3.
Con servitù al séguito
Fu che pianse un sillabario vuoto
un baricentro senza corpo
una camicia senza petto
una ciotola al cantone pel micio cieco.
fu che resse una baracca
in mezzo al lusso delle residenze
per farsi chiamare quando occorreva
il disguido delle giostre sulle tombe.
*
23.
no
con una foce in testa da far paura
scantono il tono che mi diede madre
da sotto l’incudine del vento
il fischio acidulo.
*
24.
crollami nel falso crollo
lama di becero teatro
morire per non morire
così come fa tutti
nella faccenda-celia dell’occaso
giacché la gerla della nuca vuota
davvero nessuno la vuole!
*
25.
sono steccato e ti chiamo al mare
così come non senso l’abitudine
del bel tritume tutto intorno al lago
la frottola proclive della madre
*
34.
tutto declinato il verbo dello scempio
questo boomerang di risacche
sotto il sopruso del nato
accaduto dal diverbio
biologico senza l’irenico salvifico.
fatua tregua il polline
del lirico guardare controluce
le nicchie finte dalla biro in uso
disegnare sul foglio così per resistenza.
*
42.
era un’oscurazione
una sintonia nera sul corpo di pianto
sulla pagana enfasi del vento
così cattivo da sbattere nidi
da far gridare un pettirosso sul selciato
*
57.
terra di ultime steppe
brevità consunte
prati spartani in riva all’acquedotto.
in penuria di arrivo e di partenza
questa perturbata enfasi di pianto
fatica del contro stelo senza fiore.
viltà del fato indici e vacanze
dove si attenda l’eremo di almeno
uno di zero il modo.
*
61.
quale un dispetto ad uso della fionda
sino a districarmi dal folto delle scale
dalle marette nere delle oasi.
di te ricordo il simbolo di darti
dal rivierasco conto della ronda
l’occiduo scarto di calmarti il sì
il sì di darti.
venne l’alunno con il levante d’arco
ma non bastò startene con lui
dacché bastò il tonfo un’erba vuota.
*
70.
a terra questo dolore a terra
che va a moria tettoia contro grandine
al lusso delle stasi. diluvia da presso:
è senza simbolo il perché di capire
il cardo saliscendi della ruota.
genuflesse sul selciato delle rocce
le lune piene le briose specole
nulle alla pésca di scavare il varo.
*
Dallo stesso altrove
Marina Pizzi
La Camera Verde 2008
*
Chi si avvicina alla poesia di Marina Pizzi, da ultimo leggendone questa silloge dalla fine veste editoriale, Dallo stesso altrove, intuisce subito (o dovrebbe intuirlo, se lettore di poesia contemporanea) di avere a che fare con un percorso poetico ed esistenziale tra i più originali e autentici, nell’attuale panorama letterario, e dal segno inconfondibile. Un percorso saldamente radicato che se da un lato esprime un elevato grado di strutturazione formale, d’altro lato lascia filtrare dal testo tracce importanti dell’impasto di lingua, invenzione e weltanschauung che dell’autrice riassume il tratto identitario.
L’inscindibilità della dimensione etica da quella puramente artistica, in Marina Pizzi, si può già cogliere dal titolo dell’opera: il poeta (la stessa autrice e/o i poeti in generale), questo il possibile senso, sta in altro luogo, è diretto in altro luogo; ed è dallo stesso altrove che derivano le poesie di questa raccolta e le precedenti; un altrove da cui il poeta si osserva e partecipa (o non partecipa) fisicamente, intellettualmente ed emotivamente agli eventi del mondo. L’altrove è dunque il luogo-non luogo dell’alterità per eccellenza; per l’artista, forse, l’unico spazio possibile.
Il primo componimento della raccolta (Con servitù al séguito), tra i più belli e commoventi, ci permette alcune riflessioni. L’espressione La servitù al séguito definiva un tempo, in modo infelice, il personale di servizio al seguito di famiglie facoltose durante i loro spostamenti; ma qui il senso è altro, o altri, supponiamo allertati dalla lettura di altre opere dell’autrice: la coazione a continuare qualcosa di iniziato (la poesia? la vita?) a cui non è possibile rinunciare; l’obbligo, a mal grado, di andare avanti, di non fermarsi. Il primo verso, fu che pianse un sillabario vuoto, s’avvia a comporre un quadro drammatico e di forte tensione emotiva. Il sillabario vuoto, con queste premesse, non può che essere sinonimo di impossibilità/difficoltà di esprimere/cantare il mondo, per assenza o inadeguatezza delle parole, irreperibilità delle sillabe-mattoni che le compongono; assenza che nei versi successivi (un baricentro senza corpo/una camicia senza petto) si estende al corpo e al petto in cui la vita si manifesta(va) ictu oculi. Del soggetto – indicato con la terza persona e con l’uso del passato remoto – emerge negli ultimi quattro versi la dimensione eroica e resistenziale (fu che resse una baracca/in mezzo al lusso delle residenze) e quella più intima e sofferta di uno sfruttamento, con conseguente disinganno per l’amore, la disponibilità e la fiducia mal riposti, traditi… (per farsi chiamare quando occorreva); con una chiusa che fonde ironia pungente e disillusione circa l’umano destino… (il disguido delle giostre sulle tombe).
Aspetti, quelli anzidetti, che ci mostrano, pur dentro uno scenario disperante, la possibilità di una postura dignitosa e composta, seppure non salvifica, di cui si fa accenno anche in altri testi della silloge (appena di sconfitta l’ilarità del viso/ma comunque un dolore), soprattutto nell’ultimo: a terra questo dolore a terra/che va a moria tettoia contro grandine/al lusso delle stasi.
Questa mia breve e parziale lettura della raccolta – una tra le molte possibili – lungi dal voler ridurre e semplificare l’intuibile complessità del percorso poetico, o anche solo di questa raccolta, non può che rimandare alla lettura del libro, e delle altre opere di Marina Pizzi. (GN)