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“Del dialetto siciliano” di Marco SCALABRINO”

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La concezione del dialetto quale codice dei parlanti di un ristretto consesso sociale, un codice chiuso, non contaminato e/o contaminabile, un codice sinonimo di sottocultura, è tuttora diffusa. Concezione fondata sul luogo comune, sul pregiudizio, sulla sconoscenza di quanto invece c’era – c’è – di bello, di prezioso, di antico nel nostro dialetto.
E allora, perché il Dialetto? E si può – si deve – scegliere fra l’uno, il Dialetto, o l’altro idioma, l’Italiano? E in relazione a che? All’argomento, al destinatario, al caso …? E dulcis in fundo, zumando sulla specificità che più da vicino ci coinvolge, l’annosa questione: il Siciliano è Dialetto o Lingua?
Nessuno di noi ritengo si accosterebbe mai al Francese, all’Inglese, al Tedesco … senza conoscerne l’ortografia, la morfologia, la sintassi, la semantica … E dunque perché farlo col Siciliano?
Non credo basti essere nati – e cresciuti – nell’Isola per scrivere il Siciliano! Noi tutti ne siamo sì, in virtù di ciò, naturaliter, dei parlanti. Per acquisire l’altra qualità, la qualità che ci qualifichi scriventi, occorre un praticantato, occorre un impegno diuturno volto all’apprendimento delle opere degli Autori siciliani e dei saggi inerenti agli stessi e al Dialetto, occorre la frequentazione di un preliminare, diligente esercizio di scrittura.
In definitiva, bisogna amare, studiare, votarsi toto corde al Siciliano.
All’interrogativo “il Siciliano è Dialetto o Lingua?” reputo opportuno abbinare – al fine di approfondire – quell’altro che viene posto, sovente, da taluni: “non esistendo un Siciliano nel quale scrivere ha senso dannarsi sulla corretta trascrizione delle parole?”
Affrontiamo complessivamente le due domande, tramite le autorevoli valutazioni di Mario Sansone e di Salvatore Camilleri:
1) dal punto di vista glottologico ed espressivo non c’è alcuna differenza essendo la lingua letteraria un dialetto assurto a dignità nazionale e ad un ufficio unitario per complesse ragioni storiche;
2) il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana;
3) il Siciliano è stato strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello.
Riportiamo oltre a ciò l’avviso di Guido Barbina: “Tralasciamo, perché puramente accademico e fuorviante, il pretestuoso problema della differenziazione fra lingua e dialetto”, e un passo tratto dal pezzo LE LINGUE MINORITARIE PARLATE NEL TERRITORIO DELLO STATO ITALIANO di Roberto Bolognesi. Bolognesi asserisce: “Tecnicamente i termini lingua e dialetto sono interscambiabili … il loro uso non implica nessuna precisa distinzione genetica e/o gerarchica. Tutti i cosiddetti dialetti italiani sono lingue distinte e non dialetti dell’Italiano”.
“Il dialetto – assevera Salvatore Riolo – non è una corruzione né una degenerazione della lingua e non potrebbe mai esserlo, perché i dialetti non sono dialetti dell’italiano, non derivano cioè da esso ma dal latino e soltanto di questo potrebbero eventualmente essere considerati corruzione”.
Ulteriori considerazioni (appena ricordando peraltro che nella Sicilia del Cinquecento operavano già due Università: quella di Catania e quella di Messina, nonché la proposta del 1543, del siracusano Claudio Mario Arezzo, di istituire il siciliano come lingua nazionale) potrebbero passare attraverso la presenza di Vocabolari, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera.

Questa incursione nel passato ci porge il destro per dei brevi cenni di etimologia.
Se oggi io inframmezzassi il mio intervento con termini quali: LIPPU, OGGIALLANNU, TABBUTU, RACINA, TRUPPICARI, SPARAGNARI, nessuno di noi – credo – si allarmerebbe, si lamenterebbe di non comprendere, si riterrebbe escluso. Tutti, piuttosto, troveremmo palese conferma a una nostra sensazione che uno studio del Centro Ethnologue di Dallas ha compiutamente così fissato: “Il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata; è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui” in Siciliano e in Italiano standard.
Quelli, LIPPU, OGGIALLANNU, TABBUTU, RACINA, TRUPPICARI, SPARAGNARI, sono termini che adoperiamo con naturalezza, con proprietà di significato, sono parole con le quali assolviamo egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione. Ma la cosa più rilevante ai nostri fini è che tali, ed altri lemmi, fanno parte, a pieno titolo, del nostro odierno parlare, sono pregni di attualità.
Ciò detto non ci rendiamo forse conto, perché magari mai ci siamo interrogati in tal senso, che sono antichi di secoli quando addirittura non di millenni.
Il Siciliano, le cui radici diciamo così ufficiali affondano nel lontano 424 a. C. con la virtuale costituzione ad opera di Ermocrate della nazione siciliana, “Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi”, è dunque un organismo vivo, palpitante. Un organismo capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali si è “incontrato”, capace di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta più utile al suo arricchimento e di stratificare tali conquiste sulle proprie, originarie fondamenta.
Ecco, si avvicendano nel tempo il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma sostanzialmente sempre una lingua, una sola: il Siciliano.
Ricordando per inciso che l’etimologia è la scienza che studia l’origine e la derivazione delle parole di una lingua, ci chiediamo: “Quali sono le origini del Siciliano?”
La risposta, in parte, è insita già nella premessa appena fatta, ma il quesito necessita comunque di una trattazione, impone una ancorché succinta esposizione.
Lucio Apuleio, scrittore siciliano del II secolo d.C., asseriva che i Siciliani parlavano tre lingue: il Greco, il Punico e il Latino. Ma da allora, e fino al XIX secolo, ne sono passati di “ospiti”!
Veniamo pertanto a rievocare le frequentazioni del Siciliano servendoci di alcuni esempi.

DAL GRECO, VIII secolo a.C.:
Bastaz – Vastasu; Kerasos – Cirasa; Babazein – Babbiari; Lipos – Lippu; Baukalis – Bucali; Keiro – Carusu; Rastra – Grasta; Bubulios – Bummulu; Apestiein – Pistiari.
E in aggiunta: Naca, Cannata, Taddarita, Ammatula …

DAL LATINO, III secolo a.C.:
Muscarium – Muscaloru; Crassus – Grasciu; Hodie est annus – Oggiallannu; Ante oram – Antura; et cetera et cetera.

DALL’ARABO, 827 d.C.:
Zbib – Zibibbu; Qafiz – Cafisu; Suq – Zuccu; Tabut – Tabbutu; Qashatah – Cassata; Saut – Zotta; Giâbiah – Gebbia; Babaluci – Babbaluci; Giulgiulan – Giuggiulena; Sciarrah – Sciarra.
E poi: Lemmu, Funnacu, Giarra, Margiu, Zagara, Burnia, Zimmili …
Una curiosità: l’Etna è chiamato Mungibeddu, voce che assomma la radice latina di mons (monte) e quella araba di gebel (bello).

DALLA RADICE FRANCESE, in conseguenza della dominazione normanna e angioina, tra il 1060 e il 1282: Ache – Accia; Mucer – Ammucciuni; Boucherie – Vucciria; Couturie – Custureri; Trousser – Truscia; Raisin – Racina. E: Giugnettu, Accattari, Avanteri …

DALLO SPAGNOLO, che praticammo quasi ininterrottamente per cinque secoli dal 1412 al 1860: Abocar – Abbuccari; Lastima – Lastima; Encertar – Nzirtari; Scopeta – Scupetta; Esgarrar – Sgarrari; Alcanzar – Accanzari; Tropezar – Truppicari. E quindi: Muschitta, Sarciri, Picata, Ammurrari …

DAL TEDESCO, tra il 1720 e il 1734 quando la Sicilia venne assegnata dagli Spagnoli all’impero austriaco: Hallabardier – Laparderi; Rank – Arrancari; Sparen – Sparagnari; Wastel – Guastedda; Nichts – Nixi.

E, per accuratezza di informazione e con la puntualizzazione dello stesso autore: “questo mio articolo vuole essere un invito a chiunque ha nel cuore la nostra Isola, per discutere sulla nostra lingua e collaborare con unità d’intenti perché essa venga riconosciuta de jure”, annotiamo altresì l’ipotesi di Giovanni Ragusa: “I Siculi erano un popolo indo-europeo. Dall’India essi vennero verso l’Europa e quelli che giunsero nella nostra Isola, guidati da Siculo, furono chiamati Siculi. La loro lingua pertanto doveva essere, se non la sanscrita, una che certamente ne derivava. Alcuni vocaboli: il nostro pùtra (puledro) nel sanscrito è pùtra che vuol dire figlio; il nostro màtri non deriva dal latino mater, ma dal sanscrito màtr; il nostro bària (balia) nel sanscrito è bhâryâ e vuol dire moglie, e Murika chiamavasi la sicula Modica.” E prosegue: “I Siculi, sottomessi dai Greci, furono costretti per necessità a far proprio il lessico dei dominatori, ma lo espressero con la fonetica che era ad essi congenita. Ciò avviene anche a noi che, dovendo parlare l’italiano, lo esprimiamo (foneticamente e sintatticamente) come ci è naturale; e ciò fa sì che veniamo riconosciuti “siciliani” in ogni luogo e da tutti. Sappiamo che la nostra lingua ha, come il sanscrito e le lingue semitiche che ne sono derivate, soltanto vocali a, i, u. Sappiamo che la lingua siciliana rifiuta in modo assoluto la e e la o atone. Sappiamo anche che ha suoni cacuminali non esistenti nel latino (ggh, dd, tr, str, sdr) e che si esprime con regole diverse da quelle delle lingue latina e italiana. Di essa non dobbiamo vergognarci, perché non ci rivela, come dicono i concittadini del Nord Italia, terroni, ma gente di antica e nobile civiltà.”

Non possiamo chiudere il capitolo delle influenze senza fare una ulteriore brevissima allusione. Tra il secolo XI e il secolo XIII, schiere di militari, di cavalieri, di fanti, con a seguito le famiglie, dal Monferrato e dalla Gallia Cisalpina calarono in Sicilia. Le popolazioni delle località, tra le quali Piazza Armerina, Aidone, Nicosia, San Fratello, Sperlinga e Novara di Sicilia, ove costoro si stabilirono, mantengono tuttora nella loro parlata le connotazioni fonetiche, morfologiche e lessicali ben distinte da quelle del Siciliano, che hanno determinato il c.d. GALLO-ITALICO.

Ci siamo ovviamente limitati a pochi condivisi casi, ma le relazioni sono innumerevoli quante le parole stesse del dialetto siciliano e di certo ognuno di voi potrebbe immediatamente suggerire chissà quanti e quali altri vocaboli o locuzioni.

Alla luce di quanto esposto, ritengo si possano sciogliere, entrambi positivamente, i quesiti che ci siamo posti e affermare:
A) il Siciliano può essere considerato, se proprio vogliamo impuntarci su questo termine, alla stregua di una Lingua; l’appellarlo però Dialetto nulla gli sottrae e niente affatto lo diminuisce –
B) ha senso, per chi vuol dare dignità al proprio dettato e a se stesso, perseguire la corretta trascrizione del Siciliano.
Rebus sic stantibus: “Perché il Siciliano? E quando?”
La questione, in realtà, è ben altra! La scelta del sistema di comunicazione non è, infatti, abito soggetto alla moda, al fine, all’ambiente. La scelta è dettata a priori: il “sentire siciliano”. Il che significa, ci soccorre daccapo Salvatore Camilleri, “esprimersi con forme, con spirito, con immagini profondamente siciliani e non già con scialbe traduzioni dall’Italiano”, significa “liberarsi dal preconcetto che il dialetto debba solamente rivolgersi alle piccole cose, al folclore, al ricordo”, giacché “il dialetto può esprimere tutte le complesse realtà: la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali ma come patrimonio culturale che chi scrive consuma nell’atto della creazione.”
E perciò quale Siciliano? Quello di Catania o quello di Palermo? Quello di Siracusa o quello di Trapani? E perché non tutti assieme, il prodotto di tutti essi? L’Agrigentino, l’Ennese, il Messinese, il Nisseno, il Ragusano non sono pure essi Siciliano?

Renzo CAU “Una poesia metafisica. Saggio sulla poesia di Angelo Mundula”

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Anche su La Poesia e lo spirito

 

 

 

 

 

   Chi segue ed apprezza da anni, come me, la poesia di Angelo Mundula non può non compiacersi di questo saggio recente dedicatogli da Renzo Cau in cui si coglie, fin dalle prime pagine, la profondità e la cura di analisi che si riservano, solitamente, ad autori di prima grandezza. Uno studio in cui però, metodologicamente, tiene subito a precisare nella sua presentazione Carmelo Mezzasalma, richiamando Auerbach (Philologie der Weltliteratur. Filologia della letteratura mondiale, a cura di E. Salvaneschi e S. Endrighi, Book Editore, Bologna 2006), “il punto di partenza non deve essere rappresentato da una categoria generale applicata all’oggetto dall’esterno – deve crescere al suo interno, essere una sua parte. Le cose devono farsi linguaggio, e non si riuscirà mai nell’intento se già il punto di partenza non è concreto e ben circoscritto”.
   Lo studio di Renzo Cau si concentra sulle prime tre raccolte poetiche di Angelo Mundula – Il colore della verità (Rebellato, Padova 1969), Un volo di farfalla (Giardini Editori e Stampatori, Pisa 1973) e Dal tempo all’eterno (Nuovedizioni Vallecchi, Firenze 1979) – ritenendo “le prime tre opere del poeta sardo fondamentali per capire le restanti otto”. Il saggio è strutturato in cinque capitoli, L’ala rapace del tempo, Verso l’eterno, Una fede sofferta e viva, Il destino della parabola profetica, Rivelare il cuore nel bagliore della fede; lo completano una breve antologia tratta dalle sillogi e alcuni giudizi critici; il titolo del libro ci richiama uno dei giudizi più autorevoli espressi su di lui da Giorgio Bàrberi Squarotti: “…un grande poeta metafisico, il maggiore che si abbia oggi, accanto a quel Luzi che, significativamente, è protagonista e dedicatario di uno dei componimenti del libro.”
   Il primo capitolo, incentrato sulla raccolta poetica d’esordio, Il colore della verità, coglie subito un aspetto fondamentale della scrittura munduliana: “Già dalla prima breve poesia della raccolta, l’autocoscienza di possedere una voce poetica, ossimoricamente orientata al canto e al grido, seleziona di ogni esperienza lieta o triste dell’esistere solo quella porzione di verità, ritenuta degna di essere conservata nel cuore, la vera sede dei ricordi: la nuda verità, quella priva di calore-colore umano, è trattata alla stessa stregua della menzogna. […] L’autore intende ancorare saldamente la sua poesia al reale, dove soltanto si può ascoltare il racconto del trascolorare di “tutti gli umori delle cose”, possedute dalla forza del divenire. La lirica, che si avvale dello stilema allocutivo è animata dalla funzione conativa. Benché l’io lirico abbia come destinatario se stesso – raramente, infatti, nella raccolta abbandona la prima persona – è un invito deciso e severo al lettore a prendere coscienza del dramma esistenziale, dominato dal divenire ovvero dall’”ala rapace del tempo”.
   La seconda e la terza raccolta, a cui sono dedicati i successivi capitoli, “come per i Four Quartets di T.S. Eliot, prendono l’abbrivo da due opere di uno dei due più grandi geni del Medio Evo cristiano: sant’Agostino. L’ipogramma di Un volo di farfalla è identificabile nel libro XI, 29 delle Confessiones, quello di Dal tempo all’eterno nel De Civitate Dei (14,28)”. Lo studioso richiama anche K. Jaspers per la frequente presenza in tutte le raccolte di proposizioni interrogative (pensare interrogando), e Giacomo Leopardi e Vincenzo Monti, per evocazione o comunanza, rispettivamente, di titolo: La siepe degli infiniti spazi e A mia moglie nel suo giorno onomastico. Ma è presente nel macrotesto munduliano un “considerevole stuolo di scrittori classici e contemporanei”, da quelli dei testi biblici ad Omero, Virgilio, Dante, Antonio Machado, Paul Valery, Italo Calvino.
   Altri due punti fondamentali evidenziati dallo studioso – sulla poetica di Angelo Mundula “saldamente attestata sulla verità” – sono la “vocazione allo scavo” ed il fatto che da subito “Il problema metafisico e la sua tra-duzione in poesia deve avere affascinato il poeta. […] Nel macrotesto di Mundula temi e argomenti assai impegnativi di natura filosofica e teologica sono stati risolti in poesia con sapiente, originale perizia…”. Mario Luzi “definisce Dal tempo all’eterno un poema che “ha tradotto la sostanza teologica della fede nella sua più sperduta e umana sostanza di amore”.
   Il poeta, osserva ancora Renzo Cau, “è pienamente consapevole dell’importanza della parola, in apparenza un innocuo segno sul foglio bianco, un flebile suono […] Anche la distinzione linguistica del significato dal referente, insiste il poeta, ha la sua importanza: il dono della vita sopravvive alla parola, le ragioni della mente sono “arse dal fuoco delle voci”, mentre vivono nel cuore quelle del sogno; quelle della langue non vibrano con la stessa intensità e verità di quelle della parole, che trovano una sicura eco “dentro”, in interiore homine, appunto. Ma il grave rischio della parola è di essere tautologica, essendo incapace di significare le cose e il sogno, o inutile di fronte allo spietato passare del tempo, che tutto incenerisce. […] Non ci resta, conclude con dignità il poeta, che alimentare il “fuoco sacro” del silenzio”.
   E’ un’attenzione particolare, infatti, quella che il poeta riserva alla parola; “La parola umana, il verbo, mutuato dal lemma latino, probabilmente arriva nel testo dal prologo del Vangelo giovanneo come traduzione di logos, il Verbum con la lettera maiuscola. […] Il poeta-scriba chiama a conforto della sua particolare parola citazioni del testo sacro, che ne illuminano la responsabilità (“dalla mia parola sarò giustificato/e dalla mia parola sarò condannato”).
   La qualità alta del lavoro di Renzo Cau trova conferma avendo anche presenti le raccolte successive, quelle non considerate dallo studioso; le coordinate interpretative qui tracciate valgono pure per esse, con sorprendente puntualità: “il testo può apparire dominato da un asse paradigmatico all’insegna della colloquialità. […] una coscienza dell’ipersegno poetico, tesa più al servizio della significazione e della comunicazione che della sperimentazione formale. La sintassi dei contenuti o per meglio dire della loro approfondita meditazione non poteva non determinare una sintassi del linguaggio, tesa a favorire il dialogo con un destinatario il più numeroso possibile.”
  Si è grati, pertanto, a Renzo Cau il cui lavoro esemplare – per profondità ed estensione dell’analisi – ci sembra ora un’irrinunciabile viatico per comprendere a fondo l’opera di Angelo Mundula; di cui si propongono qui alcuni testi tratti dalle raccolte esaminate e da altre più recenti.

GN

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Renzo CAU
Una poesia metafisica
Saggio sulla poesia di Angelo Mundula

Edizioni Feeria, 2008
Presentazione di Carmelo Mezzasalma

Renzo Cau è studioso degli scrittori sardi contemporanei intorno ai quali ha pubblicato diversi saggi. Ha pubblicato anche L’alto passo (percorsi esegetici nei canti 26 dell’Inferno e 33 del Paradiso), Il Veltro, Cagliari 2006.

Angelo Mundula è nato e vive a Sassari. Ha pubblicato, in poesia, Il colore della verità (Padova, 1969), Un volo di farfalla (Pisa, 1973), Dal tempo all’eterno (Firenze, 1979), Ma dicendo Fiorenza (Milano, 1982), Picasso fortemente mi ama (Firenze, 1987), Il vuoto e il desiderio (Catania, 1990), Per mare (Padova, 1993), con Giorgio Bàrberi Squarotti e Giuliano Gramigna, La quarta triade (Milano, 2000), Americhe infinite (Milano, 2001), Vita del gatto Romeo detto anche Meo (Milano, 2005), Il Cantiere e altri luoghi (Sassari, 2006); a cui si aggiungono due libri di prosa: Tra letteratura e fede (Firenze, 1998) e L’altra Sardegna (Milano, 2003). Ha collaborato con i maggiori quotidiani italiani e con prestigiose riviste. Da vent’anni collabora con le pagine letterarie e culturali dell’”Osservatore Romano”. Hanno scritto sulla sua poesia, tra i tanti, Mario Luzi, Carlo Betocchi, Giuliano Gramigna, Giorgio Bàrberi Squarotti, Dante Maffia, Franco Fresi, Stefano Jacomuzzi, Pietro Civitareale, Franco Loi, Nicola Tanda, Ferruccio Ulivi, Giacinto Spagnoletti, Achille Serrao, Bruno Rombi, Guido Zavanone, Alberto Cappi, Carmelo Mezzasalma, Oliver Friggeri.

*

Da “Il colore della verità”

A mio padre

Batte l’orologio un tempo
che ancora non è passato nello spirito,
né passerà se, come credo, quell’ieri
è il presente che mi fingo.
E così ti rivedo, padre, nella tua bella luce
di dolcezza che ha profumo di rose e di carezze.
Morte è solo certezza che mi sfiora,
memoria ne smorza il senso amaro.
La tua vita è la mia che mi resta,
e chiudo un solco già iniziato insieme
con la tua terra, padre, e con la mia più fresca.

*

Da “Un volo di farfalla”

Tra memoria e presente

Io sono quello che son stato
ma certo io sono anche quello che ho sognato di essere.
Sono stato schiavo di un’illusione mi confesso
pure l’illusione mi apparteneva con contorni precisi
più labili i contorni delle cose che mi circondavano reali.
Quand’ero sulla porta del bosco ero dentro il bosco
la porta del bosco non comunicava più nulla
l’illusione era al di là della porta
l’uccello volato non era già più uccello
io ero dentro il futuro senza saperlo.
Ogni giorno muoviamo questo passo senza un brivido.
Oh l’uomo non vuol conoscere il suo destino!
Per tutta la vita un passo guida un altro
solo dentro può rompersi il meccanismo segreto
E allora un passo può anch’essere un segno
di nuova vita od anche di una vita parallela
memoria spezza il circuito ed io ritorno più giovane
su uno scoglio che ho amato
siedo accanto all’illusione giovane
e l’oggi è anche ieri ieri è anche oggi o solo oggi.
In me solo abitano gli estremi della vita
Non chiedono se non d’essere ricuciti in me saldati
dentro di me con amore con molto amore evocati.

*

Da “Dal tempo all’eterno”

Poiché la mia fede s’inventa il suo verbo
dirò preghiere inaudite
col mio “granello di senape”
anche se l’animo perde ciò che qui guadagna.
Ma getterò via la mia mano che mi è di scandalo?
che pure mi offende? Oserò mettermi contro le regole?
Qui lo scriba ha il suo più alto rovello
se scrivendo per fede che si duplica
rischia la morte per vivere eterno.
Ma chi sta in alto e vede
sa che si procede per un ruscello di luce
che tanto più brilla
quanto più s’avanza in quella sola fede
che fa più forti quelli che più dubitano.
E andando come tra spini che spuntano
Ogni passo è un calvario così fatto
che fa delle parole vano miracolo
se l’empio verme non è mai lontano.
Ma può chi scrive tacere il suo credo?
E dunque sia la parola a dire il dubbio
e la mia “poca fede” che si fa forza di spostare un monte
poiché dalla mia parola sarò giustificato
quando suoneranno quelle altissime trombe.

*

Da “Per mare”

Fil rouge

Dalla terrazza da cui guardammo il mare
un altro vedrà tutto l’azzurro che il nostro sguardo
non potrà più guardare e una mano straniera
scriverà sul nostro taccuino i percorsi
della sua mente originale e inseguirà
sui tasti di una macchina inerte
l’oggetto dei suoi infiniti desideri.
Un viandante mai conosciuto incontrerà la gente
che noi non potremmo più incontrare o che ci avrà
dimenticati per sempre
questo è il nostro futuro immaginabile
la nostra perdita totale eppure
in quello sguardo straniero che guarda il mare
c’è anche i nostro sguardo superstite e vitale
e il mare con le sue onde e con le sue bonacce
lo guarderemo insieme da impensabili rive
in tutte le sue fresche e dolci acque e il
sogno che sognammo e che fu più nostro
non sprofonderà per sempre nella nostra notte
qualcosa sopravviverà nell’altro che
non saprà di sognare il nostro stesso sogno
tutti i viaggi possibili partecipano dei
nostri misteriosi itinerari e sui tasti di una
macchina per scrivere un imprevedibile tasto
forzerà il senso e la mano riluttante di una
mente apparentemente solitaria che mai
avremmo immaginato
e sull’orma dei nostri passi distratti si
poserà inconsciamente il piede di chi
percorre un nuovo itinerario e l’uomo che
incontrerà un estraneo non saprà mai di
incontrare il suo innominabile fratello o padre.

*

Fine stagione

Questa è la dimora di una frivola vacanza
dove una folla immensa lascia appena una traccia
di sé qualche rara bazzecola per la
prossima rentrée. Del resto ormai tutto
cambia maschera in attesa dell’altro o chissà che.
Da questa riva disertata dall’uomo
da questo strano luogo senza
neppure un organigramma
contemplo una stagione al suo tramonto
ciò che se ne va secondo copione
ciò che resta o si nasconde
sotto il nuovo défilé.

*

Da “Americhe infinite”

Il viaggio insieme

Non viaggiamo mai soli.
Appena ci muoviamo s’alzano
da qualche parte i nostri bronzi (*)
e ci seguono. Portiamo sulla pelle
i loro nomi. E mai dimentichiamo
chi per noi fece naufragio e le
vele spezzate e il timone che sbagliò
la rotta e il mare fatto sangue
di non so quanti eroi. Sempre i nostri
morti ci seguono e parlano con noi.
Non viaggiamo mai soli. E un giorno
se approderemo a un porto vi approderemo
insieme. Se il vento non ci sarà
sarà ancora quel fiato rimasto nelle
gole quell’antico respiro
dell’antico sardo a spingere
lo scafo a gonfiare le vele.

(*) Si allude, evidentemente, ai bronzetti nuragici.

*

Giardino d’inverno

Vivo nella terra di
Sinijasvskij e Solzenicyin
in quella stessa terra che
esiliò Grazia Deledda dalla sua
verde tanca. A testa bassa
procedo nella tormenta
verso la mia dacia deserta
che morendo lasciarono ai consorti
Pasternak e l’Achmatova e dentro la
siberia in cui sono costretto
allevo i miei piccoli fiori
ogni volta forzando lo stretto di Bering
per portarli nei luoghi
dove si scioglie il gelo.
Questo è il mio giardino d’inverno.
Voglia il Cielo che un giorno i miei nipoti
Vengano a visitarlo.

*

Da “Il cantiere e altri luoghi”

Strade

Fra tanto clamore nessuna vera voce
fra tante strade nessuna via da percorrere
neppure quel “sentiero da capre” che Montale
vide aprirsi sulle nostre mappe neppure
quelle nostre rampe su cui ogni giorno
ci arrampichiamo per vedere le stelle
la luna o marte. Niente e nessuno in
questo innominabile buio. Se non fosse
per quel tenue barlume che traspare
da qualche parte e fa dire: “è giorno”
mentre intorno si addensano le ombre.

*

Del fare

Oh se potessi non scrivere
lasciando queste parole in cambio
di quel che dicono! Oh se potessi
finalmente trovare il mio vero
esistere votando la mia vita
alla vita dell’altro. Ma sono
un uomo impastoiato dalle parole
di questo antico suono che mi strugge.
Vado cercando vita ove la vita fugge.

2 Responses to “Renzo CAU “Una poe

“Poesia non poesia” di Alfonso Berardinelli

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I poeti impossibili

 

    Come si può parlare criticamente, usando il linguaggio della critica letteraria, voglio dire, con il suo carico di cognizioni storiche e tecniche, occupandosi di tanti nuovi poeti? Me lo chiedo da tre decenni, ma ogni volta è come se fosse la prima volta. La produttività poetica dilaga. Negli ultimi due tre anni devo essermi distratto (me ne accorgo ora) perché apprendo che sono nate nuove scuole, nuove tendenze, di tonalità prevalentemente sadico-ilare o depresso-sadica. Ci sono in giro e in piena attività almeno venti trenta poeti di cui so ben poco. Provo a leggere, a informarmi. Ma noto che la cosa più difficile è proprio questa. Già dire leggere è un eufemismo, perché leggere la maggior parte di queste poesie è difficile. Non meno difficile è quindi informarsi perché dai testi antologizzati si ricava poco, non bastano a farsi un’idea degli autori, mentre i libri interi sono ridondanti e fuori misura, perché dopo le prime pagine si sa già tutto. È un problema di consistenza? Il testo singolo non regge, sembra rimandare ad altro. Ma non regge neppure  il libro, che si aggrappa, per esistere, a non più di tre o quattro poesie riuscite. Leggere poeti italiani contemporanei è quasi sempre esasperante. Non si capisce perché quella parola sta lì, non si capisce perché dopo quella frase c’è quell’altra, non si capisce perché si va a capo (ma questo è un vecchio problema della modernità), non si capisce perché il testo finisce a quel punto, non prima, non dopo.  È veramente strano che con tante scuole di scrittura creativa, nessuno sia riuscito, in questi ultimi dieci anni, a insegnare il minimo di tecnica utile.

    Dunque potrebbe essere vero quello che dice il titolo di un libro di Alessandro Carrera: I poeti sono impossibili. Carrera sembra aver trovato l’analgesico, l’eccitante, il sedativo, o meglio il disintossicante per chi abbia passato anche solo un’ora a cercare una poesia buona dentro antologie e almanacchi appena arrivati.

    Il suo libro possiede un’importante qualità letteraria: la capacità davvero molto poetica di far vedere che oggi come ieri la poesia la fanno i poeti e che quindi finisce inevitabilmente per somigliare a loro.

    All’inizio del quarto capitolo, intitolato Siamo tutti grandissimi poeti, Carrera ci ricorda una cosa: Robert Musil “osservò che la decadenza della modernità era iniziata il giorno in cui nella cronaca sportiva di un quotidiano viennese si poté leggere che un certo  cavallo, gran vincitore di corse, era geniale.”

    Oggi però, dato che siamo più spregiudicati, più corretti e più intelligentemente animalisti di Musil, si può dire che Carrera con questo libro ci ha dato un ottimo antidoto contro quella particolare forma di inconsapevolezza che sembra accompagnare la decisione di “essere poeti” e che alimenta la produttività creativa dei poeti attuali.

    Sì, attuali. Ma Carrera ci ricorda un’altra cosa importante: Orazio, Francisco de Quevedo, Pietro Giordani, Osip Mandel’stam e Montale si erano espressi in proposito con analogo pessimismo.

    Orazio lamentava che i poeti fossero innumerevoli. Quevedo scriveva che “Dio aveva mandato un’epidemia di poeti in Spagna per punirci dei nostri peccati; due secoli dopo Pietro Giordani si lamentava con Leopardi che ormai chiunque sapesse leggere e scrivere si riteneva in grado di impugnare carta e penna e gettar giù versi a profusione; Osip Mandel’stam constatava con scoramento l’esistenza di un miserabile esercito di poeti che aveva invaso la Mosca rivoluzionaria”. Montale scrisse che “se Guglielmo Giannini, invece di fondare il movimento dell’Uomo Qualunque, avesse fondato il partito del Poeta Qualunque, con obbligo dello Stato di stampare a proprie spese i versi di ogni cittadino, avrebbe mandato almeno un centinaio di deputati in Parlamento”.

    È già molto. Ma Carrera aggiunge: “Dopo la rivoluzione sandinista in Nicaragua, per testimonianza di chi c’era, mentre il paese aveva un disperato bisogno di ingegneri, capimastri e idraulici, ogni volta che si annunciava  una lettura pubblica centinaia di aspiranti poeti si mettevano in fila  dal mattino, determinatissimi a leggere le loro invettive contro los gringos, mentre intorno non c’era una strada che non fosse piena di buche”.

    Il capitolo da cui sono tratte queste parole porta un titolo definitivo per chiarire subito di che si tratta: Un popolo di poeti preme alle porte dell’oblio. L’autore comunque, per essere ancora più chiaro (tutto il suo libro è insopportabilmente chiaro per i poeti di oggi) sente il bisogno di precisare: “nella seconda metà dell’Ottocento, quando Lautréamont lanciò la profezia che un giorno la poesia sarebbe stata fatta “da tutti” forse non si aspettava che il tempo gli avrebbe dato ragione al di là delle sue aspettative. E certamente non si aspettava che, come effetto collaterale, una poesia “fatta da tutti” avrebbe ridotto la poesia stessa all’insignificanza. Perché se tutti, in un cabaret dadaista di dimensioni planetarie, scrivono, pubblicano, recitano e urlano i propri versi, per una legge di conversione di cui nessuno vuole assumersi la paternità, proprio quei versi hanno una forte probabilità di risultare irrilevanti”.

    Si può pensare questo. Ma anche qualcosa di diverso. Su una quantità di testi poetici senza capo né coda né ragioni di esistenza, si possono scrivere puntuali piccoli saggi in punta di penna, che puntualmente mancano l’oggetto di cui dovrebbero parlare e quindi parlano di quell’utopia del linguaggio poetico mai realizzata che giustifica tutto. Esistono tuttavia, in questa nebbia di parole poetiche che avvolge il pianeta e intasa Internet, delle vere poesie, che liberano per qualche minuto la mente di chi  le legge e che quindi fanno venire la voglia di essere rilette.

    Ma individuare e riconoscere queste poesie non è né facile né ovvio. Se lo fosse, il fenomeno della “poesia scritta da tutti” non si darebbe. Il primo servizio che i critici dovrebbero rendere agli altri e a se stessi  è dire quali poesie esistono e quali hanno solo tentato di esistere, anche senza parlare degli autori che ne sono responsabili. Facendo questo, potrebbe capitare loro di non sembrare gentili. Ma essere gentili con tutti i poeti e con i poeti qualunque, manda allo sbaraglio molte brave persone, che non riescono né a leggere né a farsi leggere. È il cattivo pubblico, o il nessun pubblico, che rende la poesia cattiva o nulla.

 

 

Alfonso Berardinelli

Poesia non poesia

Einaudi, 2008

 

“Petri” di Marco SCALABRINO

dante_poema

           

Il titolo, Petri, fa chiaro riferimento alla “Valle delle Pietre Dipinte”, la monumentale impresa del Maestro Silvio Benedetto allocata nel Comune di Campobello di Licata (AG). Ma il componimento, nella sua compiutezza, trae spunto dall’Opera che tali “Pietre”, a sua volta, ha ispirato: la “Commedia” di Dante Alighieri.

Analogamente con la “Commedia” infatti, trattasi di una allegoria; giacché, in definitiva, le “Pietre” altro non configurano che gli uomini e le donne di questo mondo: il genere umano.

Il lavoro ripercorre la struttura della “Commedia” e si articola in TRE parti, tante quante le Cantiche di questa: l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. La prima parte (Inferno) consta di tre versi, la seconda (Purgatorio) consta di sei versi, la terza (Paradiso) consta di nove versi.

L’Autore ha inteso riproporre, come avviene nella “Commedia”, la reiterazione del numero TRE e dei suoi multipli. Appaiono in tutta evidenza, nel corpo del componimento, ben TRE – dici versi in corsivo.

Essi palesano gli interventi diretti delle anime (in conformità, peraltro, a quanto avviene nella “Commedia”).

 

Allavancu.                             Dirupo.

Allavancu.                             Rovina.

“Senza fini.”               “ Senza fine.”

 

L’Inferno descritto quindi quale dirupo (la concezione dantesca di voragine a cono capovolto) e rovina (il termine “allavancu” nel dialetto siciliano contempla entrambe le accezioni). La ripetizione del temine anticipa e accentua la condizione di disperazione in cui versano le anime dei dannati; le quali, della loro eterna perdizione, hanno piena consapevolezza. Consapevolezza che trova laconica, inappellabile sintesi nelle due, sole, drammatiche parole che esse riescono a formulare: “Senza fini.”  L’Inferno, luogo di giustizia.              

 

            Mill’anni e chiù                         Mille anni e oltre

camiannu                                 riscaldando (con le preghiere)

la muntagna:                             la montagna:

“Oh,                                       “Oh,

rinesciri                                  diventare

vastedda!”                             pane!”

 

Al pari della concezione dantesca, il Purgatorio è raffigurato come una montagna, per le cui balze le anime dei penitenti, malinconiche e al contempo fiduciose nella salvezza, pregano (camiannu), in espiazione, un tempo lungo ma tuttavia definito (Mill’anni e chiù) al fine di diventare “vastedda” . Immaginate le pietre le anime dunque – che onde purificarsi pregano. Pregano nell’aspettativa ultima di rigenerarsi (rinesciri) in pane; così da salvare a loro volta, col proprio divenire cibo dello spirito, il prossimo. Non disse forse Gesù ai discepoli, durante l’Ultima Cena, dopo avere benedetto e spezzato il pane “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo”? E ancora “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo  pane vivrà in eterno”? (cfr. i VANGELI).

Il Purgatorio, luogo di misericordia.      

   

“Musica                               “Musica

musica                                 musica

e ciauru                                e profumo

 

ciauru di rosa                      profumo di rosa

e celi                                    e cieli

celi di luci                             cieli di luce

e luci                                    e luce

di sempri                              da sempre

                                    e pi sempri.”                         e per sempre.”  

 

La musica, la rosa, i cieli – NOVE i versi di questa terza parte del componimento come NOVE i cieli del Paradiso dantesco – caratterizzano l’atmosfera del Paradiso. Nessun “ambiente” pertanto, ma solo la “presenza” dei beati nei quali ravvisare l’immortalità dell’anima: “di sempri / e pi sempri.” La disposizione figuratamente ellittica dei termini musica, ciauru, celi, luci, sempri intende, inoltre, suggerire il senso di celeste concentricità dei nove cieli del Paradiso. Il Paradiso, luogo di lirica contemplazione.    

 

Dulcis in fundo, è significativo rilevare che le parole che compongono questo breve testo sono in tutto 33, giusto quanti i Canti di ciascuna Cantica della “Commedia”. Se ad esse poi aggiungessimo il titolo, arriveremmo alle 34 parole, ovvero quanti i 33 Canti dell’Inferno più uno, quello dell’introduzione generale. 

 

Come si può osservare, occorrono molte più parole per commentare una poesia che per scriverla.

E nondimeno ben altre considerazioni – più strettamente legate al linguaggio (l’aspetto individuale e creativo, “l’atto di volontà e di intelligenza” che Ferdinand De Saussure definì parole) – potremmo ancora cavarne: sulla essenzialità della parola, sul dissolvimento dell’aggettivazione, sull’assenza dei verbi coniugati ai modi finiti, eccetera eccetera.

La traduzione in Italiano infine, pressoché letterale, intende unicamente essere utile supporto a quanti non dovessero avere dimestichezza col dialetto siciliano.

 

                                                                                              Marco Scalabrino

 

     Petri

 

 

Allavancu.                             Dirupo.

Allavancu.                             Rovina.

“Senza fini.”                “Senza fine.”

 

              Mill’anni e chiù                       Mille anni e oltre

  camiannu                               riscaldando (con le preghiere)

  la muntagna:                           la montagna:

 

  “Oh,                                     “Oh,

  rinesciri                                diventare

  vastedda!”                            pane!”“

 

“Musica                               “Musica

musica                                 musica

e ciauru                                e profumo

 

ciauru di rosa                      profumo di rosa

e celi                                    e cieli

celi di luci                            cieli di luce

 

e luci                                    e luce

di sempri                              da sempre

                                    e pi sempri.”                         e per sempre.”  

 

“Poesia e impegno civile” di Stefano Giovanardi

dante alighieri

La poesia è di per sé scandalosa, di per sé rivoluzionaria, la poesia è “di per sé”. Quando è vera poesia, di per sé può cambiare le cose”.

Stefano Giovanardi

*La funzione del poeta impegnato è quella di “avvelenare i pozzi”
*La distanza tra la realtà e il linguaggio poetico
*La poesia di guerra
*Il poeta e la politica
*L’esilio del poeta
*Rimbaud e la modernità
21 marzo 2000

 

Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Scientifico “Elio Vittorini” di Milano

GIOVANARDI: Mi chiamo Stefano Giovanardi. Sono docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Pavia, e “critico letterario” presso il quotidiano “La Repubblica” e il settimanale “L’Espresso”. La puntata odierna è dedicata al tema “Poesia e impegno civile”. Prima della discussione osserviamo una scheda filmata.

Poesia e impegno civile non trovano facilmente un accordo, poiché ciò che vi è di autentico nell’espressione poetica sembra parlare una verità dell’uomo e del mondo, che trascende sempre la visione a una sua particolare verità storica. La poesia vive della possibilità di trasfigurare in ogni momento un modo di dire e una visione delle cose in un evento completamente nuovo. Perciò, molte volte, nella storia della cultura occidentale, qualcuno si è arrogato il compito di mettere in riga i poeti, bandendoli dalla Repubblica o predisponendo per loro uno spazio legittimo di espressione. La poesia e la letteratura vivono, quindi, nella lotta contro la loro degenerazione nel moralismo e nella falsificazione della realtà. Ma questa battaglia per la sincerità dei gesti e degli sguardi, per l’autenticità per ciò che ci attrae e riempie la nostra vita, oppure che la svuota e la rende vuota, questa battaglia ha un’importanza capitale per la difesa degli esseri umani. La poesia ci racconta della dimensione contingente e particolare degli interessi umani, della molteplicità e la diversità degli orizzonti di vita. Da essa, come dalla buona arte, apprendiamo come distinguere tra ciò che è profondo e ciò che è banale, tra il sentimento autentico e il sentimentale, tra l’equanime e il tendenzioso. Apprendiamo lo sforzo di superare le fantasie personali per descrivere la realtà nella sua varietà, che nessuna ideologia o religione può mai racchiudere in una formula. Ma questo insegnamento trae la sua forza dall’indipendenza della poesia dalla politica e dalla morale, dalla sua libertà. Come apprendere tale insegnamento senza mai rovesciarlo nel suo opposto, nell’arte per l’arte, nella chiusura dell’estetica alla vita?

STUDENTESSA: Che cosa si intende per “impegno civile” e quali forme assume nella poesia?

GIOVANARDI: Qualsiasi poesia ha una ricaduta sulla società a cui viene diretta. La funzione sociale della poesia è pertanto una funzione naturale, connessa proprio con il suo essere nella storia. Si sono dati momenti storici in cui si riteneva che la poesia dovesse aprirsi ad alcuni argomenti e non ad altri: ai problemi della società, della storia e della cronaca, piuttosto che ai problemi dell’individuo, dell’emotività e dello stare al mondo privato. In questi momenti si suole individuare come movente della poesia quello che attualmente si preferisce definire “impegno civile”. Tuttavia l’impegno civile nella poesia è sempre esistito. Basti pensare a La Divina Commedia di Dante.

STUDENTESSA: È più il contenuto o la forma utilizzata che rende un componimento poetico o una poesia di “impegno civile”?

GIOVANARDI: L’uno e l’altro. Potete notare che vi sono accanto a me due oggetti molto significativi: una carrucola e una bottiglia di veleno. Questi oggetti si riferiscono a una frase del poeta e critico fiorentino Franco Fortini, scomparso sei anni fa, il quale, nel suo libro di narrativa Verifica dei poteri, scrive che funzione del poeta impegnato è quella di “avvelenare i pozzi”. L’avvelenamento dei pozzi sostanzia un’operazione subdola, in quanto non comporta uno scontro diretto. Funzione del poeta è pertanto quella di instillare segni all’interno degli organismi sociali e culturali, al fine ultimo di scardinare gli equilibri costituiti. A questo fine rivestono una estrema importanza sia il momento della scrittura, noi diremmo il “momento formale”, quanto quello del contenuto. Possono esservi poesie contenutisticamente violente, dal punto di vista della denuncia, ma che adottano una lingua oramai logora e ossificata, che rende di per sé il messaggio inefficace, perché è una lingua che è stata forgiata proprio dalla classe contro la quale si rivolge. D’altra parte si danno poesie il cui contenuto è perlomeno ambiguo, o comunque non raggiunge i toni di una denuncia, ma che sono scritte in una lingua atta a scardinare gli equilibri costituiti. L’impegno della poesia, proprio perché riguarda la natura della poesia, va verificato nell’interezza della stessa, nella sua totalità, in cui entrano inevitabilmente e, in eguale misura, gli esperimenti formali e i messaggi contenutistici.

STUDENTESSA: Perché un poeta dovrebbe scegliere proprio la poesia come mezzo di trasmissione dei valori sociali?

GIOVANARDI: L’essere poeti significa entrare comunque nella sfera dell’estetica, entrare comunque nella produzione artistica. Non credo che si decida di essere poeti. La poesia non deve subire una decisione, ma una forza interiore. Considerate la forza interiore e la decisione del poeta di assumere un ruolo sociale, e pertanto di entrare nel circuito comunicazionale, l’espressione artistica viene caricata di una serie di valori, scelti, di volta in volta, in base alle contingenze storiche o alle esigenze psicologiche dell’autore. Non ritengo che si diventi poeti per essere “impegnati”. Si è poeti anzitutto, e, in determinate circostanze della propria vita, si è anche poeti “impegnati”.

STUDENTESSA: La poesia moderna sembra diventare sempre più incomprensibile. Ciò non rischia di vanificare a priori ogni tentativo di impegno civile? Se si tratta di un impegno civile, la poesia dovrebbe utilizzare un linguaggio accessibile a tutti. Oppure si può concepire un impegno civile riferito solo a pochi, una poesia di impegno civile ma “elitaria”?

GIOVANARDI: Si suole far decorrere la poesia moderna dal “simbolismo”, ossia da quel particolare movimento poetico nato in Francia negli ultimi decenni dell’Ottocento e il cui testo-base era Il pomeriggio di un fauno di Stéphane Mallarmé. Detta poesia constatava la distanza incolmabile tra la realtà e il linguaggio poetico. È una poesia che, attraverso il linguaggio poetico, vuole arrivare all’inesprimibile, vuole essere rivelatrice dell’infinito, e, per questo, necessariamente infinita. La poesia simbolista appartiene comunque alla sfera dell’universale, in quanto esprime l’universale emotivo, rappresentato dall’universale del simbolo. È difficile definire la poesia simbolista civilmente impegnata, significando con ciò l’apertura, la denuncia o la conoscenza del mondo o della realtà. È vero anche che spesso la poesia fa dell’indecifrabilità il suo obiettivo. Non è detto che queste forme non abbiano una ricaduta sull’immaginario collettivo, in un senso o nell’altro. Quando Eugenio Montale scrive: “Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, non sta redigendo un manifesto politico, né facendo una denuncia, ma sta parlando di una condizione individuale, ossia di una condizione di cui l’uomo si trova a potere esprimere soltanto la negatività. Si ravvisa in ciò la constatazione di una condizione umana riferibile a una società, riferibile a una storia, riferibile a un momento storico, che è quello che il poeta sta vivendo. La poetica del negativo risulta pertanto molto più eversiva e molto più efficace di qualsiasi denuncia aperta in cui si diano ricette in positivo per il cambiamento della società. Messaggi che apparentemente od esclusivamente riguardano la soggettività del poeta possono sortire un impatto sulla società dagli effetti imprevedibili. È vero che la poesia moderna è spesso ambigua e incomprensibile, ma è anche vero che l’incomprensibilità può diventare un grimaldello che consente di smascherare talune realtà.

STUDENTESSA: Noi abbiamo deciso di portare una cartolina di richiamo alle armi e la poesia di Giuseppe Ungaretti: Soldati

si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie”

(Bosco di Courton luglio 1918)

Non è forse Ungaretti colui che meglio esprime l’impegno civile in una poesia? La poesia di guerra ungarettiana non è già un modo per dimostrare l’impegno civile?

GIOVANARDI: La poesia può sicuramente essere patriottica. Del resto, la poesia del Romanticismo Italiano è una poesia patriottica per elezione. Sull’impegno civile di un poeta come Ungaretti io avrei francamente qualche dubbio. Con ciò non intendo svalutare la poesia ungarettiana. “Soldati, si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” si riferisce alle condizioni della trincea e alla precarietà delle vite umane in guerra, ma in un alone di soggettività del poeta fortemente imperante. L’io del poeta domina la scena. Sono atomi di una emozione fortemente soggettiva, sensazioni di un attaccamento alla vita dell’io che emergono in primo piano. In tutte le poesie di trincea di Ungaretti, raccolte ne Il porto sepolto, è presente il protagonismo del soggetto, il protagonismo dell’io, che inevitabilmente relega in secondo piano il dramma collettivo della guerra. Un effetto di “impegno” può scaturire da qualsiasi cosa. Si può recepire un messaggio “impegnato” anche da Il porto sepolto. Tuttavia, avendo a mente la volontà di partenza dell’autore e la destinazione che l’autore ha inteso dare a queste poesie, ho più l’impressione che siamo sul piano dello sfogo privato e dell’esaltazione della soggettività, che su quello della denuncia degli orrori bellici.

STUDENTESSA: Italo Calvino ne Le lezioni americane scrive che la letteratura deve trattare fin quello che ci circonda con uno “stile leggero”. Secondo Lei, è possibile associare lo stile leggero all’impegno civile? Non si cadrebbe in questo modo nel superficiale?

GIOVANARDI: Credo che sia possibile associare lo stile leggero all’impegno civile. D’altra parte non credo e non deve esistere una ricetta di poesia, o di letteratura, “impegnata”. La letteratura può trarre valenze sociali da qualsiasi cifra espressiva. Si può sicuramente evincere tutta una serie di messaggi tanto da un discorso leggero quanto da uno stile più solenne e più retorico. Il Novecento annovera svariati esempi di una letteratura di denuncia, di una letteratura realista, che tuttavia, per il modo assolutamente falso in cui si poneva, finiva per ottenere l’effetto opposto a quello che si era prefisso. La letteratura di impegno può facilmente diventare una letteratura di propaganda a favore di un partito o di un regime. Le storture della letteratura realista, durante lo stalinismo, sono sotto gli occhi di tutti. Ben vengano la leggerezza di Calvino e il modo, anche apparentemente disimpegnato, di porsi di fronte a determinati problemi, perché possono avere un’efficacia maggiore ai fini di un dibattito culturale sempre più ampio.

STUDENTESSA: La trasmissione dei valori sociali, che nel passato era affidata soprattutto ai poemi lirici, può essere oggi confluita in altri mezzi di comunicazione, come, per esempio, la musica o la pubblicità?

GIOVANARDI: Non credo che nel passato la comunicazione sociale fosse affidata essenzialmente ai poemi lirici. La lirica ha sempre avuto un ruolo abbastanza marginale, da questo punto di vista. Dal Settecento in poi, se c’è una forma letteraria destinata a veicolare messaggi di comunicazione sociale, questa è il romanzo. Se Lei si riferisce all’Eneide, è più opportuno parlare di “poesia epica”. Il “poema didascalico allegorico”, di cui La divina commedia dantesca è un esempio, ha invece una forte impronta narrativa, e si propone di impartire precetti morali e religiosi o di diffondere teorie filosofiche, estetiche e scientifiche. La lirica è un genere poetico maggiormente legato all’espressione della soggettività, all’espressione dell’io. Con ciò si definisce la poesia lirica. Trovo estremamente difficile che si possano nascondere messaggi forti, di comunicazione sociale, dietro la poesia lirica. La poesia lirica di per sé è l’espressione dell’io, dei sentimenti, delle emozioni, dei dolori. La poesia lirica comunque riguarda la soggettività, non la collettività. Quanto alla sostituzione della pubblicità o di altre forme alla letteratura, come promotori di una comunicazione sociale, credo che il ruolo della letteratura in tal senso si sia molto ridimensionato. Il cinema, per esempio, è un mezzo infinitamente più diretto e più eclatante, sotto il profilo del rapporto con il pubblico. La collocazione della letteratura nella società attuale tende a essere alquanto marginale rispetto a quella della televisione, del cinema, della pubblicità, o di altre forme di comunicazione. Questo non vuole essere un de profundis alla letteratura. Io sono convinto che la letteratura è una forma d’arte e, come tale, praticamente eterna. A proposito della specificità della letteratura e del ruolo dello scrittore rispetto al sociale, vediamo questa breve dichiarazione filmata di Pier Paolo Pasolini.

PIER PAOLO PASOLINI: Io credo nel progresso. Non credo nello sviluppo e, nella fattispecie, in questo sviluppo. Ed è questo sviluppo, semmai, che dà alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste, quasi tragica, perché, appunto, non sono un sociologo, un professore, ma faccio un mestiere molto strano, che è quello dello scrittore. Sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici, cioè io tutte le sere, tutte le notti, la mia vita consiste nell’avere rapporti diretti, immediati, con tutta questa gente che io vedo che sta cambiando.

GIOVANARDI: Contrapponendo lo scrittore al sociologo e al professore, Pier Paolo Pasolini allude a un rapporto, quello della letteratura con la realtà, maggiormente diretto e immediato. Il rapporto del sociologo o di qualsiasi altro ricercatore con la realtà parte da una serie di presupposti, culturali, disciplinari, storici, che necessariamente lo condizionano. Pasolini coltiva l’idea di una letteratura svincolata da qualsiasi parola d’ordine, e di tipo ideologico, e di tipo politico. Nel mondo a cui lo scrittore si rivolge si può cogliere l’originalità della poetica pasoliniana.

STUDENTESSA: Il poeta che milita in un partito politico, e che decide di trasmettere le proprie idee e i propri valori attraverso le proprie poesie, non rischia di fare di quest’arte uno “slogan”?

GIOVANARDI: L’avvelenare i pozzi di Fortini dice proprio questo, che la letteratura, anche la più reazionaria e la più disimpegnata possibile, è da preferire a qualsiasi altra forma letteraria fortemente ideologizzata. Fortini esprime il suo dissenso sulla dialettica politica che si manifesta all’interno del sistema borghese, perché, nella società neocapitalistica, la prima non può che soddisfare gli interessi della classe al potere. La polemica di Fortini tocca punte decisamente estremistiche, ma sottende una misura di verità. Quanto più la poesia vuole farsi cassa di risonanza di parole d’ordine che non le appartengono, e che appartengono ad altri universi di discorso, tanto più perde efficacia, sia sotto il profilo del valore letterario, sia dal punto di vista del fine sociale che si propone.

STUDENTESSA: Posto che l’autore è libero di esprimere ciò che desidera, se la poesia si fa espressione delle idee, per quale ragione questa deve essere interpretata come un asservimento al potere?

GIOVANARDI: Non si tratta infatti di un asservimento al potere puro e semplice. Il poeta mantiene una sua libertà di espressione. Nel corso del Novecento sono emerse parole d’ordine piuttosto invasive, di stampo politico e ideologico. È sempre esistito un margine tra le autentiche volontà dell’individuo-poeta e quanto effettivamente delegato al poeta da forze che con la poesia non sono rapportabili. Il Brecht “lirico” è l’esempio che si può fare della grande poesia con dei contenuti squisitamente politici. Il problema non sussiste quando la scelta del poeta è perfettamente libera, perché concerne il proprio modo di stare al mondo e di confrontarsi con una volontà che può diventare imperativa, quale è quella di cambiare lo stato delle cose. Le cose cambiano quando la poesia deve rendersi espressione di parole d’ordine precostituite. In questo caso si riduce il valore complessivo del lavoro letterario.

STUDENTESSA: La poesia è penalizzata da una diffusione alquanto limitata. Non è paradossale una poesia di impegno, proprio per il fatto che i suoi temi sociali non possono essere portati alla conoscenza di tutti?

GIOVANARDI: Non credo che sussista un problema di maggiore o minore diffusione, per quanto riguarda l’arte. È vero che l’arte novecentesca trova nel rapporto con il pubblico una carica sicuramente superiore a quella di altri secoli. Viviamo in una società di massa, in cui l’universo del sociale incombe molto più che in altre epoche. Occorre non confondere il problema legato alla diffusione con la marginalità del ruolo ricoperto dalla poesia. L’idea della inutilità della poesia attraversa tutto il Novecento. Basti pensare al Lasciatemi divertire di Aldo Palazzeschi. Paradossalmente proprio la dichiarazione di inutilità può avere una ricaduta sociale positiva. Ci si porta a chiedere perché questo mondo non chiede più nulla ai poeti, perché la poesia è diventata inutile, perché essa non ha più un ruolo. Benché lo straordinario valore artistico dei suoi dialoghi lo ponga tra i più grandi scrittori di ogni tempo. Nella La Repubblica Platone bandisce l’arte, e quindi la poesia, dal suo Stato ideale in quanto meramente sensibile e imitativa. Nel momento in cui un poeta dichiara la sua inutilità egli sta lanciando un messaggio sociale. Che lo colgano venti persone o che lo leggano in duecentomila è un problema assolutamente secondario.

STUDENTE: In passato molti poeti, come Pablo Neruda, sono stati esiliati perché svolgevano attività contrarie al regime e perché militavano in un partito. Attualmente in che modo si attua la censura e come si può distinguere da reati come l’apologia di reato?

GIOVANARDI: Pablo Neruda è stato esiliato da un regime fascista, dunque totalitario. La censura evidente consegue sempre a regimi totalitari, di un segno o dell’altro. È fin troppo chiaro che non è necessario esiliare un poeta o ucciderlo. Basta non parlarne. Nelle società democratiche in cui però la comunicazione di massa ricopre un ruolo fondamentale alcune forme di censura, implicita, strisciante, fatta attraverso il silenzio, possono risultare molto dannose. Non si tratta di censurare questo o quel poeta. L’ultimo caso di ostracismo violento nei confronti di un poeta in Italia è stato quello occorso ai danni di Pier Paolo Pasolini, il “poeta scandaloso”. Da una parte v’è la censura della poesia, ossia di quel tipo di forma e di espressione, dall’altra la censura di tutto quello che non ha una immediata ricaduta massmediologica. Viviamo nella società dello spettacolo. La poesia è indubbiamente poco spettacolare. Dalla società dello spettacolo può venire una forma di censura persino più insidiosa di quelle violente dei vari dittatori, o dittatorelli, che si sono susseguiti nel corso della storia.

STUDENTESSA: Lei prima ha affermato che l’impegno civile è sempre stato presente nella poesia. A me sembra che l’impegno civile della poesia antica fosse un po’ diverso da quello della poesia moderna. Questo perché l’impegno civile della poesia antica era meno programmato di quello attuale. Lei condivide questa argomentazione?

GIOVANARDI: Occorre anzitutto chiarire che cosa si intende per poesia antica. Un frammento del poeta greco Alceo, del VI secolo avanti Cristo, dice: “Ubriachiamoci, perché è morto Mirsilo, e siamo tutti contenti”. Mirsilo era un tiranno dell’isola di Lesbo in cui nacque e visse Alceo. I modelli sociali dell’epoca erano meno articolati e complessi di quelli attuali. L’impegno e le conseguenti forme di denuncia erano inevitabilmente diverse. Alcuni aspetti non venivano presi in considerazione. Il livello e la natura dell’impegno varia e si evolve a seconda dell’evolversi dei modelli sociali nei quali la poesia si colloca, benché l’intenzione sia sempre la stessa. La volontà del poeta impegnato verte sempre sul conoscere, sul denunciare e sul cambiare.

STUDENTESSA: Quali limiti deve osservare la poesia legata all’impegno civile per non cadere nella retorica e nel moralismo?

GIOVANARDI: A mio avviso il limite principe è l’autenticità. È l’autenticità dell’autore, del poeta. Per autenticità non si intende un modo di esprimersi “diretto” e senza riflessione. La poesia è comunque artificio. L’uomo non parla in versi. Occorre sicuramente un intervento a freddo da parte del poeta. Qui si parla dell’autenticità del sentire che in seguito assume i propri strumenti linguistici. Gli strumenti linguistici non sono neutri. Tanto meno si è autentici, tanto più si sarà retorici, e tanto più si affiderà l’intera costruzione poetica alla forma dell’espressione. La maggiore autenticità, a parità di artificiosità nelle forme espressive, renderà sicuramente inferiori i tassi di gioco retorico e di fredda sperimentazione. Non esistono ricette a questo proposito. L’uomo può soltanto recepire dei prodotti finiti. In base al prodotto finito l’uomo potrà accorgersi o stabilire se si tratta di una poesia morale o di una poesia moralistica, di una poesia impegnata o di una poesia che fa della mera retorica. Quel che conta è che dietro l’artificio poetico ci sia l’autenticità del sentire.

STUDENTESSA: Riguardo alle facoltà di denuncia e di cambiamento proprie della poesia di fronte alle contingenze storiche difficili, volevo chiederLe se l’unica funzione rimasta alla poesia sia quella di alleggerire l’animo, vista la complessità della realtà nella quale viviamo. Uno scrittore e poeta recente, anche abbastanza famoso, Vazquez Montalban, rimprovera a Arthur Rimbaud il fatto di aver voluto cambiare il mondo con la poesia, e dice: “Nessun labirinto può alterare il risultato”.

GIOVANARDI: Della poesia di Rimbaud ricordo l’impegno profuso nel “cambiare la vita”, “changer la vie”, non il mondo. La poesia può aiutare a cambiare la vita, ma non è detto che la vita si debba cambiare in un senso o nell’altro. La poesia è un’esperienza intellettuale che veicola una serie di valori emotivi e psichici e contiene in sé una gamma di visioni del mondo. Un possibile mutamento prodotto dalla poesia non riguarda necessariamente la gestione sociale o politica del mondo. Per cambiare il mondo bisogna cambiare la vita, per cambiare la vita occorre che cambino gli individui. La poesia può farsi manifestazione di questa necessità. Quanto più il mondo in cui la poesia nasce è complesso, tanto più l’apice dei margini di libertà si riduce, e tanto più è difficile il lavoro del poeta. Un Rimbaud che postula la modernità e il cambiamento della vita oggi si troverebbe in difficoltà, perché la modernità attuale è andata orientandosi verso una ossificazione dell’esistente. La società dello spettacolo, la civiltà di massa, la globalizzazione, stanno portando a un immobilismo delle coscienze, delle individualità, delle vite. È indubbio che, in una situazione del genere, il ruolo che può svolgere la poesia, come esperienza intellettuale e come scandaglio emotivo e psichico, diventa più arduo.

STUDENTESSA: Lei prima sosteneva che la poesia è un’esperienza intellettuale. Io non sono propriamente d’accordo. Credo che la poesia sia soprattutto una esperienza di vita. Mi viene da pensare a tutti i poeti della Resistenza, e a Primo Levi. Quelle sono esperienze di vita e sono pagine, a mio avviso, di autentica poesia. La poesia, quindi, non risponde solo ad un’operazione intellettuale.

GIOVANARDI: La poesia è un’operazione intellettuale allo stesso modo in cui lo è scrivere una lettera. Rimanda al rivivere un’esperienza di vita, una condizione psichica, o una condizione emotiva, alla luce di una elaborazione intellettuale. Nel momento in cui si scrive si compie una elaborazione intellettuale. Io non credo che la poesia debba legarsi ad esperienze di vita particolari, non comuni. Si sono dati grandissimi poeti, dalla vita apparentemente piatta, ma che avevano un serbatoio psichico molto consistente. Molte volte il risultato di un impegno può essere del tutto indipendente dalla volontà dell’autore. D’altra parte le grandi contingenze storiche favoriscono una presa di coscienza da parte della poesia.

STUDENTE: Se il poeta vive in una società che lo coinvolge e lo influenza, potrà comunque scrivere poesie non impegnate civilmente?

GIOVANARDI: Non vi è prescrizione che tenga, per quanto riguarda la poesia. Ogni individuo è coinvolto in qualcosa. Tuttavia, quale che sia il coinvolgimento nel sociale, ogni individuo può parlare d’amore. Parlando d’amore il poeta rischierebbe la sua posizione sociale? Assumerebbe un impegno civile? Io dico di no. È nondimeno scontato che una poesia d’amore possa avere una ricaduta di tipo sociale o politico. È importante che la poesia abbracci una dimensione totale, una dimensione in cui l’uomo poeta entri in tutto e per tutto, qualsiasi sia il campo di applicazione. Nel caso contrario la poesia non entra nel circuito della storia.

STUDENTE: Abbiamo scelto il sito Internet dedicato a Giuseppe Ungaretti dove abbiamo trovato questa poesia: http://www.club.it/autori/grandi/giuseppe.ungaretti/poesie.html

Fratelli
Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

Le parole di pace di questa poesia potrebbero essere paragonate, secondo Lei, a quelle più propriamente di guerra dell’”Inno” di Mameli?

GIOVANARDI: L’alternativa storica all’Inno di Mameli è il “Va pensiero sull’ali dorate” di Giuseppe Verdi. Un discorso così pacifista va bene come manifesto. L’Inno di Mameli è un classico esempio di poesia volontariamente impegnata. In situazioni diverse un messaggio pacifista può risultare altrettanto forte, altrettanto dirompente. La poesia è di per sé scandalosa, di per sé rivoluzionaria, la poesia è “di per sé”. Quando è vera poesia, di per sé può cambiare le cose.

Puntata registrata il 19 Gennaio 2000

Da: Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche

www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=643

“Dove passa il Simeto” di Aldo Grienti – Recensione di Marco Scalabrino

GRIENTI.copertina

ALDO GRIENTI

 

Il Rinnovamento DOVE PASSA IL SIMETO

 

 

         “E così un altro protagonista del rinnovamento della poesia siciliana ci ha lasciato: protagonista di un rinnovamento fondato sui testi e non sugli oziosi proclami, sugli esiti artistici individuali e non su qualche manifesto. Ma se n’è andato senza lasciarci una raccolta organica delle sue poesie in siciliano”, leggiamo in un pezzo di Paolo Messina, in ricordo di Aldo Grienti, pubblicato nel Febbraio 1988 a Palermo, sul numero ZERO di quello che fu l’effimero ritorno – ad opera di Salvatore Di Marco – del po’ t’ù cuntu!   

 

         Aldo Grienti nasce a Catania nel 1926.

         Nel 1957 – insieme a Carmelo Molino – Aldo Grienti è il curatore della Antologia POETI SICILIANI D’OGGI, Reina Editore in Catania. L’antologia, con introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, raccoglie, in rigoroso ordine alfabetico, una esigua quanto significativa selezione dei testi di 17 Autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino, Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando  Patamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro.      

         Ma già prima – corre l’anno 1955 allorché a Palermo, a cura del Gruppo Alessio Di Giovanni, con la prefazione di Giovanni Vaccarella, vede luce l’Antologia POESIA DIALETTALE DI SICILIA – Aldo Grienti è tra i protagonisti: U. Ammannato, I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C. Molino, N. Orsini, P. Tamburello.

         Le due sillogi, che all’epoca ebbero vasta eco, testimoniano il primo atto di quel processo appellato il rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana.  

         “Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro Giovanni Vaccarella nella prefazione a POESIA DIALETTALE DI SICILIA – è poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza. Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria patetica, guadagna in scavazione interiore quel che perde in effusione. Le parole mancano di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente miele e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei veri poeti la oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la sigla dei grandi.” 

         “I dialettali – afferma Antonio Corsaro, in prefazione a POETI SICILIANI D’OGGI – non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se disuguale è il loro piano di risonanza. Nell’ambito di una lingua, per dire, ufficiale, che assorbe e trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, il dialetto si presenta come una fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella poesia ha versato gli stati d’animo, l’essenza umbratile e segreta dello spirito attraverso un linguaggio puro da ogni intenzione oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica situazione dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del mezzo espressivo costituisca ormai una ragione valida di isolamento. Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono già arrivati a un tal segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non avere nulla da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono fare di una lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che l’usura letteraria suole meglio rispettare.”

 

         “Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore – prosegue Paolo Messina nel suo pezzo – quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania il 27 Ottobre 1945, e la cito perché proprio in quella occasione conobbi Aldo Grienti diciottenne”.

         E, nel saggio la nuova scuola poetica siciliana, così ricorda: “Nel 1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, quel primo nucleo di poeti, che già comprendeva le voci più impegnate dell’Isola, prese il nome del Maestro e si denominò appunto Gruppo Alessio Di Giovanni. Occorre però dire che non ci fu un manifesto, né l’ausilio di un apparato critico, né un riscontro adeguato sulla stampa, se si esclude la pubblicazione di alcuni testi significativi sui fogli catanesi a cura di Aldo Grienti: Torcia a ventu e La Sorgiva.”

         E, riprendendo questo ultimo punto, in un articolo datato 3 Aprile 1986 su LA SICILIA di Catania, aggiunge: “Aldo Grienti, ancora ventenne, non esitò a pubblicare sui fogli letterari catanese Torcia a ventu e La Sorgiva (1946-47) i primissimi esiti artistici che avrebbero rivoluzionato il modo di poetare in Sicilia. E non inganni la modestia tipografica di quelle pubblicazioni, poiché dalle loro pagine provinciali i testi più significativi dovevano confluire, nel volgere di pochi anni, sulla più qualificata rivista romana Il Belli diretta da Mario Dell’Arco e curata da Pier Paolo Pasolini.”

         Nella prima delle due antologie menzionate, POETI SICILIANI D’OGGI, Aldo Grienti è presente con quattro componimenti: SINTIRIMI CELU, BIZZOCCA, OGNINA e MI SCANTU.                         

         Antonio Corsaro, nella nota critica in prefazione a POETI SICILIANI D’OGGI, nei riguardi di Aldo Grienti così si pronuncia: “La sua liricità meglio si attua quando è volta alla composizione di un conflitto … misurando il tono sintetico interiore nella felice corrispondenza del mezzo espressivo. Egli sa creare di colpo un’atmosfera, evocare un dato e subito investirlo di luce sofferta.”

         Liricità realizzata da Aldo Grienti con termini, espressioni, situazioni del tutto siciliani; che pienamente combina una forma autenticamente originale, innovativa e uno spirito genuinamente siciliano:

“Stancari l’occhi stunati / ni l’acqua affarata di li zotti / (unni li stiddi sciacquanu la luci) / pi sintìrimi celu comu a tia … / Cusà ni quali funnu di jisterna / s’affuca lu me ruttami di suli?”;

“‘N cappeddu viola a nnocchi di villutu / t’appara du’ occhi micciusi: / sgagghi appuntati ni la peddi arrappata … Lu to tuppu biancu si ‘nzerta / sutta li merguli e li frinzi …”;

“E l’unni si spirtusanu di scogghi, / si stràmmanu, / si sfrìnzanu a linzudda … La varca è sula: / li rimi abbannunati a li du’ stroppi / sunnu du’ vrazza ciunchi …”;

 “Mi scantu / di li to’ capiddi  bianchi / lavati cu acqua di  luna …”.

         Un linguaggio, questo di Aldo Grienti, ricco di strutture analogiche e simboliche, che vuole essere percepito piuttosto che spiegato; imbastito com’è di splendide pennellate: il sole che si affoga in fondo a una cisterna, le onde che si bucano di scogli, i capelli lavati con  l’acqua di luna.

         “Pochi i versi, è vero – si legge in un articolo firmato da Nicolò D’Agostino, pubblicato a Palermo sul numero di Aprile 1990 del Mensile di Letteratura Dialettale giornale di poesia siciliana diretto da Salvatore Di Marco – perché in effetti Aldo Grienti non fu poeta di lunga militanza nell’area del dialetto siciliano, avendo trasferito, soprattutto negli anni Sessanta, nella poesia in lingua italiana e principalmente nelle arti figurative, le proprie vocazioni artistiche. Ma questo non inficia il valore letterario della sua opera di poeta dialettale. Aldo Grienti – prosegue D’Agostino – era <generazionalmente> nuovo, rispetto alla poesia dialettale degli anni Trenta-Quaranta. Egli era soggettivamente nuovo, e praticò subito (senza bisogno di rinnovarsi perché né aveva sostenuto o praticato poesia vecchia, né aveva nulla da aggiornare ad un modello poetico che in lui, giovanissimo autore, andava per la prima volta prendendo forma) un suo modo di fare poesia prima ancora che il vecchio, che la tradizione, lo contagiassero.”

         Ecco ci sovviene Aldo Grienti pittore; ma ne parleremo più avanti. Troviamo piuttosto – e riportiamo – ulteriori testimonianze circa Aldo Grienti e i suoi testi.

         Ariu di Sicilia – osserva Salvatore Di Marco in un pezzo pubblicato sul numero di Settembre 1988 di giornale di poesia siciliana titolato UNA OCCASIONE MANCATA – fu fondato nel 1954 da Pietro Tamburello che ne assunse la redazione. Era un foglietto di quattro pagine, che usciva ogni mese e che durò esattamente da Marzo a Ottobre di quell’anno.” E, in prosieguo, quanto ai testi letterari pubblicati aggiunge: “In tutto si trattò di 115 poesie di 41 autori. Tra questi c’erano tutti i poeti che si riconosceranno quanto prima nel Gruppo Alessio Di Giovanni. Parlo di Ugo Ammannato, Miano Conti, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Pietro Tamburello e Gianni Varvaro.”

         Il MANIFESTO della Nuova Poesia Siciliana del 1989, nella sezione I POETI, propone quattro componimenti di Aldo Grienti: Robbi di siccia, Ognina, Sira e Rabi.

         ARTE e FOLKLORE di SICILIA di Catania (Alfredo Danese direttore) pubblica sul numero di Maggio-Giugno 1996 la poesia di Aldo Grienti robbi di siccia che, col titolo frullare d’ali nere, figura nella traduzione – proiezione preferisce Paolo Messina – italiana su DOVE PASSA IL SIMETO, opera alla quale ci siamo progressivamente accostati.

 

         Riproponiamo Robbi di siccia, Sira e Rabi:     

 

                            robbi di siccia

 

                            Li mari s’accavarcanu affarati.

                            Si stiranu

                            s’arrappanu

                            si storcinu

                            si scorcianu di biancu;

                            e lassanu a li scirbi sdirrubusi

                            pruvulazzu di sali. 

                           

                            Lu celu s’accupuna

                            a li negghi c’arrancanu.

                           

                            Sciurniari ntall’aria d’ali niuri

                            comu sti robbi di spiranzi nchiusi

                            fatti di siccia.

 

                            Sira

                           

                            Pi lu celu abbruscatu

                            sciddica

                            ‘n occhiu sbarratu di suli.

                           

                            Sfilazzi stanchi di nuvuli

                            mpinti a li crucifissi di li crèsii

                            si vannu nsanguniannu di tramuntu.

 

                            E lu silenziu scotula

                            supra la vita di cimentu armatu

                            lu so passu di cinniri

                            mentri lu scuru s’abbrancica

                            nta lu celu di ruggia.

 

                            Rabi

 

                            Spazzi funnali d’acqua

                            trasparenti di stiddi

                            su’ l’occhi toi

                            Rabi

                            ca tremanu di chiantu.

 

                            E lu suli li nfoca

                            e lu ventu li lava

                            e la notti li nfascia

                            di scuru e di disìu.

 

                            Ti vogghiu beni, Rabi:

                            comu lu suli ca ti fa annurbari

                            di focu e di amuri

                            comu lu ventu ca ti fa lavari

                            di lacrimi e di celu

                            comu la notti

                            ca li suspiri abbrazza

                            strincennuti di sonni vagabbunni.

 

                            Rabi:

                            figghiu di la me notti

                            occhi ntrusciati di mari e di favula.

 

         La rivolta, la rivoluzione alla quale a più riprese si è fatto riferimento, ha spazzato via la ridondanza dell’aggettivazione, l’oleografia dei vezzeggiativi, la sclerosi della tradizione.

 

         DOVE PASSA IL SIMETO contempla 19 poesie.   

         Colpisce, non appena ci arriva tra le mani, la veste editoriale elegante e ricercata, il carattere dorato sul campo rosso (che all’interno poi si invertiranno), la riproduzione, in  copertina, di uno dei dipinti di Aldo Grienti.

         Perché Aldo Grienti è, negli anni della maturità, pittore. Salvatore Lo Presti lo definisce “pittore di schietto sentimento. Un sentimento che trasfonde nei suoi dipinti con serena compostezza, in una orchestrazione di colori che trasmutano in romantiche dissolvenze, soprattutto di grigi e verdi, creando visioni quasi irreali. Egli sente dentro di sé la nostalgia di un bene irraggiungibile e sogna la conquista di un felice approdo in cui bontà e amore affratellino veramente gli uomini. E così le sue <nature morte> (le quali sono piuttosto <personificazione> di oggetti) e i suoi <paesaggi> si illuminano di una tenue luce che carezza e assorbe il disegno culminando in quieti rossori. Luce che conferisce nobiltà e bellezza a <visioni> tenaci e suggestive, colte nelle assolate campagne di Sicilia, tra impervi sentieri, filari di alberi svettanti, casette sorridenti tra le lave dell’Etna.”

         Sono presenti in questo volume, ad opera di Andrea Ciravolo, le riproduzioni a colori di ben undici tavole di Aldo Grienti; lavori eseguiti con svariate tecniche (pastello, olio, china, disegno, tecnica mista, sanguigna, cera) ricompresi però tutti – a eccezione di uno la casa rossa – nel lasso di anni intercorrente tra il 1982 e il 1986.         

         Introduce questa pubblicazione, voluta da Fosca Laila Grienti (la figlia di Aldo) all’indomani della morte del genitore avvenuta il 12 Marzo 1986 a Catania, una autorevole testimonianza di Paolo Messina, dalla quale traiamo: “Qualcuno (uno storico della nostra letteratura) prima o poi dovrà pure far piena luce anche su quella nuova ouverture siciliana. Qui ne parlo perché Aldo Grienti vi esercitò una funzione di primissimo piano e perché la sua personale poetica (visione generale e prassi) cominciò a prendere forma allora nelle opere in siciliano di cui molte liriche di questo libro sono la proiezione. La prima impressione di lettura dei suoi testi, infatti, è quella di una insolita laconicità, di una concisione spartana, pur nella sufficienza espressiva che non lascia fuori pagina alcun residuo immotivato. L’ombra, i punti oscuri, semmai, sono tematici, sono altrove, nella sua visione prospettica del mondo … Aldo Grienti era un poeta di rara coerenza filosofica (ma non prigioniero di astratte convinzioni o di dogmi), egli non correva dietro alle mode, né mai si concedeva ai capricci della tribu, ma sperimentava la sua propria vita nell’arte senza mai farne spettacolo. Occorre anche precisare che le poesie qui raccolte nella loro più recente proiezione in lingua italiana furono composte   nell’arco di un decennio (fra il 1945 e il 1955)”.

         E continua Paolo Messina, nell’articolo cui s’è fatto cenno in apertura di questo viaggio “balza subito in evidenza che lo scarto fra i testi originali in siciliano e questa <proiezione> in italiano risulta minimo, che il dialetto non era più portatore di una <cultura subalterna>, ma si era innalzato alla ricerca di <contenuti> (e quindi di forme) su più vasti orizzonti di pensiero. Sicché con lui (e con gli altri poeti definiti allora “neoterici”) la poesia siciliana toccava il punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica, pur restando (linguisticamente) siciliana.”

 

         Ben oltre l’omaggio filiale – di cui pure ha insiti i tratti del dovere e dell’orgoglio e   dell’amore – questa silloge, allora, perviene!

         La sua trama soffusa accomuna natura, sogno, angoscia del vivere … la sintesi tutta della fatica e della grazia di essere uomini:

         “Il mare sorregge / una curva tagliente di cielo. / … voglio smorzare / le stelle con le dita / voglio posare sul palmo aperto / una lacrima di luna”;

         “m’illudo / e prendo a calci / un brandello di sogno / per interrompere / l’angoscia di vivere. / E’ inutilmente giorno / con un cielo così.”;

         “se non c’è più una stella / dove appendere i miei sogni?”,

         “tutto è rimasto com’era / le case che sembrano stalle / la gente coi volti di lava / … il sole che brucia la carne / la piana che t’entra nel sangue.”

 

         Il Simeto sfocia alfine nello Ionio.

 

                            Non hai ali che per te

 

                            Lune accese

                            e notti sempre chiare

                            tu vuoi

                            uccello vagabondo

                            per le tue ciglia piagnucolose.

                            Ma stasera la luna

                            rompe i cerchi gialli

                            dentro lo stagno della noia.

 

                            E tu non hai ali

                            che per te.

 

                            So che rubi

                            il tuo pianto alle stelle

                            so che racconti

                            alle crepe infocate delle rupi

                            pene che non sono tue

                            so che …

                            (Negli occhi tuoi d’azzurro

                            non hanno senso i ricordi.)

 

                            E piagnucoli.

 

                            Dio quant’acqua stasera                    

                            nei tuoi occhi

                            uccello bugiardo …

 

                            Tu che non hai ali 

                            che per te.

 

         Aldo … nella Poesia.   

 

 

                                                                            Marco Scalabrino

 

“Una nuova cultura” Franco FORTINI

Franco FORTINI

(Pubblicato sul blog collettivo "La Poesia e lo Spirito")

Per leggere  i commenti vai su:

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2007/08/15/una-nuova-cultura-franco-fortini/#more-2323

Quando si pronuncia la parola cultura, viene fatto di pensare ai libri e allo studio; perché per i più, infatti, cultura equivale a sistema più o meno organizzato di conoscenze intellettuali. Per altri, e per noi, cultura è invece il modo nel quale gli uomini producono quanto è necessario alla loro esistenza, la particolare maniera, mutevole per il mutare dei mezzi di produzione, con la quale essi entrano in rapporto con gli altri uomini e con le cose. Cultura è la forma nella quale gli uomini, nella loro storia, si sono scambiati i prodotti del lavoro, costruite capanne e cattedrali, scelte le parole dell’amore; è la forma varia nella quale hanno fissato i costumi, i riti, le leggi; nella quale hanno arati i campi, esplorato il mare, condotto gli eserciti, speculato i cieli, composto i poemi. Queste forme noi sappiamo che non soltanto non sono eterne ma che anzi si mutano più o meno visibilmente nel tempo secondo una legge necessaria che l’uomo deve cercare di conoscere per potere efficacemente agire.
    Mutano i mezzi della produzione e poi, lentamente, penosamente, muteranno di conseguenza leggi, costumi e filosofie degli uomini. Un’antica popolazione ne rese schiava un’altra; e il lavoro dei vinti lasciò respiro ai vincitori, non più costretti all’aratro, per scolpire le statue di Atene o dettare le leggi di Roma. La scoperta del vapore creò, con la grande industria, gli enormi proletari del secolo passato; e il lavoro dell’operaio moderno poté lanciare le transiberiane che recarono all’artista occidentale le opere d’arte della cultura giapponese e a quella le meraviglie della meccanica europea. Questi modi, queste forme costituiscono dunque la cultura (o la civiltà) di una determinata nazione o popolo o classe o individuo, in un dato tempo o periodo.
    Ma il tempo odierno, per essere quello d’una profondissima trasformazione dei mezzi e dei rapporti di produzione, vede anche una crisi rivoluzionaria della sua cultura. E questo si scorge appunto nel concetto di cultura; che è ancora, per molti, legato a un’erronea distinzione fra spirito e materia, fra arte e scienza, tra lavoro dell’intelletto e lavoro delle mani. La rivoluzione industriale che dovunque, ora è un secolo, portò al potere la borghesia del capitale provocò un modo di produzione – la grande fabbrica – che era destinato ad alterare profondamente tutta la cultura della società; ma sopravvivevano intanto, come tutt’oggi sopravvivono, leggi costumi arti e filosofie dell’epoca precedente, modi di produzione intellettuale che, per antichissima tradizione, godevano d’una considerazione privilegiata.
    Avvenne così la distinzione della quale oggi soffriamo: i filosofi, gli artisti, gli studiosi furono “industrializzati” e usati come merce qualsiasi, oppure furono onorati tanto più quanto il loro “aroma spirituale” si sostituiva a quello delle screditate religioni ufficiali. Ma furono, al tempo stesso, accuratamente invitati ad astenersi dalla vita reale della società; invito che, in generale, fu largamente seguito. Si finì col chiamar cultura solo quella degli studiosi e dei pensatori e fin quella delle scuole, cioè la cultura dei libri, l’erudizione o l’informazione invece dell’azione formatrice. Oggi anche noi siamo costretti a usare in questo senso la parola cultura, per poterci intendere. E così continuiamo a chiamare, per comodità, uomini di cultura tutti gli intellettuali che abbiano un certo grado di informazione e di letture. Quelli insomma che dovrebbero avere nella società contemporanea la funzione di una coscienza vigile.
    Ma noi sappiamo che una coscienza senza presa sul reale è illusoria, è vera incoscienza. Né v’è possibilità di presa sulla realtà per gli intellettuali della cosiddetta cultura se non nella relazione, nel flusso e nel riflusso, nello scambio fra i modi e le forme della produzione intellettuale (la Cultura con la C maiuscola) e i modi e le forme della produzione tecnica (agricola, industriale). Queste culture hanno divorziato fra loro, nel mondo moderno, riflettendo la violenza della divisione in classi della società. Ecco che il poeta scrive i suoi versi come se i suoi lettori fossero venti o cinquanta; e l’editore ne abbandona il delicato fascicolo sulle bancarelle mobili di tutte le stazioni, fra i pacchi di prosa dei quotidiani. L’architetto disegna le sue case come vogliono scienza e arte; e le leggi della proprietà privata gliene impediscono la realizzazione. Lo scienziato elabora per lunghi anni rimedi contro la tubercolosi finché il suo governo sferra migliaia di bombardieri sulle città e sui sanatori. Rendersi conto di questo divorzio è già muoversi per superarlo; perché, come nell’individuo lo squilibrio fra intelletto e volontà paralizza l’azione, così nella società le varie forme di cultura dovrebbero tendere non a elidersi o a ignorarsi ma a entrare in rapporto dialettico tra loro. Per ciò appunto chiamiamo alta o esemplare quella civiltà o quella cultura nella quale le varie produzioni sono compiute secondo un certo comune modo, ubbidienti ognuna a una comune misura. Così è alta ed esemplare la cultura di certo medioevo perché nella sua produzione, sia agricola che artigiana, architettonica o scientifica, nelle ideologie politiche come in quelle religiose, si rivela una singolare unità, superiore ai contrasti: che è quella del concetto feudale di proprietà o del nascente diritto comunale.
    Noi diciamo che la “cultura intellettuale” del nostro tempo è stata sconfitta e da tempo. Quella che si era fatta titolo d’onore della propria assoluta indipendenza e irresponsabilità di fronte alla produzione della volontà politica della classe dominante (le false democrazie e le dittature) e all’anarchia della produzione industriale (autarchia e imperialismo economico) sin da prima della guerra del 1914 era stata ottimismo idealistico o progressista, e fu incapace di disarmare gli eserciti. Fra le due guerre fu angosciato irrazionalismo che rese possibile tutte le mitologie che hanno vagato e forse ancora vagano sui continenti.
    Sappiamo che è un antico sogno assurdo chiedere agli uomini che producono arti, filosofia e scienza, di esercitare sulla società le funzioni proprie del politico o del tecnico; tra uomo di stato e filosofo che lo consiglia, sappiamo che uno dei due ha sempre la peggio: lo stato o la filosofia. Ma sappiamo anche che cosa ha permesso e favorito la scissione delle culture della società moderna: la formazione cioè della grande industria e la conseguente creazione di una minoranza dominante di privilegiati. Essi hanno fatto sì che i modi e le forme della produzione industriale favorissero e accrescessero i loro privilegi – e sappiamo bene come. Così la cultura del capitalismo è scritta sulle facciate delle metropoli moderne: è la grande officina, la produzione cronometrata, l’esercito motorizzato, la grande stampa, il cinema.
    Ma, al tempo stesso, essi avevano ereditato dalla società precedente l’ossequio superstizioso per l’intelligenza: “Studi dunque tranquillamente lo scienziato nei suoi laboratori il modo migliore di far progredire la scienza, l’architetto il modo più sano e più bello di abitare; e dipinga pure, nel suo studio, il pittore” dissero allora gli uomini che detenevano il potere economico. “Ma io delle invenzioni scientifiche userò solo quelle che rafforzeranno i miei privilegi e la potenza dei miei eserciti; piuttosto che comode case per tutti sarà meglio costruisca archi e monumenti a testimonianza della mia potenza. E, quanto al pittore, egli dovrà allietare, con lo scrittore, i miei riposi o morire di fame nelle sue soffitte.”
    La cultura intellettuale si trovò così senza mani o con deboli mani asservite; e le mani della cultura industriale e contadina si trovarono cieche, senza mente, o con deboli menti asservite.
    Questa è la ragione per la quale le più grandi intelligenze della grande cultura mondiale, per quanto abbiano sostenuto il rispetto della dignità e della libertà umana, della democrazie e della ragione, nulla hanno potuto fare davanti allo scatenarsi della barbarie. Ma noi non rimproveriamo a quelle ideologie di essere impotenti a mutare certi modi e rapporti di produzione o a evitarne le conseguenze distruttrici. Noi rimproveriamo a quelle ideologie di non rendersi sufficientemente conto di essere appunto le ideologie di quei certi modi e rapporti di produzione e precisamente di quelli della cultura borghese e non piuttosto di quei modi e forme della produzione che già, entro la società di oggi, hanno disegnato quella di domani. Rimproveriamo quindi all’idealismo di Croce, all’umanesimo di Mann e allo “spirito non prevenuto” di Gide (o meglio agli idealismi, umanesimi, spiritualismi, esistenzialismi di oggi; almeno per quella parte di essi che vorrebbero farci credere di aver trionfato con la carta Atlantica e la bomba atomica) di essere cultura insufficientemente critica verso se stessa e perciò sterile e regressiva.
    Ma sappiamo anche che non esiste possibilità di separare l’uomo di ieri da quello di oggi e di domani. Quella cultura intellettuale sussiste e agisce tuttora come, separate da quella, sussistono tutte le forme della produzione industriale e contadina. E la cultura degli sfruttatori. Che possiamo giudicare dunque, tranquillamente, barbarie.
    Sappiamo perciò che agire per una nuova cultura intellettuale – vale a dire per una nuova filosofia e per una nuova sociologia ed economia e arte e teatro e scuola – equivale a lottare per una nuova società e quindi anche per la modificazione della sua struttura economica, premessa di ogni altra. Parallelamente dunque e non indipendentemente dall’azione sociale e politica corre la nostra via, che attua nuove forme di produzione intellettuale (di “servizi” intellettuali) a quel modo stesso che i ricostruttori sociali e politici attuano forme nuove di produzione e di distribuzione dei beni. Solo la coscienza e la volontà di questa interdipendenza può far sì che opposte culture, nel seno d’una medesima società, si integrino in una unità che convien dire dialettica. Così che il ritmo di lavoro dell’operaio, la struttura dell’ambiente in cui vive, le leggi che lo governano, il suo modo di divertirsi, di parlare, eccetera, rechino il segno d’una possibile perfezione dettata dall’intelletto; e che, inversamente, le produzioni dell’intelletto non siano dettate dal privilegio.
    Tracciare le linee di questa cultura unitaria vorrebbe dire ripetere inutilmente i temi della polemica politica e sociale che la società nuova conduce da decenni dentro la vecchia e a cui l’ultima guerra dei tiranni ha dato così tragica risonanza. E vorrebbe dire anche rischiare il generico di un programma che, in sé per sé, non può esistere. Possiamo solo ripetere che alla meta della nostra opera sta anzitutto il superamento del dualismo, generato dalle classi, fra cultura intellettuale e cultura della produzione o tecnica che dir si voglia; e al suo inizio vi sta il concetto di “persona umana” o di “uomo”, obiettivo e origine di ogni cultura, inteso come l’individuo nella coscienza della propria correlazione col prossimo e delle proprie determinazioni storiche. Che è come dire, con esclusione di quanto tende a distruggere la persona o nella direzione dei miti sotterranei e collettivi della razza, del sangue e della natura (massa indifferenziata) o in quella dei miti celesti di un astratto Spirito o di un astratto Io (individualismo anarchico).

Settembre 1945

Franco FORTINI – Una nuova cultura – da Saggi ed epigrammi (Mondadori 2003)(I meridiani)

“Criteri metodici” di Antonio GRAMSCI

Antonio Gramsci

Sarebbe assurdo pretendere che ogni anno o anche ogni dieci anni, la letteratura di un paese produca un Promessi sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò l’attività critica normale non può non avere prevalentemente carattere “culturale” ed essere una critica di “tendenze” a meno di diventare un continuo massacro.    E in questo caso, come scegliere l’opera da massacrare, lo scrittore da dimostrare estraneo all’arte? Pare questo un problema trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista dell’organizzazione moderna della vita culturale, è fondamentale. Una attività critica che fosse permanentemente negativa, fatta di stroncature, di dimostrazioni che si tratta di “non poesia”, diventerebbe stucchevole e rivoltante: la “scelta” sembrerebbe una caccia all’uomo, oppure potrebbe essere ritenuta “casuale” e quindi irrilevante. Pare certo che l’attività critica debba sempre avere un aspetto positivo, nel senso che debba mettere in rilievo, nell’opera presa in esame, un valore positivo, che se non può essere artistico, può essere culturale e allora non tanto varrà il singolo libro – salvo casi eccezionali – quanto i gruppi di lavori messi in serie per tendenza culturale. Sulla scelta: | il criterio più semplice, oltre l’intuizione del critico e l’esame sistematico di tutta la letteratura, lavoro colossale e quasi impossibile da farsi individualmente, pare quello della “fortuna libraria”, intesa in due sensi: “ fortuna di lettori” e “fortuna presso gli editori” che in certi paesi dove la vita intellettuale è controllata da organi governativi, ha pure il suo significato perchè indica quale indirizzo lo Stato vorrebbe dare alla cultura nazionale. Partendo dai criteri della estetica crociana, si presentano gli stessi problemi: poiché “frammenti” di poesia possono trovarsi da per tutto, nell’”Amore Illustrato” come nell’opera di scienza strettamente specializzata, il critico dovrebbe conoscere “tutto” per essere in grado di rilevare la “perla” nel brago. In realtà ogni singolo critico sente di appartenere a una organizzazione di cultura che opera come insieme; ciò che sfugge a uno viene “scoperto” e segnalato da un altro ecc. Anche il dilagare dei “premi letterari” non è che una manifestazione, più o meno bene organizzata, con maggiori o minori elementi di frode, di questo servizio di “segnalazione” collettiva della critica letteraria militante.
    E’ da notare che in certi periodi storici l’attività pratica può assorbire le maggiori intelligenze creative di una nazione: in un certo senso, in tali periodi, tutte le migliori forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora si può parlare di superstrutture: secondo ciò che scrive il Cambon nella prefazione all’edizione francese dell’autobiografia di Henri Ford, in America si è costruita una teoria sociologica su questa base, per giustificare l’assenza, negli Stati Uniti, di una fioritura culturale umanistica e artistica. In ogni caso questa teoria, per avere almeno un’apparenza di giustificazione, deve essere in grado di mostrare una vasta attività creatrice nel campo pratico, sebbene rimanga senza risposta la quistione: se questa attività “poetico-creativa” | esiste ed è vitale, esaltando tutte le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi dell’uomo, come non esalta l’energia letteraria e non crea un’epica? Se ciò non avviene, nasce il legittimo dubbio che si tratti di energie “burocratiche”, di forze non espansive universalmente, ma repressive e brutali: si può pensare che i costruttori delle Piramidi, schiavi trattati con la frusta, concepissero liricamente il loro lavoro? Ciò che è da rilevare è che le forze che dirigono questa grandiosa attività pratica, non sono repressive solo nei confronti del lavoro strumentale, ciò che può capirsi, ma sono repressive universalmente, ciò che appunto è tipico e fa sì che una certa energia letteraria, come in America, si manifesti nei refrattari all’organizzazione dell’attività pratica che si vorrebbe gabellare come “epica” in se stessa. Tuttavia la situazione è peggiore dove alla nullità artistica non corrisponde neanche un’attività pratico-strutturale di una certa grandiosità e si giustifica la nullità artistica con un’attività pratica che si “verificherà” e a sua volta produrrà un’attività artistica.
    In realtà ogni forza innovatrice è repressiva nei confronti dei propri avversari, ma [in quanto] scatena forze latenti, le potenzia, le esalta, è espansiva e l’espansività è di gran lunga il suo carattere distintivo. Le restaurazioni, con qualsiasi nome si presentino, e in special modo le restaurazioni che avvengono nell’epoca attuale, sono universalmente repressive: il “padre Bresciani”, la letteratura brescianesca diventa predominante. La psicologia che ha preceduto una tale manifestazione intellettuale è quella creata dal panico, da una paura cosmica di forze demoniache che non comprendono e non si possono quindi controllare altro che con una universale costruzione repressiva. Il ricordo di questo panico (della sua fase acuta) perdura a lungo | e dirige la volontà e i sentimenti: la libertà e la spontaneità creatrice spariscono e rimane l’astio, lo spirito di vendetta, l’accecamento balordo ammantati dalla mellifluità gesuitica. Tutto diventa pratico (nel senso deteriore), tutto è propaganda, polemica, negazione implicita, in forma meschina, angusta, spesso ignobile e rivoltante come nell’Ebreo di Verona.
    Quistione della gioventù letteraria di una generazione. Certo, nel giudicare uno scrittore, di cui si esamina il primo libro, occorrerà tener conto dell’”età”, perché il giudizio sarà sempre anche di cultura: un frutto acerbo di un giovane può essere apprezzato come una promessa e ottenere un incoraggiamento. Ma i bozzacchioni non sono promesse, anche se paiono aver lo stesso gusto dei frutti acerbi.

Antonio GRAMSCI Quaderni dal carcere (Einaudi) – quaderno 23 (VI)§ (36)

“Ars poetica” Ezra POUND. Traduzione di Cristina Campo

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I

    La poesia dev’essere scritta altrettanto bene quanto la prosa. La lingua dev’essere bella e in nessun modo allontanarsi dalla parola detta, se non per un’accresciuta intensità (cioè semplicità). Non devono esservi parole libresche, niente perifrasi, niente inversioni. Dev’essere semplice come la prosa di Maupassant e dura come quella di Stendhal.

   Non sono ammesse le interiezioni, non le parole che volano via nel nulla. Ammesso che non si può ad ogni colpo far centro, si almeno questa l’intenzione. Il ritmo deve avere un significato. Non può essere una semplice partenza, senza presa, senza stretta sulle parole e il senso.

   Niente clichés, niente frasi fatte, stereotipie giornalistiche. Il solo modo di sfuggire a questo è la precisione, che è il risultato di un’attenzione concentrata a ciò che si sta scrivendo. La prova di uno scrittore è la sua capacità di simile concentrazione e la sua facoltà di rimanere concentrato finché non sia arrivato alla fine del suo lavoro, siano due versi o duecento.

   Oggettività e ancora oggettività ed espressione. Niente code al posto delle teste, niente aggettivi a cavalcioni (come “putridi muschi fradici”). Niente, niente che non si possa in qualche momento, nella stretta di qualche emozione, effettivamente dire. Ogni letterarismo, ogni parola libresca sgretola via un pezzetto della pazienza del lettore, un po’ del suo sentimento della vostra sincerità. Quando uno sente e pensa veramente, egli balbetta le parole più semplici.

    La lingua è fatta di cose concrete. Espressioni generiche in termini non-concreti sono pigrizia; sono conversazione, non creazione.

    Il solo aggettivo che valga la pena di usare è l’aggettivo essenziale al senso del passaggio. Mai l’aggettivo decorativo.

 

II

    Concisione, ovvero stile, ovvero dire ciò che s’intende dire col minor numero di parole e le più chiare.

    Effettiva necessità di creare o costruire qualcosa; di presentare una immagine o più immagini di oggetti concreti, disposti in modo da toccare il lettore. Al di là di questi oggetti concreti si possono fare semplici constatazioni del sentimento sui fatti; come “sono stanco” o “alla morte non può seguire peggiore male”, ecc.

    Io credo vi debbano essere più, molti più oggetti che constatazioni e conclusioni, essendo queste ultime puramente ipotetiche (optional), non essenziali, spesso superflue e quindi pessime.

    Ma bisogna che vi sia l’emozione, o la cadenza e il ritmo saranno rapidi e senza interesse.

    Il compito del poeta è definire e ancora definire finché il particolare alla superficie sia in accordo con la radice nella giustizia.

    In nessun caso la costipazione del pensiero, sia pure nel particolare, consentirà bella scrittura.

    Lucidità…

 

 

III

    Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato.

 

 

IV

    Buttate fuori tutti i critici che usano vaghi termini generici; non solo quelli che usano vaghi termini generici perché sono troppo ignoranti per dar loro un significato, ma quelli che usano vaghi termini per nascondere il significato; e tutti quei critici che usano i loro termini in modo così vago che il lettore può immaginare siano d’accordo con lui o gli diano ragione mentre non è così: col che intendo dire che i loro articoli possono sempre apparire in solide e rispettate riviste  senza scatenare una zuffa o provocare le proteste degli abbonati. La prima credenziale che noi dobbiamo esigere da un critico è la sua ideografia del bello, di ciò che egli considera scrittura valida e di tutti, tutti i suoi termini generici. Allora sapremo a che punto si trova.

    Non potrò mai ripetere troppo spesso o con troppa energia la mia diffidenza (caution) per i cosiddetti critici  che parlano tutto intorno all’argomento e non definiscono i loro termini e non sanno dire francamente che certi autori sono una scocciatura maledetta. Fatevi dire da un uomo prima, e con tutti i particolari, quali sono per lui i buoni scrittori: solo dopo ne ascolterete le spiegazioni.

 

 

Traduzione di Cristina Campo – in Cristina CAMPOLa tigre assenza” (Adelphi, Milano 1991)

Da Wikipedia, una breve registrazione della voce recitante di Pound:

 http://www.case.edu/artsci/engl/VSALM/mod/ballentine/ 

 

 

Paolo Messina & “Rosa fresca aulentissima” di Marco SCALABRINO

MESSINA - copertina

   

Rosa Fresca Aulentissima, Poesie Siciliane, volume impresso a Palermo in 300 copie, è del 1985:

Ø     ventidue testi –

Ø     in scrupoloso ordine cronologico, tra il 1945 e il 1955 –

Ø     senza versione in Italiano, né note né glossario –

Ø     nel complesso poco più di duecento versi –

Ø     con accenti tonici per favorirne la lettura.

 

         A LA SICILIA. 1945. È un sonetto.

         Paolo Messina avrà per tutta la vita lunga frequentazione e dimestichezza con il sonetto. Nel suo saggio l’essere della poesia del 1990 egli annota: <la mia idea del sonetto come limite infinito della poesia, non solo in quanto metafora del poetare, bensì e più propriamente come struttura essenziale di ogni atto di poesia. Idea fondata sulla diretta esperienza, da una parte, e sulla riflessione estetica dall’altra, talché poi comporre un sonetto e intravederne la possibile perfezione poietica (il suo poter essere “bello e razionale”) diventano un atto solo. Obiezione corrente alla moderna, attuale praticabilità del sonetto è quella relativa alla forte restriction métrique ch’esso comporta: restrizione che impedirebbe un libero o più agevole approccio alla poesia. È invece proprio la rigorosa determinazione formale, una “porta stretta”, anzi chiusa, ciò che tenta (o dovrebbe tentare) ogni spirito avventuroso, il quale dovrà inventarsene la chiave, trovarla nella sua audacia intellettuale e nella sua forza d’animo, poiché, non appena avrà spalancato questa porta, egli sarà colto dalle vertigini, trovandosi improvvisamente a sporgersi sugli infiniti paesaggi dell’essere della poesia, quando scende a sostanziare le cose, ciò che ne conferma il fondamento ontologico. Sicché il limite (la limitazione formale), l’uomo e il mondo (cioè la concezione che l’uomo ha di sé e del suo mondo) si aprono agli “interminabili spazi” della libertà creativa. Non c’è d’altronde assetto poetico più calcolato che nel sonetto, “bello e razionale” nella sua struttura inalterabile, eppure aperta a tante audacie interne, equilibrio di techne e di poiesis: un insieme di proposizioni che asseriscono delle implicazioni (tra figure, simboli, metafore) che contengono delle variabili (accenti, rime, assonanze in funzione semantica): definizione che ricalca quella proposta da Bertrand Russell per la matematica. Rinunziare per una presunta emancipazione metrica al sonetto comporta quindi una immediata perdita di intensità e di afflato nei rapporti con lo spirito, che, come avvertiva senza perifrasi Hörderlin, è retto da leggi metriche.>                 

L’esordio della antologia condensa liricamente <le coordinate storiche – riporta Orio Poerio – dell’esperienza che fu alla base della sua formazione>: l’amore per la Sicilia (d’ogni senziu / trama amurusa), l’appartenenza ad essa (ddocu affunnu / li ràdichi), la nascita a nuova vita (nàsciu arreri) attraverso la <vuci> del dialetto (d’ogni lingua ciuri) e il conseguimento della chiave che apre il mondo: la Poesia.

SPIRANZA. Un speranza fanciulla, libera e spensierata che corre, gioca, canta; e coglie e deposita ai piedi del poeta <vrazza chini / di rosi majulini>.

Ritroviamo in questo secondo sonetto la puntuale applicazione dei precetti sopra enunciati, ma piuttosto che soffermarci su essi, preferiamo registrarne i toni di novità che albergano nel raddoppiamento delle parole omogenee.

<Il raddoppiamento – scrive Luigi Sorrento in nuove note di sintassi siciliana – o la ripetizione di un avverbio (ora ora, rantu rantu) o di un aggettivo (nudu nudu, sulu sulu) comporta di fatto due tipi di superlativo: ora ora è più forte di ora e significa “nel momento, nell’istante in cui si parla”, nudu nudu è “tutto nudo, assolutamente nudo”. I casi di ripetizione di sostantivo (casi casi, strati strati – nella nostra ipotesi: celu celu, spini spini) e di verbo (cui veni veni, unni vaju vaju) sono speciali del Siciliano. “Strati strati” indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di “estensione” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. “Cui veni veni” intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la estende dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente.>       

URA CA PASSA. 1947. La rivoluzione (fu proprio Paolo Messina ad adoperare questo termine, mentre Salvatore Camilleri aveva preferito il lemma: rivolta) si compie!

<Si pubblica a Catania nel 1947 – ribadisce il Camilleri – diretto da Giovanni Formisano, torcia a ventu, un settimanale con una rubrica di poesia siciliana curata da Aldo Grienti, dove appare la lirica URA CA PASSA, di Paolo Messina, primo e reale esempio di poesia dialettale moderna.> E sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989, incalza: <URA CA PASSA, del 1947, nata dall’ermetismo italiano, ma forse più direttamente dal simbolismo francese, dà inizio alla nuova poesia siciliana. Paolo ha 24 anni e si rende subito conto di ciò che è avvenuto.>

         In quindici versi liberi – Paolo Messina fu il primo ad adottare il verso libero e anche in questo sta la straordinaria novità -, stringatissimi, senza rime, nella concreta realizzazione del suo “strumento necessario”, nelle espressioni autenticamente siciliane, negli efficaci dispositivi analogici, simbolici, metaforici, nelle pregevoli invenzioni, nell’accostamento di suoni, nella coerenza ortografica … la felice, originale, lirica formulazione dei principi innovativi teorizzati. E, sbaragliati i vocaboli ricercati, reboanti, artificiosi, bandito ogni traccheggio del verso, cedimento vernacolare, italianismo, epurata la ridondanza di aggettivi, diminutivi, vezzeggiativi … le parole “quotidiane”: chiantu, ura, praj, ciuri, notti, erva. Parole, che nell’alchimia del Poeta si animano, acquistano significati che eccedono la loro semplice lettera; parole comuni che nella loro inusitata cifra compongono scenari irrefutabilmente unici, disegnano profili squisitamente singolari, assurgono a raffinato strumento espressivo con cui il Poeta esplicita la propria Weltanschauung, <l’arte – affermò Viktor Borisovic Šklovskij – restituisce una visione autentica del mondo>.

Pregevolissimo nella sua interezza – dimensione la sola che consente di carpirne l’austera bellezza – se ne riportano, solo a mo’ dimostrativo, taluni sintetici, intensi stralci: <iu m’acquazzinu di tempu, mi ridi la luna / e mi vesti di biancu, portu li giumma / d’un abitu dimisu / ‘n contraluci.>

PASSAGGI. <Na sira (eramu tutti a manciari ô Risturanti Shangai d’a Vucciria) ci apprisintai a prima manu d’un sunettu ntitulatu Passaggi. Mi taliaru – ricorda Paolo Messina in Puisia Siciliana e Critica – tutti alluccuti e fu Fidiricu Di Maria (misu a caputavula) ca rumpiu ddu silenziu dicennumi: Ora ci deve spiegare che significa. Paroli tistuali. Ma comu, ci arrispunnivi, propriu vossia mi veni a fari sti discursi? L’autri s’a pigghiaru a ridiri. E finiu ca ni mbriacamu.>

Episodio eloquente che la dice lunga circa la problematicità di interpretazione (della poesia e) di questo terzo sonetto che, peraltro, l’enjambement: ariusu / juncu, lenti / nuvuli, e l’anastrofe: si passa di salutu umbra, esteticamente connotano.

RISPIRU D’UN CIURI. 1948. Secondo esempio di verso libero.

Immediatamente dopo ogni grande passo è assai difficile ripeterne uno della medesima portata, bissare. La vocazione si consolida; l’ambizione di tentare strade nuove, più difficoltose, malsicure, faticose delle vecchie e, a conti fatti, più avare di riconoscimenti (ma questo forse non importa) persiste. E i risultati non mancano: <silenziu / crisciutu supra un jiditu, amuri ca passa / pi ’na vina di celu, mi sentu / ‘ntra lu pettu / un jardinu di stiddi.>

Gli altri, nel frattempo, che fanno? dove vanno? (anche questo non importa: la Poesia, si sa, è “esercizio solitario” e d’altronde – suffraga il Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1989 di Arte e Folklore di Sicilia – <bisognò aspettare almeno cinque anni prima che altri poeti maturassero quella rivoluzione, formale e strutturale, che era in atto>).

PRIMU DI MAIU. 1949. Terzo testo della nuova “ouverture” in tre anni.

L’occasione, la festa (già tristemente macchiata di sangue a Portella della Ginestra nel 1947) del 1° Maggio. La guerra, con il suo opprimente, irrisolto retaggio di morte, distruzione, sofferenza è appena dietro l’angolo, la sudditanza culturale, sociale, economica da cui decantano la miseria, l’ingiustizia, il malaffare sempre lì a prenderti per la gola, a sgomentarti, a reclutarti. Ciò malgrado, quel primo di Maggio 1949 vola sulle ali di un passero <nni la manica aperta di lu ventu>, pulsa di ricostruenda collettività, avviluppa, in un vorticoso caleidoscopio, gli uomini <li vrazza / turciuti di la fatica / abbrazzati a la terra> e le cose <li banneri, li roti, li ciminii, li pilastri di li casi, li rimi di li varchi, l’àrbuli di li bastimenti, li spichi di furmentu.>

         PARTIRI. 1950. La metafora è nella testa (e non nella penna)!

         Possono apparire adesso – il verso libero, il simbolo, l’enjambement, lo scavo interiore … – conquiste scontate, ovvie, abusate. Ma – immaginiamo – quanti studi ed esitazioni, prove e assidue verifiche, intralci e tentazioni di mollare, allora, per chi ebbe a trovarsi nella esaltante, e al contempo scomoda, sua posizione.

         <Al poeta – ebbe a dire Giuseppe Zagarrio – compete lo stesso dovere-diritto dello scienziato in laboratorio: quello della ricerca, la più ampia possibile, la febbrile consapevolezza di essa, la speranza continuamente gratificante di cogliere ed esprimere qualcuna delle spinte che il collettivo inter-soggettivo opera di continuo dalla sua massa corale e anonima>.

         E Paolo Messina ricerca con consapevolezza la parola nuova, sperimenta con tenacia l’espressione che implichi compiutezza di forma e contenuto, s’ingegna a che l’applicazione sia autenticamente siciliana: <ciuriu lu molu di palummi, nudda lacrima / vagna la corda ca mi va muddannu>. E, non ultimo, si prodiga affinché l’esito si collochi nella cornice della (sua, perché scelta, voluta da lui) disciplina: la coerenza ortografica del dialetto, il criterio semantico di trascrizione di esso, l’impiego delle preposizioni più gli articoli; cornice, pertanto, entro la quale non possono insistere i segni diacritici (tranne l’aferesi in: ‘n, ‘na, ‘ntra, ‘nzina), i raddoppiamenti consonantici iniziali, i nessi fonici.

         La chiusa, <‘nzina ca lu silenziu / mi jetta ‘n coddu / ‘na ghirlanna d’acqua>, ci impone, nella sua mirabile singolarità, una riflessione. Come fosse vera, la ghirlanda d’acqua ci coglie infatti alla sprovvista e quasi ci scansiamo per non esserne bagnati – chiunque di noi del resto d’impulso reagirebbe nello stesso modo; ma ancor più ci strabilia, perché insospettabile, colui/cosa ce la scaraventa addosso: il silenzio.   

         Se URA CA PASSA è stato l’archetipo, PARTIRI ne è stato il degnissimo seguito.

CHRISTUS. Pasqua 1952.

CHRISTUS, in maiuscolo, scrive Paolo Messina (come gli Ebrei a tutte lettere maiuscole scrivono JHWH, il tetragramma sacro per Jahvè) e considera che <di tannu / tu / ddocu arresti / ‘n cruci>.

Ma la religiosità rimane ritenuta, resta racchiusa nella sfera dell’intimo, non spicca il volo (della trascendenza). Il CHRISTUS è un uomo che muore, un uomo che <finiu di mòriri> con il conforto di <fimmini (chi) vannu e vennu (In the room the women come and go talking of Michelangelo, by Thomas Stearns Eliot) purtannu unguenti, linzola e lamenti>, e decisamente terreno è il teatro della rappresentazione: <arbulu, quartari d’acqua, gruppa / ca nuddu chiantu strogghi, sangu spantu>.

Il dialetto siciliano si riaccosta per un attimo, <consummatum est>, alle sue origini (a buona parte almeno di esse): il Latino. Nel naturale confronto e dalle valutazioni più complessive che ne scaturiscono, ci rendiamo conto di quanto la parentela tra i due sia tuttora stretta e di come esso abbia, tutto sommato, assai bene retto l’avanzare dei secoli.

BUCHÈ. Cinque endecasillabi non rimati, in cui si rinviene una delle rarissime eccezioni quanto al raddoppiamento iniziale della consonante, quella dell’avverbio: cchiù.

Il buchè che un Siciliano offre all’amata <li cchiù bianchi manu di lu munnu> non può che essere di <limpi zàgari> (i fiori bianchi dell’arancio simbolo di purezza) e il loro ciauru trattenuto <‘nzina a quannu stasira / idda trimannu strogghi lu nastru>.

LU CHIANTU. Inizi del 1953. Paolo Messina ha già (appena) trent’anni.

Il silenzio (degli addetti ai lavori, della stampa, della critica) è assordante!

I risultati – tranne che nella percezione di pochissimi sodali – tardano e così gli auspicati effetti in ordine alla poesia e, per essa, alla realtà, alla “questione” siciliana, che è politica, oltre che sociale, culturale, economica. Ciononostante l’ufficio continua.

LU CHIANTU propone un positivo incipit <Cadu nni lu margiu /di lu me chiantu> e quindi termini soluzioni, ambienti ancora interessanti, benché già sperimentati: biancu fazzulettu / di luna, li pampini s’asciucanu / lu risinu …

Viene da chiedersi: <Quali / pena ‘nchiui pizzi ed ali> al Messina tanto da far sì che egli si rivolga al sole e lo ammonisca: <dumani lu chiantu / a tia puru t’abbinci>?

Un incidente in itinere, la stanchezza accumulata, la repentina sfiducia nei propri solitari mezzi? O non piuttosto il clima, il contesto di indifferenza, la trama di avversione (<un jornu vinni ‘n Palermu na diligazioni di pueti catanisi pi dirimi davanti a l’amici ca iu stava ruvinannu a puisia siciliana e ca l’avia a finiri>) che montava in direzione di quella che appariva essere una fuga (troppo) elitaria?

ZABBARI. Non leggevamo un sonetto (ma sarà l’ultimo della raccolta) dal 1947.

Un progetto però, quello del sonetto, solo rimandato. Paolo Messina infatti auspicò, con un appassionato intervento del 1989 riportato sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, il ritorno al sonetto <che può ancora oggi educarci alla libertà formale, in attesa che il trophaèum (cioè la sostanza poetica) riacquisti la forma del nuovo>, e produsse poi, rispettivamente nel 1990 e nel 2000, il saggio l’essere della poesia e il volume, in Italiano, sonetti. La sfida (sostanzialmente solo a se steso e perciò eternamente all’umanità) è quella di dimostrare che non la formula, non tanto la struttura del sonetto era (è), ormai, carente, logorata dai secoli, “cotta”, ma che la crisi era (è) in chi scrive, che la vena che si è prosciugata è quella dei poeti, di coloro che ne dovrebbero rinverdire i fasti e lo praticano invece con sufficienza. E allora, bene: la scommessa è vinta (bellissima l’icona <lu lentu / suli>, come se fosse il sole – ve lo figurate! – a procedere mestamente e non già l’uomo, specie quello d’area mediterranea, a causa delle condizioni di calura, spossatezza, lentezza, ora sì, che esso determina).

La zabbara <c’adura di nenti> evoca una Sicilia di <arsura>, di brutture <ciuri ladiu>, di rassegnazione <disidderiu stancu> che pure esiste. Non solo bellezza, quindi, profumo, passione ma, altresì, le tante situazioni <senz’amuri>, <cu li centu spini>, di solitudini <puntuti, silinziusi, trimulenti>. E nondimeno da Paolo Messina, dopo URA CA PASSA e PARTIRI, è lecito aspettarsi dell’altro, di meglio, di più.

IL 1953 si chiude con CANZUNA DI L’ACQUA.

Quattordici settenari che prendono in prestito i dettami del sonetto (tranne chiaramente l’endecasillabo). È l’unico prototipo del genere. Se ne apprezza la costanza mai sopita di provare, la visione, una certa magia di rapporti. Ma si intuisce l’ansimare della salita, il peso di andare avanti senza nessuno – come nel ciclismo – a tirarti la strada, il confidare nella discesa che sbuchi ritemprante dopo l’ennesima curva e nella borraccia fresca d’acqua; si coglie la “strategia” di proseguire per piccole (!) tappe, per traguardi raggiungibili che possano condurre dalla sperimentazione alla esecuzione di nuovi significativi esiti. La tentazione è quella di mollare un attimo i pedali: (<frischizza ‘n contraluci> richiama subito alla mente l’<abitu ‘n contraluci> di URA CA PASSA) e, francamente, preferiamo ormai quelle altre “cose”, quelle “cose” che hanno fatto breccia nei nostri cuori, nei nostri animi, nei nostri gusti: quelle “cose” che hanno segnato il “punto di non ritorno”.     

TRADIMENTU. È del 1954 il segmento più nutrito (sette testi) della silloge.

Assieme con CHRISTUS e, vedremo, col testo che subito appresso segue, una sorta di trittico che attiene alla spiritualità dell’uomo.

Lampanti i riferimenti alle vicende che culminarono nel più famoso tradimento avvenuto un Venerdì che precedette la Pasqua, là in terra di Giudea e al misfatto che si perpetra, come sempre, al <cantari / pi la terza / vota> di <lu gaddu>. Si conferma la dimensione privata e terrena (filara d’umbri / sipali / jardina ‘nchiusi) della spiritualità sebbene nell’accorta trasfigurazione praticata dal dialetto: <un occhiu sulu apertu / e adduma, di ‘n celu / ‘na pinna bianca di palumma.>

MADONNA. I toni – se non la veste – sono quelli della preghiera.

La madre di Dio è invocata a proteggere <stu santu amuri, urdutu / cu manu bianchi>, a distendere le sue braccia bianche come <ponti nni lu scuru / di la terra.>

L’aggettivo bianco (pressoché nella assenza di ogni altro colore) – insieme al sostantivo “silenziu” – è quasi il vessillo della poesia di Paolo Messina: bianchi crini, mi vesti di biancu, pi lu sonnu biancu, calici biancu, ali bianchi, li cchiù bianchi manu, biancu fazzulettu, lu pettu biancu, na pinna bianca, cinniri bianca. Un recondito anelito di armonia? di pace? di misticismo?

Ogni conquista diventa patrimonio comune: se ne appropriano gli altri poeti, ma persino coloro che per primi l’hanno raggiunta la reiterano – come fosse un bel gioco dei bambini – al fine di metabolizzarla, consolidarla, definitivamente acquisirla.

CARRETTU SICILIANU. Inanimato legato di un consorzio umano rurale, arretrato, (apparentemente) folcloristico <tuttu roti / cianciani e giumma>, il carretto approda, in una sintassi pervasa da talento e da laica pietas, ad <arruzzòlu baggianu di culura>. Ma in questa terra di <occhi nivuri / manu tradituri / friddi raccami / petti addumati>, la jumenta, la Sicilia personificata, la <canzuna / (resa) muta> dalle secolari profanazioni, ignominie, angherie subite, <supra la munta dura> morde il freno e <ciara l’umbri>, nello struggimento di affrancarsi dall’amaro giogo <di l’asti>.

MARI GRANNI. In quel <ora tentu> la chiave del componimento: il “sogno” recuperato. Il sogno in cui credere e per cui inseguire ancora la vita <li vrazza longhi di li strati> e, per inconfutabile simbiosi, la Poesia, malgrado <li passi chini di gruppa, la frunti / china di silenziu>.

Un componimento da leggere con dedizione, condiscendenza, riguardo alle pause, allo scopo di assaporarne la liricità, penetrarne i gradi di invenzione, condividerne la felicità di realizzazione. Un convinto plauso a uno tra i testi migliori della silloge, di cui si riportano i versi conclusivi: <Di li banchini di li nuvuli / jetta lenzi lu suli / nni lu mari granni di lu munnu. / Ridu dintra mia / ca li potti / vìdiri ‘n tempu.>

ASPETTU D’ESSIRI IU. Il dado è tratto!

MARI GRANNI ne è stato il testo seme, l’anticipazione: la <vuci aperta> di questo riprende la <aperta vuci> di quello, l’<astrachi di la sira> riecheggiano <li banchini di li nuvuli>. Ma qui la consegna è vissuta con la certezza del (futuro) compimento, l’attesa, <aspettu>, è solamente in ordine alla circostanza, nel convulso nostro vivere, in cui ritrovare sé stesso, ricongiungersi metafisicamente, integralmente a sé stesso, <essiri iu>, giacché quel tempo di <scriviri nni la manu addummisciuta / di lu silenziu / l’ura ca di sempri / va sunannu pi mia / a lu roggiu addumatu di la luna> è assiomatico, è solo da venire. Anzi, nella lirica attuazione, esso è già scoccato.

ASPETTU D’ESSIRI IU è la consacrazione di Paolo Messina. Se pure egli non dovesse (come di fatto avverrà nel giro di pochi mesi) più scrivere poesia siciliana, URA CA PASSA, RISPIRU D’UN CIURI, PARTIRI, MARI GRANNI, ASPETTU D’ESSIRI IU e, presto, AUTUNNU contraddistingueranno indelebilmente la stagione di Paolo Messina Poeta.

PISCI RUSSI. Il 1954 va in archivio con una divinazione: <ju puru / ci dissi addiu / a lu chiaru lippu di la vuci>.

Siamo agli sgoccioli; Paolo Messina lo avverte. Sappiamo adesso che (con IL MURO DI SILENZIO, nel 1959) un altro grande interesse prevarrà: il Teatro.

È da recepire, questo testo, anche in tale ottica? E se sì, perché? Perché questo abbandono? I risultati individuali – abbiamo appurato – vengono. E allora? Allora ciò non basta. Non basta più. Carmina non dant panem, si sa; ma neanche, nel nostro caso, gratificazione (la pubblica s’intende), quella della “grande” critica (il Vann’Antò, nel 1957, pur avendo egli colto il segno del mutamento, la modernità di quegli esiti stilistici e formali, definirà neòteroi – smaniosi cioè di novità e riforme – i nuovi poeti suoi conterranei) e persino i compagni di “processione” (eccettuati quelli di nicchia) mostrano resistenza, diffidenza, ostilità, non riescono (come la volpe dell’uva di Fedro) ad “afferrare” e cercano dunque di fare calare il silenzio, di ricondurre al minimo i progressi altrui.

Era (è) difficile condividere l’intimo tumulto di Paolo Messina, secondarne l’urgenza a volere essere innovativo, l’anelito a volere creare poesia siciliana con spirito, propositi, espressioni, situazioni, estetica siciliani?    

         CANZUNA D’AMURI. Ma, <Vuci, ca mi cusi / un sonnu sapituri, cusimi un lettu / a lenti ‘ncimi cu li to capiddi / cògghimi tuttu / nni lu to jiditali>. Un accorato esseoesse alla poesia, con la quale a breve si consumerà il distacco, ma dal cui ventre fecondo stanno pure già scaturendo, nel solco del Rinnovamento, le cose migliori di poeti quali Ugo Ammannato, Miano Conti, Antonino Cremona, Aldo Grienti, Carmelo Molino, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro.

ARBULU. Il 1955 (cinquant’anni or sono) segna con le tre ultime poesie la fine, per espressa sua volontà, della parabola pubblica del Poeta Paolo Messina.

C’è tutto Paolo Messina in questi ventidue componimenti? in questi poco più di duecento versi? C’è da giurare di no! Come pure è facile assai profetare che non dell’intera sua produzione si tratta quanto di una drastica selezione. E nondimeno, tant’è.

Il fatto che non le avesse pubblicate prima in una raccolta organica sottintende l’evenienza che altre prove sarebbero potute arrivare? E se no, perché non pubblicarle allora? E ancora, nel 1985, trent’anni dopo, perché le ha rese pubbliche? Dobbiamo, beninteso, essergliene riconoscenti, perché queste testimonianze, per la cultura, per la poesia, per la storia siciliane, assolutamente non andavano perdute, ma perché fare trascorrere un così lungo lasso di tempo? Gli animi si erano, forse, placati su tutte le querelles che hanno “accompagnato” quel tratto del nostro passato? Era unicamente giunto il momento “adatto” per divulgare quei suoi esiti? Il pubblico, le coscienze, la critica della Poesia erano finalmente, nel 1985, maturi, formati, acconci a ricevere, ad elaborare, a suffragare quella esperienza? Comunque sia …  

ARBULU. <Lu virdi vinu> e <sdivaca nìdira d’occhi>: due nuove invenzioni. 

AUTUNNU. Il canto del cigno; un vero altro masterpiece!

C’è da leggerlo e abbandonarvisi, lasciarsi, senza resistenza alcuna, vincere dall’estro evocativo, sedurre dalla lirica mestizia, sorprendere dalla crudezza introspettiva. Il suo confessarsi <senza nomu e senza facci / comu mi piaci essiri>, ci coinvolge emotivamente, ci trascina nei meandri di quel nichilismo senza <volu di banneri / né lustru di cannili> e ce ne rende toto corde partecipi. Ma egli sente, percepisce (noi sappiamo) che la <palumma bianca> della Poesia e quegli <sbardi di pampini> lo porteranno, un giorno, <luntanu>.   

VERSI PI LA LIBIRTA’. <Ammanittati li morti> è la sintesi creativa e provocatoria d’un componimento forte, prorompente impegno etico-sociale.

Ultima “pagina” di Paolo Messina idonea, in chiusura, a farci rimarcare che nell’intero corpus della silloge sono totalmente assenti gli “interni”, le relazioni umane dirette: tutto è ambientato nella Natura, che il poeta elegge a luogo dove il suo stato d’animo si trasfigura e assurge a globo trasparente dentro e attraverso il quale ogni cosa esiste e trova la sua ragion d’essere. 

 

Per chi volesse ulteriormente approfondire, volesse ancora “scrafuniari”, proponiamo il raffronto tra i testi: ASPETTU D’ESSIRI IU, RISPIRU D’UN CIURI, PRIMU DI MAIU, nella versione del 1957 dell’antologia Poeti Siciliani D’oggi e nella stesura (a noi più vicina nel tempo) del 1985 di Rosa Fresca Aulentissima.

Calaciu diventa, ora, calici, vagnau, ciminija e fatija rispettivamente vagnò, ciminia e fatica, <li funnamenta di li cità> mutano in <li funnamenti di lu munnu>.

Ma sono in ASPETTU D’ESSIRI IU i riadattamenti più rilevanti: <ca m’aspetti> diventa <ca m’afferri>, scompare l’aggettivo <lijata> che appesantiva il sostantivo <vuci>, <e jsannu li vrazza> diviene <pi jisari li vrazza>, <lu dammusu di lu celu> – semplicemente – <lu celu> e tre versi vengono contratti in uno: <stanchi di sti nòliti>.

“Smania di novità e riforme”? O non invece l’assillo dei veri poeti di non considerare mai del tutto licenziata la propria opera, di tendere ad una costante opera di revisione alla luce di emendate sensibilità, accresciute conoscenze, sempre nuovi fermenti, di compiere una incessante auto-analisi stilistica ed ideologica al fine di “sgriciari la pirfizioni”?

Paolo Messina agognava la “terra promessa”, e l’ha vista, l’ha raggiunta, l’ha calpestata. Ma egli – e dopo di lui pochissimi altri – l’ha solo lambita, sfiorata. E quella è un continente smisurato, le cui vastità, meraviglie, i cui orizzonti danno le vertigini, i cui tesori inebrianti e inesplorati sono tuttora disponibili a chi, con umiltà, purezza d’animo, amore saprà coglierli.

Quando il nuovo star-gate?               

 

                                                              Marco Scalabrino