Archive for Maggio 2007

Pier Paolo Pasolini – “Le ceneri di Gramsci”

Pasolini sulla tomba di Gramsci

Da:  Le ceneri di Gramsci (1954)

 

 

I

 

 

Non è di maggio questa impura aria

che il buio giardino straniero

fa ancora più buio, o l’abbaglia

 

con cieche schiarite… questo cielo

di bave sopra gli attici giallini

che in semicerchi immensi fanno velo

 

alle curve del Tevere, ai turchini

monti del Lazio.… Spande una mortale

pace, disamorata come i nostri destini,

 

tra le vecchie muraglie l’autunnale

maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,

la fine del decennio in cui ci appare

 

tra le macerie finito il profondo

e ingenuo sforzo di rifare la vita;

il silenzio, fradicio e infecondo….

 

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore

era ancora vita, in quel maggio italiano

che alla vita aggiungeva almeno ardore,

 

quanto meno sventato e impuramente sano

dei nostri padri – non padre, ma umile

fratello – già con la tua magra mano

 

delineavi l’ideale che illumina

(ma non per noi: tu, morto, e noi

morti ugualmente, con te, nell’umido

 

giardino) questo silenzio. Non puoi,

lo vedi?, che riposare in questo sito

estraneo, ancora confinato. Noia

 

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,

solo ti giunge qualche colpo d’incudine

dalle officine di Testaccio, sopito

 

nel vespro: tra misere tettoie, nudi

mucchi di latta, ferrivecchi, dove

cantando vizioso un garzone già chiude

 

la sua giornata, mentre intorno spiove.

 

 

 

III

 

 

Uno straccetto rosso, come quello

arrotolato al collo ai partigiani

e, presso l’urna, sul terreno cereo,

 

diversamente rossi, due gerani.

Lì tu stai, bandito e con dura eleganza

non cattolica, elencato tra estranei

 

morti: Le ceneri di Gramsci… Tra speranza

e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato

per caso in questa magra serra, innanzi

 

alla tua tomba, al tuo spirito restato

quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa

di diverso, forse, di più estasiato

 

e anche di più umile, ebbra simbiosi

d’adolescente di sesso con morte…)

E, da questo paese in cui non ebbe posa

 

la tua tensione, sento quale torto

-qui nella quiete delle tombe- e insieme

quale ragione – nell’inquieta  sorte

 

nostra – tu avessi stilando la supreme

pagine nei giorni del tuo assassinio.

Ecco qui ad attestare il seme

 

non ancora disperso dell’antico dominio,

questi morti attaccati a un possesso

che affonda nei secoli il suo abominio

 

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,

quel vibrare d’incudini, in sordina,

soffocato e accorante – dal dimesso

 

rione – ad attestarne la fine.

Ed ecco qui me stesso… povero, vestito

dei panni che i poveri adocchiano in vetrine

 

dal rozzo splendore, e che ha smarrito

la sporcizia delle più sperdute strade,

delle panche dei tram, da cui stranito

 

è il mio giorno: mentre sempre più rade

ho di queste vacanze, nel tormento

del mantenermi in vita; e se mi accade

 

di amare il mondo non è che per violento

e ingenuo amore sensuale

così come, confuso adolescente, un tempo

 

l’odiai, se in esso mi feriva il male

borghese di me borghese: e ora, scisso

– con te – il mondo, oggetto non appare

 

di rancore e quasi di mistico

disprezzo, la parte che ne ha il potere?

Eppure senza il tuo rigore, sussisto

 

perché non scelgo. Vivo nel non volere

del tramontato dopoguerra: amando

il mondo che odio – nella sua miseria

 

sprezzante e perso – per un oscuro scandalo

della coscienza…

 

 

 

IV

 

 

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere

con te e contro di te; con te nel cuore,

in luce, contro di te nelle buie viscere;

 

del mio paterno stato traditore

– nel pensiero, in un’ombra di azione –

mi so ad esso attaccato nel calore

 

degli istinti, dell’estetica passione;

attratto da una vita proletaria

a te anteriore, è per me religione

 

la sua allegria, non la millenaria

sua lotta: la sua natura, non la sua

coscienza; è la forza originaria

 

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,

a darle l’ebbrezza della nostalgia,

una luce poetica: ed altro più

 

io non so dirne, che non sia

giusto ma non sincero, astratto

amore, non accorante simpatia…

 

Come i poveri povero, mi attacco

come loro a umilianti speranze

come loro per vivere mi batto

 

ogni giorno. Ma nella desolante

mia condizione di diseredato,

io possiedo: ed è il più esaltante

 

dei possessi borghesi, lo stato

più assoluto. Ma come io possiedo la storia,

essa mi possiede; ne sono illuminato:

 

ma a che serve la luce?

 

 

 

V

 

 

Non dico l’individuo, il fenomeno

dell’ardore sensuale e sentimentale…

altri vizi esso ha, altro è il nome

 

e la fatalità del suo peccare…

Ma in esso impastati quali comuni,

prenatali vizi, e quale

 

oggettivo peccato! Non sono immuni

gli interni e esterni atti, che lo fanno

incarnato alla vita, da nessuna

 

delle religioni che nella vita stanno,

ipoteca di morte, istituite

a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

 

Destinate a esser seppellite

le sue spoglie al Verano, è cattolica

la sua lotta con esse: gesuitiche

 

le manie con cui dispone il cuore;

e ancora più dentro: ha bibliche astuzie

la sua coscienza… e ironico ardore

 

liberale… e rozza luce, tra  i disgusti

di dandy provinciale, di provinciale

salute… Fino alle infime minuzie

 

in cui sfumano, nel fondo animale,

Autorità e Anarchia… Ben protetto

dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

 

difendendo una ingenuità di ossesso,

e con quale coscienza!, vive l’io: io,

vivo, eludendo la vita, con nel petto

 

il senso di una vita che sia oblio

accorante, violento… Ah come

capisco, muto nel fradicio brusio

 

del vento, qui dov’è muta Roma,

tra i cipressi stancamente sconvolti,

presso te, l’anima il cui graffito suona

 

Shelley… Come capisco il vortice

dei sentimenti, il capriccio (greco

nel cuore del patrizio, nordico

 

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco

celeste del Tirreno; la carnale

gioia dell’avventura, estetica

 

e puerile: mentre prostrata l’Italia

come dentro il ventre di un’enorme

cicala, spalanca bianchi litorali,

 

sparsi nel Lazio di velate torme

di pini, barocchi, di giallognole

radure di ruchetta, dove dorme

 

col membro gonfio tra gli stracci un sogno

goethiano, il giovincello ciociaro…

Nella maremma, scuri, di stupende fogne

 

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro

il nocciolo, pei viottoli che il buttero

della sua gioventù ricolma ignaro.

 

Ciecamente fragranti nelle asciutte

curve della Versilia, che sul mare

aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

 

le tarsie lievi della sua pasquale

campagna interamente umana,

espone, incupita sul Cinquale,

 

dipanata sotto le torride Apuane,

 i blu vitrei sul rosa… Di scogli,

frane, sconvolti, come per un panico

 

di fragranza, nella Riviera, molle,

erta, dove il sole lotta con la brezza

a dar suprema soavità agli olii

 

del mare… E intorno ronza di lietezza

lo sterminato strumento a percussione

del sesso e della luce: così avvezza

 

ne è l’Italia che non ne trema, come

morta nella sua vita: gridano caldi

da centinaia di porti il nome

 

del compagno i giovinetti madidi

nel bruno della faccia, tra la gente

rivierasca, presso orti di cardi,

 

in luride spiaggette…

 

Mi chiederai tu, morto disadorno,

d’abbandonare questa disperata

passione di essere nel mondo?

 

 

La scrittura…

attraverso il corpo umano

 

La scrittura è arteria
che sfoga sulla pagina
ad ogni sbalzo pressorio;
invece che all’interno:
emorragia che sbianca il segno.

-inedito-

Lingua falena balena…

Martino Bissacco Oceano

 

Lingua falena balena
in nero cielo oceano libera
bocca a bocca
in rotta di silenzi.
Veglia di ventre e limbo
cargo di millenni.
Ingrembati al di qua
di culla vuota di culla
nel sonno del sogno
assolo d’un ritmo solo.

 

Giovanni Nuscis

9 maggio 2007
-inedito-

Primo maggio e due giugno…

Efesto, dio del fuoco e fabbro degli dei

Primo maggio e due giugno.
La grandezza dei colpi di martello.
Un corpo fatto a pezzi e ricucito
ci saluta ogni anno, più magro
per degenza infinita.
Applausi e basso tuba coprono
colpi, ormai, che non si contano. Non
tanto le penne d’alpino
ammainate dal tempo.
Ma le pene del reduce di oggi,
d’ora in ora sopraffatto.
Nubi di ghisa non lasciano
salire un corpo orante
se pane, solo, vuole.

Giovanni Nuscis

Da: “In terza persona” – Manni, 2006