorso in quei sentieri,

quanti lustri?

(Ormai calcolo le fasi

della mia vita

in termini di lustri).

E quanti passi

ho consumato

senza lasciare testimonianze

e imprimere memorie

nelle rocce e nella Storia?

Quante tramontane

ho inseguito a vuoto

e quante immagini,

ricordi e pensieri

mi ha rubato il maestrale

e portato via la burrasca perenne

degli oceani dell’ignoto infinito?

Quante rughe

– invisibili e note –

mi hanno scavato

le collere salmastre

delle impietose alte maree?

Di sale, aceto e fiele

sanno ora

i miei scombinati canti senili,

balbettanti in sordina

con singulti rochi

di lumaca stanca

che in pieno autunno

ha esaurito le bave d’argento

e il suo breve tragitto

senza aver svelato nessuno

dei misteri del suo strisciare

e dei perché eterni della vita.

*

Maestrale

Terra mia,

i tuoi colori antichi

-tutti i giorni rinati –

mi porto addosso

e dovunque rimastico

i tuoi mugugni salmastri.

Nelle conchiglie

abitate da eco

e pensieri di mare

ascolto la collera

di naufraghi e oppressi

che non trovano posto

nella zattera dei relitti

e nelle precarie ispirazioni

delle visioni oniriche.

Gioco con i sogni

e rubo sguardi furtivi

al tempo, mentre percorro

con lenti passi balbettanti

le note strade senza inizio

che per millenni il maestrale

ha flagellato per modellare

gli scogli, animare falesie

e fornire voce suono

alle pietre dei crinali.

Terra mia,

dalle malerbe

e dai veleni secolari

delle faide insanguinate

per sempre vorrei liberarti.

*

Natale 1943

Sotto la neve

storte casette in processione

-immobili –

diventano branco

di candidi bovini

in letargo informe.

In nuvole basse s‘intorpidisce

il denso respiro dei camini

che bruciano inverno

e rimpiangono allegria

e desiderio di sole.

Luci velate di cielo

si fanno gli astri

e sotto coltri di nuvole spesse

si cela intirizzita la luna.

Vanno a rilento lepri

nell’infinito deserto nevoso

e battono i denti smarrite

e tremanti di freddo e paura.

Nel torpore del focolare

ascolto disarmato

pensieri e silenzio

e finiscono in cenere ceppi

e sogni d’infanzia violata.

Babbo non c’è più:

è scomparso in una valle ignota

di ombre anonime

e lacrime mute di gelo:

lo ha ghermito una guerra non sua:

mamma è immagine reale

di dolore immane

nel letto per sempre vuoto

di vedova bianca.

Le figlie -ragazze sorelle –

vestite di nero precoce

sono grumi di lutto

e pallore indifeso.

Io, adolescente arreso,

scopro il mondo crollare

in macerie di nostalgie

e montagna di scontento.

Vorrei

e non so piangere

in questo cuore di pietra.

Nemmeno ora so piangere

e forse mai imparerò a farlo.

Sento il cuore

di marmo

gelido:

il cuore

di bambino intristito

per l’eternità.

Ascolto, remote,

campane rintoccare

sommesse Mezzanotte.

Più lontane

intravedo le cime

delle nostre colline

e inaccessibili crinali

che avvicinano il domani.

Un‘invisibile muraglia

mi isola dagli altri

nel mondo senza tempo…

sono mute le calandre

in attesa dell’ultimo canto

di giorno in giorno rimandato,

ma forse voleranno ancora le rondini

in cieli di rivolta e trionfi…

e io tento di riprendere il dialogo

con sentimenti, miti e utopie

a testa alta nella strada del futuro.

*

Vincenzo MURA

Utopie… e altro ancora

Prefazione di Giovanni Fiori

Soter Editrice (2023)

*

Vincenzo Mura è nato a Pattada nel 1935 e vive a Sassari. Alla fine degli anni cinquanta ha esordito nel campo della narrativa con racconti, novelle e servizi di letteratura e costume nella Nuova Sardegna, giornale del quale, per alcuni anni, fu corrispondente e collaboratore della terza pagina. Ha scritto anche per altri giornali, non solo dell’isola ed è stato corrispondente al Gazzettino Sardo (Rai). E‘ stato per diversi lustri impegnato nella politica attiva come amministratore comunale e provinciale, con vari incarichi assessoriali.

Ha pubblicato: Il ballo del sole, Biblioteca Internazionale Editrice, Firenze, 1967, vincitore del premio letterario Opera prima Niccolò Machiavelli; La stagione delle mantidi, Edizioni Castello, Cagliari, 1996; La rivolta dei gigantinani, Edizioni Castello, Cagliari, 1999; Su deus iscultzu, Condaghes, Cagliari, 2002, vincitore del premiu de Literadura Sarda Casteddu de sa fae; Poesias sèbéras, Edes, Sassari, 2010; Dies e fozas, Edes, Sassari, 2017. Ha riscosso importanti riconoscimenti in vari concorsi di poesia in sardo, fra i quali il primo premio al Romangia di Sennori-Sorso, al Seunis di Thiesi, nel 2019 e al premio Ozieri del 2015.

4 responses to this post.

  1. Poeta interessante, grazie per la segnalazione. Molto bella “Natale 1943”.

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  2. Posted by Gena Marra on 10 febbraio 2024 at 5:51 PM

    Le ho lette quasi trattenendo il respiro.

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