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Flora RESTIVO – DUDICI (DODICI) Racconti in siciliano

RESTIVO

Flora Restivo, siciliana di Trapani, è poeta dialettale autrice delle raccolte poetiche Ciatu (Sfamemi, 2004) e Po Essiri (Samperi Editore, 2008). Non deve sorprendere questo suo primo libro di racconti che richiama qualità importanti già presenti nella sua poesia: l’essenzialità del dettato, lo sguardo acuminato ed ironico sul mondo e una forte sensibilità. La misura del racconto breve riesce dunque a riproporle, dette qualità, con nuovo equilibrio e tensione narrativa. Proprio riguardo all’essenzialità del dettato, scrive Marco Scalabrino nel suo saggio introduttivo (Flora Restivo – Dda notti chi spariu la luna & autri cunti): “Edgar Allan Poe ha individuato nella short story gli elementi della essenzialità, della densità, della unicità; Henry James ha affermato che il racconto bisognerebbe “farlo tremendamente conciso, con la più stringata scelta di particolari”; Evelyn Waugh ha sostenuto che “lo stile non è un attraente ornamento applicato, ma parte dell’essenza stessa”. Questi, dunque, gli elementi che caratterizzerebbero il genere; e si viene realmente inghiottiti nella lettura di questi racconti che spiazzano, sorprendono, a cominciare dal primo racconto “La notte in cui sparì la luna”, che principia inquadrando un insonne trentottenne insegnante di greco e latino. Una bella donna “statuaria”, “al culmine del suo fascino” a cui nulla mancava se non la capacità di avere una relazione duratura con un uomo, perché “ogni volta che una storia aveva inizio, sembrava quella giusta, ma dopo un po’ di tempo, si stufava, la persona la disgustava, così lasciava perdere tutto.” Un racconto che procede come un film “che la vede spettatrice e protagonista nello stesso tempo.” E torna all’infanzia e alla sua storia familiare personale, segnata dall’azione più riprovevole che si possa compiere nei confronti di un figlio – l’incesto – ripetutosi negli anni fino al gesto estremo di liberazione da parte della vittima, con l’uccisione del padre progettata nei dettagli. Una storia che al pari delle altre di cui nulla diremo, però, per non privare il lettore del piacere di farsi trasportare da esse, riga dopo riga, viene raccontata in modo davvero avvincente, con una forza descrittiva che rende vividi e plastici i luoghi, i personaggi e le azioni. Tra i racconti più belli vanno segnalati ”Mano pelosa”, rielaborazione della favola di Barbablu, “Storia di Maria soprannome “l’orba” professione …puttana”, lo splendido e commovente “Le ali di Angelo”, “Nozze d’argento” e “Franco”. Un libro, dunque, che, se si fa apprezzare nella traduzione in lingua, nella versione in dialetto si suppone ancora più dilettevole, per il senso e l’evocatività di parole e suoni e colori e allusioni propri della lingua e d’una comunità.

Flora RESTIVO

DUDICI (DODICI) – Racconti in siciliano

Edizioni del Calatino (Castel di Judica, 2011)

Prefazione di Marco Scalabrino

Traduzioni a cura dell’autrice

Viedellapovertà 4

Un dolore forte mi ossessiona, alla schiena, in basso, e giorno dopo giorno arriva a paralizzarmi una gamba. Cammino piano, sbilenco, non riesco a stare seduto né coricato, faccio fatica a rialzarmi. I dolori creano un diaframma tra noi e il mondo, e nell’al di qua c’imbozzoliamo cupi perdendo vitalità; riacquistandola, dopo un tempo indefinito, quasi sempre. E’ un assaggio di morte, della pena che spesso la precede. Ti sembra di non avere scampo, temi che il dolore non se ne vada più. “Discopatia tra la quinta lombare e la prima sacrale”, leggo nel referto che accompagna la radiografia fatta al costo di trenta euro, privatamente, per non aspettare penando, ancora, in una lunga fila; lo leggo e rileggo in tutti i dettagli. Vado poi su Internet, apprendo che quel dolore colpisce una percentuale elevata della popolazione, e che dicono derivi dalla stazione eretta, del voler stare su due gambe, invece che su quattro arti come gli altri mammiferi.
Attendo poi la visita dall’ortopedico, e passo altre notti insonni, altri giorni camminando e muovendomi tra dolori costanti e fitte repentine. “Per una diagnosi completa e una terapia appropriata”, mi spiega laconico lo specialista convenzionato, nei pochi minuti che mi concede, “è necessario fare una risonanza magnetica.” Uscendo dallo studio dello specialista un anziano paziente col quale avevo scambiato qualche parola mi chiede: “le ha prescritto la risonanza, vero?” Rispondo sì, che il medico la ritiene necessaria. “Ha visto, gliel’avevo detto. Tanti auguri, allora…” Gli auguri non sono riferiti alla guarigione, comprendo meglio in seguito, ma all’effettuazione dell’esame richiesto. Sorridono gli altri pazienti in attesa, e uno mi dice: “Non avessi avuto mio figlio, con la pensione che mi ritrovo, non avrei potuto farla in privato come mi hanno costretto a fare, delinquenti.” Gli fanno coro due pensionate alzando la voce, imbestialite. Replico: “Ma è un esame a carico del sistema sanitario…” E interviene allora un altro paziente: “certo, chiami il centro prenotazioni e senta cosa le dicono…”
Quando chiamo l’Asl per prenotare l’esame, all’inizio di luglio, una voce mi dice che le prenotazioni sono sospese fino a settembre. In città nessuna struttura sanitaria pubblica, a meno che non si arrivi al pronto soccorso moribondi o gravemente infortunati, mi avrebbe fatto una risonanza magnetica, neanche sostenendo interamente il costo. Su consiglio di conoscenti, interpello allora alcune strutture private convenzionate dove mi spiegano che la regione pone, però, un tetto massimo di esami e di spesa all’anno, e che quel tetto è stato già raggiunto. Se voglio fare l’esame, insomma, devo pagarne interamente il costo. Centocinquanta euro il prezzo più basso; vale a dire, un quarto di una pensione sociale, un decimo di uno stipendio medio-alto di un lavoratore dipendente, poco meno di un terzo di un canone d’affitto. La risonanza magnetica consente di ottenere un’immagine tridimensionale della parte corporea interessata, e di individuare così un’eventuale patologia, stabilire la cura. Una spesa che pare dunque inevitabile, ma che lascia la rabbia per un sistema sanitario inefficiente e iniquo. Eppure la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti (art 32 Cost). Garanzia di gratuità che fa sorridere, perché anche da indigenti, le strutture sarebbero comunque indisponibili, per una ragione o per l’altra. Indigenza che assai spesso non precede, ma consegue alle cure sostenute, in questo paese balordo e iniquo; paradossalmente, proprio per malattie gravissime che richiedono particolare assistenza: tumori, Sla e via dicendo. Sì, viene rabbia, con le tante eccellenze che pure ci sono – di strutture sanitarie, di personale medico e paramedico – non avere a disposizione più macchine e più tecnici capaci di usarle, garantendo così esami per tutti e in tempi rapidi. Solo col denaro sprecato spostando il G8 da La Maddalena a L’Aquila, o creando l’inutile ponte di Messina, si sarebbero riempiti tutti gli ospedali d’Italia delle apposite macchine.
Rabbia alla quale se ne aggiunge una più personale, nell’apprendere dal fisiatra che una risonanza magnetica, nel mio caso, non era necessaria, che  basta la radiografia per capire l’origine del male, e, per guarire, un semplice esercizio e qualche settimana di vitamine; come in effetti è stato.

Viedellapovertà 3

Era diventata una tassa sul sogno, ma pochi se n’erano avveduti, avendo la parvenza di un gioco, un semplice gioco che tutti potevano fare senza fatica. Con inspiegabile entusiasmo, ogni giocatore stabiliva l’entità della tassa, pari alla grandezza del sogno. Mai a memoria d’uomo era accaduta una cosa simile. Nelle case, nei bar, negli uffici persone di ogni età discutevano e si accordavano per giocare/tributare, depositando infine nelle rivendite, assieme alla giocata/tributo, le schedine coi numeri; attendevano poi l’estrazione, trepidanti, i milioni di giocatori.
L’economia italiana non si era ripresa dalla crisi, a differenza degli altri paesi europei. I rappresentanti politici, piacevolmente sorpresi per la crescente valanga di denaro che gli perveniva ogni giorno in misura direttamente proporzionale alla miseria dilagante, incameravano gongolanti quella linfa vitale evitandosi, così, manovre impopolari. Non si doveva fare altro che assicurare il pagamento dei premi al verificarsi della combinazione, secondo la fredda legge dei grandi numeri, impiegando il rimanente per continuare a nutrire la famelica e capillare nomenclatura politica, e i soci vitalizi del potere.
Gli enormi monte-premi accrescevano il sogno e le speranze, quasi a voler compensare lo sconforto, la rabbia e il pessimismo per le molte altre cose che non andavano nel paese. Le prime pagine dei giornali e i notiziari televisivi, quando non parlavano di sport, di gossip, di vacanze, martellavano esultanti sui monte-premi raggiunti e sulle vincite.
Una parte della popolazione riteneva immorale attribuire a una sola persona premi così elevati; l’equivalente di mezzo migliaio di case che si sarebbero potute dare ad altrettante famiglie; reputando altresì scellerato il comportamento delle istituzioni, incomprensibile che nessuno protestasse per quella vergogna, soprattutto coloro che, confidando nella fortuna, si illudevano di poter cambiare il proprio destino dando fondo al poco denaro che gli restava.
C’era chi non voleva stare con le mani in mano, e decise così di creare una rete di solidarietà per le necessità piccole e grandi di singoli e famiglie, destinando le somme non giocate, e non solo quelle, nelle casse della nuova organizzazione; poteva farvi parte solo chi era disposto a sottoscrivere un patto di vicendevole trasparenza ed aiuto, dichiarando ciò che possedeva e ciò di cui necessitava. Potevano farne parte ricchi e nullatenenti allo stesso modo; i primi erano pressoché assenti.
Superata la diffidenza iniziale e smascherati gli immancabili furbi, dopo appena un mese di attività s’iniziavano a vedere i primi risultati. Col denaro versato da centomila soci erano stati realizzati interventi di rilievo: un’abitazione a un buon numero di famiglie, salvataggi da mutui capestro e strozzinaggi vari, offerte di lavoro a giovani e disoccupati; ma anche sostegni più blandi, come mantenere i ragazzi bisognosi negli studi, assistenza a domicilio di anziani e malati, abiti e alimenti a chi non ne aveva, e via dicendo. La sorpresa era stata scoprire che migliaia di soci svolgevano da tempo ed in segreto attività di volontariato, quasi vergognandosene; divenne da quel momento in poi, invece, un punto di orgoglio portare la piccola esse dorata dell’Organizzazione.
Il sistema, complesso, funzionava, e s’espandeva a macchia d’olio più di un social network, grazie anche alla rete; nessuno restava scontento delle scelte di sostegno adottate, nemmeno i più scettici, costretti a riconoscere l’efficienza e l’equità dell’Organizzazione; si era contenti per coloro ai quali andava il sostegno, sapendosi che erano stati i più meritevoli, e che neanche un solo euro era andato sprecato.
In pochi mesi milioni di persone potevano fregiarsi della esse dorata. Un fiume di denaro irrorava l’estesa moltitudine senza escludere nessuno, era solo questione di tempo; dopo circa un anno, non farne parte era diventato addirittura discriminante; persino furbi e ricchi furono indotti ad aderire, attenendosi a malincuore alle regole.
In tutte le consultazioni elettorali, immancabilmente, rappresentanti dell’Organizzazione avevano conquistato scranni nei vari consessi politici. Scomparsi dalla scena plutocrati, forcaioli e secessionisti, e il loro servidorame, nel giro di qualche anno le casse dello Stato erano diventate floride e trasparenti. Mentre l’Organizzazione continuava a crescere, le istituzioni avevano iniziato a dare segni inaspettati di credibilità.

Viedellapovertà 2

Forse non sono mai stato abbastanza intelligente, pazienza, bisogna farsene una ragione. E’ una di quelle cose a cui si preferisce non pensare, sperando di cavarsela, in qualche modo. Facevo fatica a concentrarmi, a capire al volo; gli insegnanti rispiegavano per me, e questo non mi faceva piacere, così come le sbuffate, le occhiate e le risatine dei compagni. Tolte storia e religione, ero un po’ una frana ovunque. Ma la storia mi faceva sognare, e dimenticare le cose spiacevoli: i rimproveri, le prese in giro, l’essere ultimo in tutto. Così, non amando il presente e non sognando un futuro, pensavo al passato, al mio, e a quello cento, mille anni fa; a come la gente vestiva, parlava. Mi sarebbe piaciuto vedere il mondo senza macchine, senza tivù e telefoni, con tanta gente in meno. Della religione, quella cristiana, mi colpivano le parole potenti e dure, che scuotevano; ma ce n’erano alcune, “poveri”, “umili” e “puri di cuore”, che sentivo speciali e rivolte a me, proprio a me; mi davano serenità e fiducia quelle parole, forse perché non bisognava faticare per essere così, non c’era niente da imparare, niente da dimostrare. “Le persone così piacciono a Gesù” mi ripetevano al catechismo e a scuola, e io ero contento di sentirmi in quel modo.
Sì, avrei voluto vivere in quei tempi calmi e lenti, senza chiacchiere, senza i rumori di adesso. Poche, semplici parole e tanti silenzi. Poi, si sa, non era solo così – c’erano le guerre, la fame, le malattie… – ma mi piaceva pensarlo.
Bello poter guardare ed ascoltare il mondo senza fretta, adagiarsi su di esso come un bue nell’umido di un prato. Ma intorno a me il mondo correva, fuggiva, mi teneva a distanza; intorno a me occhiate severe e sfuggenti, per nulla benevole. Finite le scuole medie, dopo due bocciature, avevo deciso di non andare avanti. “A questo mondo non sono tutti dei geni, anzi, tante teste di rapa hanno un diploma e una laurea, e sono anche pericolosi” mi ripeteva mio padre per convincermi a continuare “almeno un diploma ci vuole, e tu non sarai peggio di altri…” Ma io niente, il pensiero di tornare sui banchi ad ascoltare cose che non capivo, passando da fesso, mi faceva star male. Dopo molte ricerche, un mio zio mi aveva trovato un posto di magazziniere per una catena di market: scaricavo la merce dai camion e la sistemavo in punti precisi del capannone. Un lavoro semplice, dove ti rompevi la schiena ma non la testa. Mi avevano fatto firmare una lettera di dimissioni senza data, ma cosa comportasse l’ho capito solo dopo; e un’altra con cui dichiaravo di ricevere un dato compenso mentre in realtà ne prendevo uno di molto inferiore. Ma mi stava bene così, dormendo e mangiando dai miei. Con quello che guadagnavo mi ero preso un vespino e qualche indumento. Nei fine settimana uscivo con un collega del magazzino. Un film, una pizza, il biliardo, i videogames; e il venerdì notte, la discoteca, dove però non ballavo; me ne stavo comodo su un divano a guardare qualche bella ragazza, purtroppo, quasi sempre circondata da corteggiatori. Qualcuna avrei voluto avvicinarla, parlarci, uscirci assieme; magari fidanzarmici, e tutto il resto; ma non avevo faccia tosta, non ero uno di quei tipi decisi e con la battuta pronta che le andavano appresso.
Sono arrivato a trent’anni senz’accorgermene. E ancora più rapidamente, ho raggiunto i quaranta. Poco era cambiato rispetto a quando avevo iniziato a lavorare. Stessa vita dentro e fuori il magazzino. Poi un anno fa lo stravolgimento: la morte dei miei genitori, a distanza di un mese l’una dall’altro, la richiesta di liberare l’appartamento dove abitavamo in affitto, quella maledetta lettera di dimissioni firmata al momento dell’assunzione. In tre mesi ho perso tutto, e un nuovo lavoro, visti in tempi, nemmeno a sognarlo. Dormo e mangio da mio fratello, ma non so per quanto. Ho lasciato crescere capelli e barba, imbiancati, dicono, un po’ precocemente. Dovrei essere triste, arrabbiato, indignato, ma non lo sono. Mio fratello ha moglie e figli, e una casa piccola. Così alle otto sono in strada, fino alla sera. Cammino piano, mi guardo intorno. Incrocio altri come me, sempre di più, ogni giorno. Mi osservano, li osservo, senza parlarci. Sembriamo pinguini sulla riva, qualcuno ha detto, in attesa dell’onda; una colonia in crescita. Non so cosa significhi essere intelligenti, a questo punto; se mi manca davvero qualcosa.

Viedellapovertà 1

Mi bastava ciò che guadagnavo. Le spese, certo: un mutuo consistente, le pesanti bollette di luce, gas, telefono; e quelle impreviste, visite o cure mediche a pagamento, un conguaglio da pagare, un regalo, e via dicendo. Ma ci scappavano sempre i libri, le riviste, una serata al cinema.
Poi la separazione, lo stare insieme diversamente, coi figli; l’abbandono di una casa col mutuo ancora da pagare, la rinuncia agli arredi comuni, alla propria auto, alle proprie cose; e una nuova casa in affitto, altri arredi, utensili e oggetti necessari da comprare; e un cumulo di vecchie e nuove bollette.
Secondo l’
Istat, è povero chi dispone di una somma inferiore a c. 600 euro al mese per i consumi. Ma chi ne guadagna mille in più, ma deve pagare parte di un vecchio mutuo, il mantenimento dei figli, l’affitto di un nuovo appartamento con uno spazio anche per loro, col condominio e le immancabili spese, come può definirsi, restandogli poco più di duecento euro al mese per mangiare (lui e i figli) e per qualunque altro acquisto e imprevisto?
Qualcuno subito dirà: peggio per chi mette su famiglia e poi, come sempre più spesso accade, si separa; peggio per chi ha avuto l’ardire di acquistare una casa per non farsi strozzare una vita intera da un affitto, destabilizzare da uno sfratto. Cosa conta se ha studiato molti anni, se ha superato un concorso pubblico selettivo, se ricopre un ruolo di responsabilità, se lavora da più di vent’anni senza avere mai avuto un riconoscimento di carriera, un miglioramento economico, se non nella risibile misura prevista dai contratti collettivi?
Sono però sereno, e grato di essere vivo e con le cose essenziali; grato, soprattutto, agli amici e ai parenti, per gli aiuti inaspettati e salvifici (ancora per quanto?). Ogni considerazione e lamentela personale si ferma qui, pensando ai molti, moltissimi che stanno peggio; a tutti coloro che non hanno proprio nulla, né un lavoro né una casa disperando per l’uno e per l’altra; ai tanti giovani con qualità e competenze da poter ricoprire, degnamente, qualunque incarico pubblico o privato, quanto e più di chi attualmente lavora. Tacere ed arrangiarsi, allora, come molti fanno, ripetendosi di continuo che la povertà è ben altro, che si tratta soltanto di un periodo difficile per te e per tutti, che poi passa, che l’importante è conservare un lavoro, specie se garantito, di questi tempi? Le cadute e le ossa rotte restano, però, cadute ed ossa rotte, sulla strada della vita, e piuttosto che tacere, per pudore o inopportunità, prima di parlare di fatalità o di inavvedutezza, sarebbe giusto che chi di dovere inizi seriamente a riparare buche e fossi lungo tutte le strade affinché nessuno possa più caderci, restando in terra, magari, senza potersi più risollevare.

Da: “Il Panico e la Grazia” di Emidio MONTINI

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“…Sono fratello germano del dubbio!” Sì, era proprio vero, e nel parlarne mi si rivelava. Quello zoccolo duro ch’era il mio inferno e la mia grazia. Precoce in talune cose, refrattario in altre: ritardato in molte, mi rivedevo non molti anni prima accovacciato presso il termosifone dl bagno intento a leggere con un senso di estasi il Fedone. Ogni tanto mi alzavo e sbirciavo dalla finestra. I miei ricordi più vivi appartengono alle giornate di pioggia o di neve. I gerani, in estate, ben disposti da mia madre sul balcone, erano lucidi. Per le strade le luci dei lampioni, l’affrettarsi della gente, i colori degli ombrelli. Ragazzi e ragazze passavano strettamente abbracciati. A volte si fermavano sotto un balcone per baciarsi, si accarezzavano senza curarsi di me che li vedevo. Sentivo allora molte cose scorrere. E desideravo e invidiavo, tutto così facile, per gli altri. Tutto a portata di mano. Mi dicevo che non era giusto, ma non sapevo, non potevo diversamente. “Avevi ucciso la fame!” mi disse il ragno, “E ciò non è buono. E’ come uccidere il proprio bue”. Certo, e lo sapevo, in un qualche modo. Ma mi trovavo nelle stesse condizioni di chi debba compiere un atto vitale, e che per farlo debba forzare se stesso: lavorare di coltello su un morso non cercato”. La mia adolescenza è stata senza equilibrio. Già allora sentivo di essere diverso. Non ero certo un mostro, ma l’amore non mi toccava. Nessuno mi cercava: non la seconda volta. Non partecipai ad una sola festa se non molto tardi. In quanto a ragazze, non ero capace di corteggiarne alcuna: né tanto meno di conquistarne. Ma la causa principale non era la timidezza, mi infastidiva il gioco ipocrita dei rapporti. La mimica da pavoni nella commedia dei sessi. Quella che avrebbe dovuto essere pura esuberanza diventava recitazione, contatto di maschere. Non che avessi tendenze ascetiche, tutt’altro, respiravo l’odore del sesso nell’aria! Forse molto più degli stessi ganzi d’allora, delle prime donne. Arrivo ora a pensare che quel che temevo ero io stesso. La violenza potenziale del mio stesso istinto. A questa probabilmente opponevo inconsciamente il mio veto e perdevo il mio tempo senza concludere nulla. Senza trovare il coraggio né d’agire secondo il mio puro appetito né d’adottare i costumi dei miei coetanei. Non detti un solo vero bacio che a vent’anni! Oggi può sembrare pazzesco ma è così. Mi trascinavo respirando l’atmosfera rarefatta delle vette, mi isolavo, diventando sempre più bizzarro, ribelle. Agognavo le vanità che disprezzavo, e sempre ne fuggivo sogghignando, o pensandone peste e corna! Eppure quanti lamenti e paure e digrignare di denti: quanta distanza fra me e gli altri! Più tardi trovai un gruppo d’amici e amiche. Dapprima, credo, mi condusse a loro proprio la mia bizzarria, li guidava una sorta di curiosità verso l’eccentrico, il distorto. Solo più tardi si creò fra noi un legame più vero. Mi ricordo che in quegli anni avevo un’abitudine particolare: ogni tanto sparivo senza dir nulla. Neppure ai miei. Nessuno sapeva dove mi trovassi. Di solito stavo via pochi giorni. Viaggiavo intorno ai nostri laghi, dormivo nei giardini di Venezia, sulle colline di Trieste, vicino ai caselli delle autostrade. Mandavo agli amici cartoline con sopra versi sconclusionati. Dopo qualche giorno tornavo fresco come una rosa, ma presto ricadevo nei miei scoramenti d’adolescente irrequieto, per fortuna in quel periodo non mi innamorai mai veramente. Di certo sarebbe stato un amore non corrisposto e ne sarei stato male da cani. Al culmine dei miei movimenti neri, un pensiero confortante mi spronava a andare avanti. Nulla di chiaro, solo un barlume come alla fine di un tunnel. Vedrai, mi dicevo, vedrai che tutto cambierà. Verrà anche per te il momento e sarà come lo sogni. Interamente tuo e bello, e mi riferivo all’amore sì, ma anche ad altro. Forse era una sorta di tenacia mista a orgoglio, ne non voler essere come gli altri. Quella che era una naturale diversità divenne un perverso accanimento. Che mi portava avanti, lavorando per me e contro di me. Ero torrido e non tiepido. Ora sto imparando a coltivare la mia diversità, senza farne una divinità rigida e infeconda. In quegli anni mi vestivo in maniera veramente impossibile. E questo non perché non avessi abiti migliori, ma perché disprezzavo le apparenze, perché quella era una delle forme per rendere manifesto il mio rifiuto, la mia ribellione interna con atteggiamenti visibili, incontrovertibili. Ma la spaccatura non era generazionale, era decisamente esistenziale e quindi metafisica. Io sarò migliore o peggiore, ma almeno non mi camuffo. Non mi nascondo a voi e non mi cerco in voi. E questo Voi era un generico Tutti. Ora capisco che in parte sbagliavo. E mi rendevo la vita difficile. Meglio sarebbe stato cercarmi in ognuno senza perdere io nocciolo originale ch’era in me. Mi dicevo: non vi è nulla che vi distingua veramente, non sogni non rabbia. Non moti vivaci e danzanti, non l’azzardo di fedi vissute nell’azione. Una ripetizione costante, una monotona successione di recitate parti. Nessuno è indispensabile quando il sangue è codificato, la danza delle apparenze ha il solo fine di simulare l’esteso, il copioso: non di edificare il Duraturo, qui nel tempo dell’Uomo. (Pagg 61-64)

Emidio MONTINI
Il Panico e la Grazia

L’Arcolaio di Gianfranco Fabbri
Prefazione di Filippo Davòli

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Fabrizio CENTOFANTI “Guida pratica all’eternità”

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   Anche sul blog La Poesia e lo spirito

 

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Vulcani

Turi era un ragazzo esile, ma con un sacco di idee. Nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande, come l’Etna, che torreggiava sulle strade del suo paesone. La montagna lo ispirava: si sentiva nelle viscere la stessa potenza, che poteva fare di lui un uomo fortunato, uno di quei ricchi con il Rolex d’oro che aveva visto nelle pagine dei giornali per femmine letti e riletti dalla madre e la sorella.
Passava le giornate a pensare al futuro: gli stavano stretti i banchi della scuola e anche i giochi con quei babbazzi dei suoi coetanei. Lui guardava i grandi, non quelli del paese: quelli visti in tivù, che entravano in banca, o avevano una segretaria, o dettavano legge nei cantieri.
Man mano che cresceva, lavorando tanto e lavorando bene, si accorse di avere un dono naturale: quello di rimettere in piedi le imprese agonizzanti: le portava in alto in poco tempo, dopo di che mollava tutto e ripartiva con un nuovo moribondo.
La sua vita era una corsa, aveva un amore sviscerato per le auto di lusso. Si sentiva inebriato quando accarezzava il volante di una Ferrari o di una Jaguar, ma non per esibizionismo da strapazzo; lui non era come i compaesani arricchiti che strombazzavano il clacson esibendo benessere e dentiere. Doveva solo dimostrare a se stesso che il ragazzo con un sacco di idee aveva davvero la potenza del vulcano. Entrò nel mondo del cinema. Tutto quello che toccava diventava oro.
Più lo conoscevo, Turi, più la sua esistenza mi sembrava l’opposto della mia. Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici. I miei sogni erano altri, facevano un percorso inverso, invisibile al mondo; non sapevo che avrei fatto la scelta di entrare in seminario, ma il mio desiderio aveva la stessa intensità di Turi, eravamo due vulcani contrapposti, lui con i lapilli lanciati verso il cielo, io con la lava che scendeva a valle con una marcia altrettanto irresistibile.
Turi era diabetico, ma cucinava da dio. La sua pasta alla Norma, con le melanzane siciliane, non aveva uguali. Alla faccia del diabete, non disdegnava nemmeno la granita e la brioche delle dieci del mattino. Ma era il pesce spada il suo capolavoro: nessuno ne conosceva il segreto, e il piatto gli usciva dalle mani come per miracolo.
A Taormina veniva incontro a me e don Mario in costume da bagno e ciabattine, col suo passo pesante e ondulatorio, la pancetta e gli occhiali da sole: sembrava un cineasta americano di quelli che mettono in mostra sui giornali, con il Rolex d’oro al polso.
Turi diceva che i preti erano egoisti, mentre lui rischiava tutto mettendo in gioco quello che aveva accumulato. “E perché, noi?” volevo dirgli. Ma a Turi, su questo punto, era inutile rispondere, stava già parlando d’altro.
A Roma si era fatto costruire una casa da uno degli architetti italiani più famosi: era in collina, e voleva forse riprodurre un sogno di potenza lavica e lapillica, un simbolo di vita che si espande, e non, diceva lui, come la vita dei preti che si conserva e preserva – e io volevo dirgli: “La nostra?”, perché già m’identificavo con don Mario – ma lui parlava d’altro.
Ne aveva fatta di strada, Turi. Ora correva sulla Taormina-Messina con la sua Jaguar fiammante che divorava i chilometri come Scilla e Cariddi i marinai. Curva dopo curva inseguiva il suo sogno di ragazzo esile con un sacco di idee, anche adesso che pesava cento chili e con gli occhiali da sole sembrava un cineasta americano.
Fu del tutto imprevisto il meccanismo inceppato del volante, l’imprecazione gli uscì naturalmente, come un sussulto del vulcano, e l’ultima immagine, prima dello schianto, fu quella della sua montagna. Rimase riverso sul volante, come un eroe morto in battaglia.
L’ambulanza arrivò dopo mezz’ora; nessuno ritrovò il suo Rolex d’oro, l’ultimo dono di una vita da grandi, vissuta sull’orlo del cratere.

Fabrizio Centofanti

Guida pratica all’eternità.

Racconti fra cielo e terra.

Effatà editrice, 2008
Prefazione di Remo Bassini
Postfazione di Riccardo Ferrazzi

 (Il libro è acquistabile su IBS)

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“I libri che preferisco – dice l’editore, protagonista del primo testo della Guida – sono quelli di racconti: leggeri e discreti, passano quasi inosservati ma gettano semi di storie che qualcuno, passando, raccoglie e fa fruttare altrove, in una catena interminabile”. Fabrizio Centofanti, laureato in lettere moderne e sacerdote diocesano, è, per l’appunto, un “seminatore” o, meglio, un seminatore col sole che tramonta, secondo il titolo del quadro di Van Gogh scelto per la copertina del libro. A questa considerazione si perviene dopo aver letto i suoi diciannove racconti e, in particolare, Ventuno dicembre 2012, nel quale si può leggere, in filigrana, un drammatico tramonto di civiltà. Fabrizio Centofanti è un uomo che veglia: sul mondo letterario – di cui fa parte con le sue pubblicazioni di poesia, narrativa e saggistica e con la gestione di uno dei blog collettivi più attivi e visitati in Italia – e sulla comunità parrocchiale affidata alle sue cure. E non solo, crediamo. Ci siamo conosciuti in rete in occasione di un suo commento nel mio blog; l’intervento precedente era di un anonimo firmatosi 666; credo poco alla casualità degli incontri e degli eventi, penso che la capacità di ascolto e percezione sia un grande dono, chiaramente ravvisabile nelle pagine del libro: “Quando mi chiedono di leggere il futuro, mi trovo in imbarazzo. Non mi piace sentirmi un fenomeno perché so che non ho meriti […]” (Dialoghi fra la terra e il cielo); “la sacrestia è la pedana di lancio, con le sue pareti spoglie, le ragnatele che pendono dall’alto. Lì sei ancora uomo, con le incertezze e le paure. Dopo, quando superi l’archetto, non sei più tu a guidare il gioco.” (Levate la pietra); “Il 21 dicembre del 2012 ci sarà un cataclisma di proporzioni gigantesche che spazzerà via una parte dell’umanità: ne ho la certezza, non chiedetemi di svelarvi la serie di coincidenze che mi ha portato a sapere” (Ventuno dicembre 2012).
Un intervento critico non dovrebbe soffermarsi più di tanto sulla biografia di chi scrive, per parlare invece dell’opera, dei suoi contenuti e della forma; sento però che questo lavoro lo esige, poiché a raccontare non è solo un artista; e perché il libro non è soltanto un’opera letteraria, e il titolo, Guida pratica all’eternità, parrebbe confermarlo.
Dopo la lettura dei primi racconti ci sovvengono alcune voci note: “descrivi il tuo villaggio e sarai universale” (Tolstoi), “parla solo di ciò che conosci” (S. King), “descrivi e non fare il furbo” (Puskin). Ebbene, l’autore, queste voci – e non solo queste – sembra averle ascoltate tutte. Il villaggio è la parrocchia. Le persone che ci vivono o ci gravitano sono i protagonisti di queste storie spesso disperate. L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura.
Le storie sono percorse da pensieri, sentimenti ed esperienze di vita vissuta. La parrocchia è il luogo dove molte di esse si svolgono: nel rito di una messa (Levate la pietra) o nel porto/crocevia della canonica, approdo di ladri, vandali, incendiari, barboni, suore, tossicodipendenti, prostitute: umanità assai cara ai due Fabrizi (al Nostro e al De Andrè).
Nei racconti è spesso presente un personaggio che subito intuiamo significativo per l’autore, don Mario Torregrossa (“fondatore del Centro di formazione giovanile Madonna di Loreto-Casa della Pace, in Roma”); egli compare nelle storie come compagno di viaggio – pure lui in prima linea – e come interlocutore, e testimone; ma anche, drammaticamente, come protagonista di un atto di violenza per lui quasi fatale, quando gli dettero fuoco e stette per mesi in rianimazione, come si racconta ne La bestemmia soffocata. Un altro bel racconto, in forma epistolare, è dedicato a Sante Bernardi la cui vicenda umana, per i riflessi nel sistema sanitario, ha visto coinvolte le massime istituzioni nazionali (Lettera di Natale – a un amico malato di SLA).
Storie, sempre, comunque, emblematiche quelle che Fabrizio Centofanti ci racconta; talvolta assai toccanti, e capaci di lasciare un segno forte. Storie scritte con sapiente semplicità, affidandosi “alla maestra dei poveri, la vita, con le sue aule scalcinate, le lezioni elementari ma piene di una incontrovertibile saggezza.”

Giovanni Nuscis

 

 

Forestieri

san-teodoro

 

 

 

 

 

    Molto tempo fa un turista prese alloggio in un paesino della costa, a poche centinaia di metri da una spiaggia straordinariamente bella, con sabbia finissima e acqua turchese. Pagava in anticipo, il turista, giorno per giorno, avendo preferito non mettere limiti alla sua permanenza. Ogni mattina si recava in spiaggia indossando abiti leggeri e colorati, tra i sorrisi dei paesani che vestivano tutti, più  o meno, con le stesse cose scure. Era la prima volta che qualcuno piantava un ombrellone su quella spiaggia ritenuta da molti un dono scontato. C’era chi ogni tanto osservava l’ospite di nascosto, con discrezione, sembrandogli assurdo, ridicolo che uno potesse starsene lì buttato per ore; l’avevano fermato più volte per scambiarci qualche parola, ma il fatto di parlare lingue diverse aveva impedito il dialogo, con imbarazzo per entrambi.

    Col passare dei giorni, però, considerarono i paesani, avere in mezzo a loro uno con cui non s’intendevano, che abitava in una loro casa, passava sulle loro strade sfiorando le loro donne e i loro bambini, iniziava a dare un certo fastidio. Cominciarono così a porsi delle domande: perché era venuto a soggiornare lì e non, invece, in qualche altro paese più grande e più accogliente del loro? E come mai era venuto solo? Perché se ne stava tutto il giorno in spiaggia e non frequentava la piazza e l’osteria del paese? Perché piantava quella specie di ombrello ridicolo in quel punto preciso della spiaggia e non in altri? E molte domande ancora.

    Dopo circa un mese, il turista si congedò dalla pensione che lo ospitava togliendo l’incomodo della sua presenza. Difficile dire se si fosse accorto di non essere più gradito. Al suo posto, giunse dalla non lontana città un avvocato con moglie e due bambini vivaci e chiassosi, soprattutto nelle ore del riposo pomeridiano. L’avvocato aveva modi padronali e sbrigativi ma, a suo modo, cordiali, e tutti l’ossequiavano, anche se non dava alcuna confidenza.

    L’anno seguente l’avvocato acquistò la casa dove era stato ospite; gli fu proposta la carica di sindaco, e intanto il fratello acquistò un terreno dove nacque presto un albergo.
    La pessima gestione della struttura, dovuta in parte all’apatia e all’incompetenza del personale del posto, indusse dopo anni a cedere albergo e gestione ad una multinazionale che s’avvalse di maestranze straniere. La società, di lì a poco, acquistò tutti i terreni edificabili nel raggio di decine di chilometri. Dietro quegli investimenti dicevano che ci fosse un unico proprietario, un miliardario austriaco che aveva soggiornato in quei posti innamorandosene.

    Dopo pochi anni il litorale era gremito di turisti di ogni provenienza. I paesani, per necessità o perché così facevano tutti, avevano dunque ceduto terreni e molte delle loro case. Del vecchio paese, con le sue caratteristiche e abitudini, in breve tempo era rimasto poco. Erano nati negozi, bar ristoranti e strutture turistiche affollati fino a tarda notte. I gestori, curiosamente, sembrava lo facessero apposta a non farsi capire dalle persone del luogo, divenute elemento di folclore coi loro balli e costumi in occasione di feste e di presenze importanti; essi si trovarono costretti ad imparare un po’ di tedesco e di inglese anche per acquistare, a buon prezzo, un chilo di patate, o per raggiungere direttamente il mare tagliando per un residence, ringraziando intimoriti, ogni volta, bagnini e vigilantes.

 

GN

 

“La poesia e la fabbrica” di Luigi DI RUSCIO

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Mi alzo alle cinque del mattino, ecco la fabbrica, il reparto che richiede una frenetica mobilità sino a farmi crollare per lo sfinimento, tenere in movimento tre trafilatrici, correre da un punto all’altro della crisi dei fili, poi di corsa a casa in bicicletta mettere subito in movimento la macchina da scrivere oggi bene ripulita con l’alcol denaturato ed è bella anche a vedersi, azzurrina come è e dopo aver fatto lo schiavetto tutto il giorno eccomi davanti ai verbi, riferire le notizie della nostra brutalizzazione, i disoccupati, gli esclusi dall’inferno quotidiano si disperano, reclamano un posto in questi gironi infernali, ecco le poesie dirette solo a chi ha raggiunto un alto grado di alfabetizzazione e solo un minimo grado di brutalizzazione, poesie da spedire ai complici della congiura poetica, riferire il grado della nostra pericolosità, e quando raccontavo ad un cieco dalla nascita tutto quello che vedevo io riuscivo a vedere meglio, riferire il grado raggiunto del nostro complotto poetico, esprimere il massimo delle rivelazioni con un linguaggio il più ludico possibile, un linguaggio che dovrebbe essere anche irrisione dei linguaggi aulici, autorizzati, come se il vedere fosse possibile solo attraverso una grazia gratuita data disinteressatamente essendo tutti peccatori e non meritano che l’inferno della cecità. Dopo l’orrore d’ogni giorno a casa quando mi metto a scrivere l’urlo di quell’orrore è ancora tutto presente, in tanti poeti la condizione dei culi seduti s’introdurrà nelle loro poesie, io sono in piedi per troppo tempo perchè la posizione eretta sia quella dominante e mi ripeto continuamente: NON INDEGNAMENTE MI ADDENTO NELLE TELEBRE e la presenza degli oppressi e stritolati è dietro le mie spalle e quando scrivo le scariche dell’Olivetti studio 46, macchina da scrivere rumorosissima è come se partissero le scariche di un ammattito kalashinikov e la consorte diceva che le scariche le sentiva appena imboccava lo stradone che la riportava a casa e i vicini domandano: Ma signora cosa ha da scrivere tanto suo marito? È italiano sa signora, scrive solo in italiano e neppure io so con precisione quello che mi combina. La cosa è scusata, proviene da uno straniero, strano, estraneo, stranito, estraniato. Ed è perfettamente vero, mia moglie parla solo il norvegese e neppure lontanamente immagina tutto quello che vado scrivendo e gliene importa anche poco di saperlo, insomma sono una curiosità compatita. E un giorno improvvisamente mi ha detto, caro marito con il tuo cognome qui non si va più avanti, mi riprendo il cognome tanto facile che avevo da ragazza, basta con questo D come David, I per Irene eccetera e con nome da ragazza più leggermente varcherà le porte delle provvidenze burocratiche senza dover spiegare anche a quel Porco le provenienze di un cognome così assurdo.

Mi informo della condizione operaia in Italia pare che per essere assunti alla Fiat visite mediche di tre giorni, medici al servizio della salute della Fiat, il padrone scruta con molta attenzione il nemico, medici non al servizio della salute degli uomini ma al servizio dei profitti della fabbrica, il medico tasta le nostre palle, introduce il dito nel buco del culo, non si capisce che cazzo vanno cercando, l’operaio è immesso in una continua brutalizzazione, in un massacro continuo la prima cosa che se ne va a puttana è la nostra umanità. L’oppresso si identifica con l’oppressore che diventa il modello della quotidianità, la criminalità ha i suoi modelli sublimi, il tutto è espresso dall’urlo, gli urli delle partite di calcio, l’urlo dei versi, l’urlo della Guernica.

Ci fu un periodo di stasi alla scrittura continua, anche per questioni famigliari, però alla fin e degli anni sessanta la follia poetica mi riprese interamente, scrivevo disperatamente delle streghe che si arrotano le dentiere, costatavo con precisione la responsabilità della mia poesia sull’insonnia dei sparuti lettori delle mie poesie, il sottoscritto chiamato anche poeta del ferro per aver lavorato per quasi anni quaranta nell’inferno di una fabbrica metallurgica, critici più o meno illustri mi fecero sapere che la poesia dei metallari aveva disgustato anche chi non l’aveva mai letta, come un morbo invisibile la voce della catastrofe si era sparsa nel mondo delle lettere sacre, qui è tutto blasfemico, comunque quel papa che parla l’italiano con l’accento tedesco a me sembra schifoso è da tutti bene accetto anche per le sue mossetta benedicente, IO CONTINUAVO AD INSISTERE DELLA FABBRICA COME CATTEDRALE DEL NOVECENTO. Mi trovavo alla basa della piramide sociale, essere licenziati era come essere sospinti nel niente, io potevo sempre diventare un barbone, ma li avete mai visti barboni con figli 4 e con una moglie che sta sempre a mettere in moto aspirapolvere? La produzione dell’acciaio è come la consacrazione dell’eucaristia, per aumentare lo spessore della mia poesia introducevo pezzi di prosa andati a male, sospesi nel lago della pagina bianca, ignoravo l’ago e sputavo un dente, scritture di terribili catastrofi scritte tutte mentre ridevo, forse sarebbe stato meglio nascondere la mia condizione operaia, far sapere che avendo sposato la figlia di un grosso e grasso armatore norvegese ero diventato un mantenuto ingrassato e potevo scrivere le poesie dalla mattina alla sera con i due ditini che come zappette di grilli saltellano sulla tastiera, se faremo le fabbriche senza uomini dovremo eliminare i padroni oppure tutti noi saremo eliminati, la nostra vita non varrà neppure un soldo sputato, per continuare ad esistere avremo solo le montagne odorose dei rifiuti metropolitani, la speranza della nostra sopravvivenza è affidata alla più assurda delle utopie.

 

 http://www.diruscio.it

 

LA POESIA E LA FABBRICA (Prosa di Luigi Di Ruscio pubblicata nel gennaio 2008 nel supplemento mensile “il Mese” di RASSEGNA SINDACALE )

Thomas MANN – Gli affamati

munch MELANKOL

    Di che parlavano? Di che mai continuavano a parlare? Ah, quel conversare che sgorgava facile e schietto dalla fontana inesauribile dell’innocenza, della spontaneità, dell’ingenua gaiezza, e al quale egli non sapeva prender parte, serio e tardo com’era stato fatto da una vita di vaneggiamenti e di intuizioni, dalle introspezioni paralizzanti e dalle angosce del creare! Se n’era andato: in una crisi di fierezza, di disperazione e di magnanimità s’era allontanato di soppiatto, aveva lasciate sole le due creature; ed ecco che ora, da lontano, con quel nodo di gelosia alla gola, stava ad osservare il sorriso di sollievo e d’intesa con cui coloro salutavano la scomparsa della sua presenza opprimente.

    Perché era venuto? Perché anche quella sera era tornato lì? Che cosa lo spingeva a mescolarsi, più tormentato che mai, alla folla dei semplici e degli schietti, a quella folla che gli si stringeva attorno eccitandolo, ma in realtà lasciandolo a margini? Oh, lo conosceva bene, quel desiderio! “Noi solitari”, così aveva scritto una volta, in un’ora di chiaroveggenza “noi segregati sognatori, diseredati dalla vita, che viviamo i nostri giorni arzigogolando in un esilio gelido e artificioso… noi che effondiamo intorno un freddo alone di uggia invincibile, non appena mostriamo in mezzo a esseri viventi le nostre fronti segnate dalla consapevolezza e dalla avidità… noi poveri spettri dell’esistenza, che gli altri abbordano con timoroso rispetto, per poi abbandonarci al più presto nuovamente a noi stessi, così che il nostro vuoto sguardo di onniscienti non turbi più oltre la gioia… tutti coviamo in noi un logorante, riposto struggimento per ciò che è ingenuo, semplice, vivo, la nostalgia per un poco d’amicizia, d’abbandono, di confidenza, di felicità umana. La ‘vita’, dalla quale siamo esclusi, non si presenta a noi anomali come anomalia, come una visione di sanguinosa grandezza o di bellezza selvaggia; no, il regno delle nostre aspirazioni è proprio la normalità, la decenza, l’amabilità, insomma, la vita nella sua banalità seducente..”

    Guardò i due che stavano chiacchierando mentre ovunque nella sala cordiali risate interrompevano il suono dei clarinetti che sfigurava il dolce, affannoso motivo d’amore in accenti di svenevolezza assordante… Questo voi siete, disse tra sé. Siete la calda e soave assurdità della vita, di quella  vita che è l’eterno contrapposto dello spirito. Non crediate al suo disprezzo; mai, mai prestate fede ai suoi atteggiamenti di sufficienza. Sotterranei coboldi, spiriti impuri ammutoliti nel conoscere, siamo noi a seguirvi di soppiatto, a distanza, e un desiderio divorante arde nei nostri occhi: essere come voi.

    Ti ribelli, orgoglio? Vuoi negare la nostra solitudine? Vuoi dare ad intendere che la creazione spirituale garantisca all’amore una più alta unione coi vivi in tutti i luoghi e in tutti i tempi? Suvvia! A chi, a chi mai siamo uniti? Sempre e soltanto a nostri uguali, ai sofferenti, agli agognanti, ai miseri, e mai a voi occhiazzurrini, a voi che non avete bisogno dello spirito!

    Ballavano, ora. Le improvvisazioni sulla scena erano terminate. L’orchestra strombettava, cantava,  e le coppie scivolavano, giravano e ondeggiavano sul liscio pavimento. E Lilli ballava col piccolo pittore. Con quanta leggiadria  la sua testina vezzosa emergeva dal calice del colletto rigido, ricamato d’argento! Elastici, snelli, si muovevano e piroettavano nello spazio ristretto; il viso di lui era rivolto al suo; e sorridenti, in sorvegliato abbandono alla dolce trivialità del ritmo, continuavano a chiacchierare.

    Un gesto come di mani afferranti e plasmanti scaturì improvviso nel solitario. Nonostante tutto siete miei – pensava – nonostante tutto vi domino! Non posso forse guardare con un sorriso nel fondo delle vostre anime semplici? Non posso osservare e conservare in me, con irridente amorevolezza, ogni ingenuo movimento dei vostri corpi? E di fronte al vostro inconscio agitarvi non si tendono forse in me le energie della parola e dell’ironia, fino a farmi palpitare di un senso esultante di forza, del mio giocoso desiderio di raffigurarvi, di fissare nella luce della mia arte, per la commozione del mondo, la vostra insensata felicità?…

    Ma subito, nel suo intimo, quel  moto orgoglioso di ribellione ricadde esausto e pieno di rimpianto. Oh, per una volta sola, solo per una notte come questa, non essere artista, essere uomo! Sfuggire una volta alla condanna che inesorabile ingiungeva: non ti è concesso di esistere, ma di guardare; non di vivere, ma di creare; non di amare, ma di sapere! Una sola volta vivere, amare, gioire in schiettezza, in semplicità di sensi! Una volta essere tra voi, o creature viventi,essere in voi, essere voi! Conoscere per una volta l’estasi di assaporarvi, o voluttà della vita mediocre!

 

 

Thomas Mann – da: “Gli affamati” (Bozzetto)(1903) – Racconti (Oscar Mondandori)