Rosa Fresca Aulentissima, Poesie Siciliane, volume impresso a Palermo in 300 copie, è del 1985:
Ø ventidue testi –
Ø in scrupoloso ordine cronologico, tra il 1945 e il 1955 –
Ø senza versione in Italiano, né note né glossario –
Ø nel complesso poco più di duecento versi –
Ø con accenti tonici per favorirne la lettura.
A LA SICILIA. 1945. È un sonetto.
Paolo Messina avrà per tutta la vita lunga frequentazione e dimestichezza con il sonetto. Nel suo saggio l’essere della poesia del 1990 egli annota: <la mia idea del sonetto come limite infinito della poesia, non solo in quanto metafora del poetare, bensì e più propriamente come struttura essenziale di ogni atto di poesia. Idea fondata sulla diretta esperienza, da una parte, e sulla riflessione estetica dall’altra, talché poi comporre un sonetto e intravederne la possibile perfezione poietica (il suo poter essere “bello e razionale”) diventano un atto solo. Obiezione corrente alla moderna, attuale praticabilità del sonetto è quella relativa alla forte restriction métrique ch’esso comporta: restrizione che impedirebbe un libero o più agevole approccio alla poesia. È invece proprio la rigorosa determinazione formale, una “porta stretta”, anzi chiusa, ciò che tenta (o dovrebbe tentare) ogni spirito avventuroso, il quale dovrà inventarsene la chiave, trovarla nella sua audacia intellettuale e nella sua forza d’animo, poiché, non appena avrà spalancato questa porta, egli sarà colto dalle vertigini, trovandosi improvvisamente a sporgersi sugli infiniti paesaggi dell’essere della poesia, quando scende a sostanziare le cose, ciò che ne conferma il fondamento ontologico. Sicché il limite (la limitazione formale), l’uomo e il mondo (cioè la concezione che l’uomo ha di sé e del suo mondo) si aprono agli “interminabili spazi” della libertà creativa. Non c’è d’altronde assetto poetico più calcolato che nel sonetto, “bello e razionale” nella sua struttura inalterabile, eppure aperta a tante audacie interne, equilibrio di techne e di poiesis: un insieme di proposizioni che asseriscono delle implicazioni (tra figure, simboli, metafore) che contengono delle variabili (accenti, rime, assonanze in funzione semantica): definizione che ricalca quella proposta da Bertrand Russell per la matematica. Rinunziare per una presunta emancipazione metrica al sonetto comporta quindi una immediata perdita di intensità e di afflato nei rapporti con lo spirito, che, come avvertiva senza perifrasi Hörderlin, è retto da leggi metriche.>
L’esordio della antologia condensa liricamente <le coordinate storiche – riporta Orio Poerio – dell’esperienza che fu alla base della sua formazione>: l’amore per la Sicilia (d’ogni senziu / trama amurusa), l’appartenenza ad essa (ddocu affunnu / li ràdichi), la nascita a nuova vita (nàsciu arreri) attraverso la <vuci> del dialetto (d’ogni lingua ciuri) e il conseguimento della chiave che apre il mondo: la Poesia.
SPIRANZA. Un speranza fanciulla, libera e spensierata che corre, gioca, canta; e coglie e deposita ai piedi del poeta <vrazza chini / di rosi majulini>.
Ritroviamo in questo secondo sonetto la puntuale applicazione dei precetti sopra enunciati, ma piuttosto che soffermarci su essi, preferiamo registrarne i toni di novità che albergano nel raddoppiamento delle parole omogenee.
<Il raddoppiamento – scrive Luigi Sorrento in nuove note di sintassi siciliana – o la ripetizione di un avverbio (ora ora, rantu rantu) o di un aggettivo (nudu nudu, sulu sulu) comporta di fatto due tipi di superlativo: ora ora è più forte di ora e significa “nel momento, nell’istante in cui si parla”, nudu nudu è “tutto nudo, assolutamente nudo”. I casi di ripetizione di sostantivo (casi casi, strati strati – nella nostra ipotesi: celu celu, spini spini) e di verbo (cui veni veni, unni vaju vaju) sono speciali del Siciliano. “Strati strati” indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di “estensione” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. “Cui veni veni” intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la estende dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente.>
URA CA PASSA. 1947. La rivoluzione (fu proprio Paolo Messina ad adoperare questo termine, mentre Salvatore Camilleri aveva preferito il lemma: rivolta) si compie!
<Si pubblica a Catania nel 1947 – ribadisce il Camilleri – diretto da Giovanni Formisano, torcia a ventu, un settimanale con una rubrica di poesia siciliana curata da Aldo Grienti, dove appare la lirica URA CA PASSA, di Paolo Messina, primo e reale esempio di poesia dialettale moderna.> E sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989, incalza: <URA CA PASSA, del 1947, nata dall’ermetismo italiano, ma forse più direttamente dal simbolismo francese, dà inizio alla nuova poesia siciliana. Paolo ha 24 anni e si rende subito conto di ciò che è avvenuto.>
In quindici versi liberi – Paolo Messina fu il primo ad adottare il verso libero e anche in questo sta la straordinaria novità -, stringatissimi, senza rime, nella concreta realizzazione del suo “strumento necessario”, nelle espressioni autenticamente siciliane, negli efficaci dispositivi analogici, simbolici, metaforici, nelle pregevoli invenzioni, nell’accostamento di suoni, nella coerenza ortografica … la felice, originale, lirica formulazione dei principi innovativi teorizzati. E, sbaragliati i vocaboli ricercati, reboanti, artificiosi, bandito ogni traccheggio del verso, cedimento vernacolare, italianismo, epurata la ridondanza di aggettivi, diminutivi, vezzeggiativi … le parole “quotidiane”: chiantu, ura, praj, ciuri, notti, erva. Parole, che nell’alchimia del Poeta si animano, acquistano significati che eccedono la loro semplice lettera; parole comuni che nella loro inusitata cifra compongono scenari irrefutabilmente unici, disegnano profili squisitamente singolari, assurgono a raffinato strumento espressivo con cui il Poeta esplicita la propria Weltanschauung, <l’arte – affermò Viktor Borisovic Šklovskij – restituisce una visione autentica del mondo>.
Pregevolissimo nella sua interezza – dimensione la sola che consente di carpirne l’austera bellezza – se ne riportano, solo a mo’ dimostrativo, taluni sintetici, intensi stralci: <iu m’acquazzinu di tempu, mi ridi la luna / e mi vesti di biancu, portu li giumma / d’un abitu dimisu / ‘n contraluci.>
PASSAGGI. <Na sira (eramu tutti a manciari ô Risturanti Shangai d’a Vucciria) ci apprisintai a prima manu d’un sunettu ntitulatu Passaggi. Mi taliaru – ricorda Paolo Messina in Puisia Siciliana e Critica – tutti alluccuti e fu Fidiricu Di Maria (misu a caputavula) ca rumpiu ddu silenziu dicennumi: Ora ci deve spiegare che significa. Paroli tistuali. Ma comu, ci arrispunnivi, propriu vossia mi veni a fari sti discursi? L’autri s’a pigghiaru a ridiri. E finiu ca ni mbriacamu.>
Episodio eloquente che la dice lunga circa la problematicità di interpretazione (della poesia e) di questo terzo sonetto che, peraltro, l’enjambement: ariusu / juncu, lenti / nuvuli, e l’anastrofe: si passa di salutu umbra, esteticamente connotano.
RISPIRU D’UN CIURI. 1948. Secondo esempio di verso libero.
Immediatamente dopo ogni grande passo è assai difficile ripeterne uno della medesima portata, bissare. La vocazione si consolida; l’ambizione di tentare strade nuove, più difficoltose, malsicure, faticose delle vecchie e, a conti fatti, più avare di riconoscimenti (ma questo forse non importa) persiste. E i risultati non mancano: <silenziu / crisciutu supra un jiditu, amuri ca passa / pi ’na vina di celu, mi sentu / ‘ntra lu pettu / un jardinu di stiddi.>
Gli altri, nel frattempo, che fanno? dove vanno? (anche questo non importa: la Poesia, si sa, è “esercizio solitario” e d’altronde – suffraga il Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1989 di Arte e Folklore di Sicilia – <bisognò aspettare almeno cinque anni prima che altri poeti maturassero quella rivoluzione, formale e strutturale, che era in atto>).
PRIMU DI MAIU. 1949. Terzo testo della nuova “ouverture” in tre anni.
L’occasione, la festa (già tristemente macchiata di sangue a Portella della Ginestra nel 1947) del 1° Maggio. La guerra, con il suo opprimente, irrisolto retaggio di morte, distruzione, sofferenza è appena dietro l’angolo, la sudditanza culturale, sociale, economica da cui decantano la miseria, l’ingiustizia, il malaffare sempre lì a prenderti per la gola, a sgomentarti, a reclutarti. Ciò malgrado, quel primo di Maggio 1949 vola sulle ali di un passero <nni la manica aperta di lu ventu>, pulsa di ricostruenda collettività, avviluppa, in un vorticoso caleidoscopio, gli uomini <li vrazza / turciuti di la fatica / abbrazzati a la terra> e le cose <li banneri, li roti, li ciminii, li pilastri di li casi, li rimi di li varchi, l’àrbuli di li bastimenti, li spichi di furmentu.>
PARTIRI. 1950. La metafora è nella testa (e non nella penna)!
Possono apparire adesso – il verso libero, il simbolo, l’enjambement, lo scavo interiore … – conquiste scontate, ovvie, abusate. Ma – immaginiamo – quanti studi ed esitazioni, prove e assidue verifiche, intralci e tentazioni di mollare, allora, per chi ebbe a trovarsi nella esaltante, e al contempo scomoda, sua posizione.
<Al poeta – ebbe a dire Giuseppe Zagarrio – compete lo stesso dovere-diritto dello scienziato in laboratorio: quello della ricerca, la più ampia possibile, la febbrile consapevolezza di essa, la speranza continuamente gratificante di cogliere ed esprimere qualcuna delle spinte che il collettivo inter-soggettivo opera di continuo dalla sua massa corale e anonima>.
E Paolo Messina ricerca con consapevolezza la parola nuova, sperimenta con tenacia l’espressione che implichi compiutezza di forma e contenuto, s’ingegna a che l’applicazione sia autenticamente siciliana: <ciuriu lu molu di palummi, nudda lacrima / vagna la corda ca mi va muddannu>. E, non ultimo, si prodiga affinché l’esito si collochi nella cornice della (sua, perché scelta, voluta da lui) disciplina: la coerenza ortografica del dialetto, il criterio semantico di trascrizione di esso, l’impiego delle preposizioni più gli articoli; cornice, pertanto, entro la quale non possono insistere i segni diacritici (tranne l’aferesi in: ‘n, ‘na, ‘ntra, ‘nzina), i raddoppiamenti consonantici iniziali, i nessi fonici.
La chiusa, <‘nzina ca lu silenziu / mi jetta ‘n coddu / ‘na ghirlanna d’acqua>, ci impone, nella sua mirabile singolarità, una riflessione. Come fosse vera, la ghirlanda d’acqua ci coglie infatti alla sprovvista e quasi ci scansiamo per non esserne bagnati – chiunque di noi del resto d’impulso reagirebbe nello stesso modo; ma ancor più ci strabilia, perché insospettabile, colui/cosa ce la scaraventa addosso: il silenzio.
Se URA CA PASSA è stato l’archetipo, PARTIRI ne è stato il degnissimo seguito.
CHRISTUS. Pasqua 1952.
CHRISTUS, in maiuscolo, scrive Paolo Messina (come gli Ebrei a tutte lettere maiuscole scrivono JHWH, il tetragramma sacro per Jahvè) e considera che <di tannu / tu / ddocu arresti / ‘n cruci>.
Ma la religiosità rimane ritenuta, resta racchiusa nella sfera dell’intimo, non spicca il volo (della trascendenza). Il CHRISTUS è un uomo che muore, un uomo che <finiu di mòriri> con il conforto di <fimmini (chi) vannu e vennu (In the room the women come and go talking of Michelangelo, by Thomas Stearns Eliot) purtannu unguenti, linzola e lamenti>, e decisamente terreno è il teatro della rappresentazione: <arbulu, quartari d’acqua, gruppa / ca nuddu chiantu strogghi, sangu spantu>.
Il dialetto siciliano si riaccosta per un attimo, <consummatum est>, alle sue origini (a buona parte almeno di esse): il Latino. Nel naturale confronto e dalle valutazioni più complessive che ne scaturiscono, ci rendiamo conto di quanto la parentela tra i due sia tuttora stretta e di come esso abbia, tutto sommato, assai bene retto l’avanzare dei secoli.
BUCHÈ. Cinque endecasillabi non rimati, in cui si rinviene una delle rarissime eccezioni quanto al raddoppiamento iniziale della consonante, quella dell’avverbio: cchiù.
Il buchè che un Siciliano offre all’amata <li cchiù bianchi manu di lu munnu> non può che essere di <limpi zàgari> (i fiori bianchi dell’arancio simbolo di purezza) e il loro ciauru trattenuto <‘nzina a quannu stasira / idda trimannu strogghi lu nastru>.
LU CHIANTU. Inizi del 1953. Paolo Messina ha già (appena) trent’anni.
Il silenzio (degli addetti ai lavori, della stampa, della critica) è assordante!
I risultati – tranne che nella percezione di pochissimi sodali – tardano e così gli auspicati effetti in ordine alla poesia e, per essa, alla realtà, alla “questione” siciliana, che è politica, oltre che sociale, culturale, economica. Ciononostante l’ufficio continua.
LU CHIANTU propone un positivo incipit <Cadu nni lu margiu /di lu me chiantu> e quindi termini soluzioni, ambienti ancora interessanti, benché già sperimentati: biancu fazzulettu / di luna, li pampini s’asciucanu / lu risinu …
Viene da chiedersi: <Quali / pena ‘nchiui pizzi ed ali> al Messina tanto da far sì che egli si rivolga al sole e lo ammonisca: <dumani lu chiantu / a tia puru t’abbinci>?
Un incidente in itinere, la stanchezza accumulata, la repentina sfiducia nei propri solitari mezzi? O non piuttosto il clima, il contesto di indifferenza, la trama di avversione (<un jornu vinni ‘n Palermu na diligazioni di pueti catanisi pi dirimi davanti a l’amici ca iu stava ruvinannu a puisia siciliana e ca l’avia a finiri>) che montava in direzione di quella che appariva essere una fuga (troppo) elitaria?
ZABBARI. Non leggevamo un sonetto (ma sarà l’ultimo della raccolta) dal 1947.
Un progetto però, quello del sonetto, solo rimandato. Paolo Messina infatti auspicò, con un appassionato intervento del 1989 riportato sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, il ritorno al sonetto <che può ancora oggi educarci alla libertà formale, in attesa che il trophaèum (cioè la sostanza poetica) riacquisti la forma del nuovo>, e produsse poi, rispettivamente nel 1990 e nel 2000, il saggio l’essere della poesia e il volume, in Italiano, sonetti. La sfida (sostanzialmente solo a se steso e perciò eternamente all’umanità) è quella di dimostrare che non la formula, non tanto la struttura del sonetto era (è), ormai, carente, logorata dai secoli, “cotta”, ma che la crisi era (è) in chi scrive, che la vena che si è prosciugata è quella dei poeti, di coloro che ne dovrebbero rinverdire i fasti e lo praticano invece con sufficienza. E allora, bene: la scommessa è vinta (bellissima l’icona <lu lentu / suli>, come se fosse il sole – ve lo figurate! – a procedere mestamente e non già l’uomo, specie quello d’area mediterranea, a causa delle condizioni di calura, spossatezza, lentezza, ora sì, che esso determina).
La zabbara <c’adura di nenti> evoca una Sicilia di <arsura>, di brutture <ciuri ladiu>, di rassegnazione <disidderiu stancu> che pure esiste. Non solo bellezza, quindi, profumo, passione ma, altresì, le tante situazioni <senz’amuri>, <cu li centu spini>, di solitudini <puntuti, silinziusi, trimulenti>. E nondimeno da Paolo Messina, dopo URA CA PASSA e PARTIRI, è lecito aspettarsi dell’altro, di meglio, di più.
IL 1953 si chiude con CANZUNA DI L’ACQUA.
Quattordici settenari che prendono in prestito i dettami del sonetto (tranne chiaramente l’endecasillabo). È l’unico prototipo del genere. Se ne apprezza la costanza mai sopita di provare, la visione, una certa magia di rapporti. Ma si intuisce l’ansimare della salita, il peso di andare avanti senza nessuno – come nel ciclismo – a tirarti la strada, il confidare nella discesa che sbuchi ritemprante dopo l’ennesima curva e nella borraccia fresca d’acqua; si coglie la “strategia” di proseguire per piccole (!) tappe, per traguardi raggiungibili che possano condurre dalla sperimentazione alla esecuzione di nuovi significativi esiti. La tentazione è quella di mollare un attimo i pedali: (<frischizza ‘n contraluci> richiama subito alla mente l’<abitu ‘n contraluci> di URA CA PASSA) e, francamente, preferiamo ormai quelle altre “cose”, quelle “cose” che hanno fatto breccia nei nostri cuori, nei nostri animi, nei nostri gusti: quelle “cose” che hanno segnato il “punto di non ritorno”.
TRADIMENTU. È del 1954 il segmento più nutrito (sette testi) della silloge.
Assieme con CHRISTUS e, vedremo, col testo che subito appresso segue, una sorta di trittico che attiene alla spiritualità dell’uomo.
Lampanti i riferimenti alle vicende che culminarono nel più famoso tradimento avvenuto un Venerdì che precedette la Pasqua, là in terra di Giudea e al misfatto che si perpetra, come sempre, al <cantari / pi la terza / vota> di <lu gaddu>. Si conferma la dimensione privata e terrena (filara d’umbri / sipali / jardina ‘nchiusi) della spiritualità sebbene nell’accorta trasfigurazione praticata dal dialetto: <un occhiu sulu apertu / e adduma, di ‘n celu / ‘na pinna bianca di palumma.>
MADONNA. I toni – se non la veste – sono quelli della preghiera.
La madre di Dio è invocata a proteggere <stu santu amuri, urdutu / cu manu bianchi>, a distendere le sue braccia bianche come <ponti nni lu scuru / di la terra.>
L’aggettivo bianco (pressoché nella assenza di ogni altro colore) – insieme al sostantivo “silenziu” – è quasi il vessillo della poesia di Paolo Messina: bianchi crini, mi vesti di biancu, pi lu sonnu biancu, calici biancu, ali bianchi, li cchiù bianchi manu, biancu fazzulettu, lu pettu biancu, na pinna bianca, cinniri bianca. Un recondito anelito di armonia? di pace? di misticismo?
Ogni conquista diventa patrimonio comune: se ne appropriano gli altri poeti, ma persino coloro che per primi l’hanno raggiunta la reiterano – come fosse un bel gioco dei bambini – al fine di metabolizzarla, consolidarla, definitivamente acquisirla.
CARRETTU SICILIANU. Inanimato legato di un consorzio umano rurale, arretrato, (apparentemente) folcloristico <tuttu roti / cianciani e giumma>, il carretto approda, in una sintassi pervasa da talento e da laica pietas, ad <arruzzòlu baggianu di culura>. Ma in questa terra di <occhi nivuri / manu tradituri / friddi raccami / petti addumati>, la jumenta, la Sicilia personificata, la <canzuna / (resa) muta> dalle secolari profanazioni, ignominie, angherie subite, <supra la munta dura> morde il freno e <ciara l’umbri>, nello struggimento di affrancarsi dall’amaro giogo <di l’asti>.
MARI GRANNI. In quel <ora tentu> la chiave del componimento: il “sogno” recuperato. Il sogno in cui credere e per cui inseguire ancora la vita <li vrazza longhi di li strati> e, per inconfutabile simbiosi, la Poesia, malgrado <li passi chini di gruppa, la frunti / china di silenziu>.
Un componimento da leggere con dedizione, condiscendenza, riguardo alle pause, allo scopo di assaporarne la liricità, penetrarne i gradi di invenzione, condividerne la felicità di realizzazione. Un convinto plauso a uno tra i testi migliori della silloge, di cui si riportano i versi conclusivi: <Di li banchini di li nuvuli / jetta lenzi lu suli / nni lu mari granni di lu munnu. / Ridu dintra mia / ca li potti / vìdiri ‘n tempu.>
ASPETTU D’ESSIRI IU. Il dado è tratto!
MARI GRANNI ne è stato il testo seme, l’anticipazione: la <vuci aperta> di questo riprende la <aperta vuci> di quello, l’<astrachi di la sira> riecheggiano <li banchini di li nuvuli>. Ma qui la consegna è vissuta con la certezza del (futuro) compimento, l’attesa, <aspettu>, è solamente in ordine alla circostanza, nel convulso nostro vivere, in cui ritrovare sé stesso, ricongiungersi metafisicamente, integralmente a sé stesso, <essiri iu>, giacché quel tempo di <scriviri nni la manu addummisciuta / di lu silenziu / l’ura ca di sempri / va sunannu pi mia / a lu roggiu addumatu di la luna> è assiomatico, è solo da venire. Anzi, nella lirica attuazione, esso è già scoccato.
ASPETTU D’ESSIRI IU è la consacrazione di Paolo Messina. Se pure egli non dovesse (come di fatto avverrà nel giro di pochi mesi) più scrivere poesia siciliana, URA CA PASSA, RISPIRU D’UN CIURI, PARTIRI, MARI GRANNI, ASPETTU D’ESSIRI IU e, presto, AUTUNNU contraddistingueranno indelebilmente la stagione di Paolo Messina Poeta.
PISCI RUSSI. Il 1954 va in archivio con una divinazione: <ju puru / ci dissi addiu / a lu chiaru lippu di la vuci>.
Siamo agli sgoccioli; Paolo Messina lo avverte. Sappiamo adesso che (con IL MURO DI SILENZIO, nel 1959) un altro grande interesse prevarrà: il Teatro.
È da recepire, questo testo, anche in tale ottica? E se sì, perché? Perché questo abbandono? I risultati individuali – abbiamo appurato – vengono. E allora? Allora ciò non basta. Non basta più. Carmina non dant panem, si sa; ma neanche, nel nostro caso, gratificazione (la pubblica s’intende), quella della “grande” critica (il Vann’Antò, nel 1957, pur avendo egli colto il segno del mutamento, la modernità di quegli esiti stilistici e formali, definirà neòteroi – smaniosi cioè di novità e riforme – i nuovi poeti suoi conterranei) e persino i compagni di “processione” (eccettuati quelli di nicchia) mostrano resistenza, diffidenza, ostilità, non riescono (come la volpe dell’uva di Fedro) ad “afferrare” e cercano dunque di fare calare il silenzio, di ricondurre al minimo i progressi altrui.
Era (è) difficile condividere l’intimo tumulto di Paolo Messina, secondarne l’urgenza a volere essere innovativo, l’anelito a volere creare poesia siciliana con spirito, propositi, espressioni, situazioni, estetica siciliani?
CANZUNA D’AMURI. Ma, <Vuci, ca mi cusi / un sonnu sapituri, cusimi un lettu / a lenti ‘ncimi cu li to capiddi / cògghimi tuttu / nni lu to jiditali>. Un accorato esseoesse alla poesia, con la quale a breve si consumerà il distacco, ma dal cui ventre fecondo stanno pure già scaturendo, nel solco del Rinnovamento, le cose migliori di poeti quali Ugo Ammannato, Miano Conti, Antonino Cremona, Aldo Grienti, Carmelo Molino, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro.
ARBULU. Il 1955 (cinquant’anni or sono) segna con le tre ultime poesie la fine, per espressa sua volontà, della parabola pubblica del Poeta Paolo Messina.
C’è tutto Paolo Messina in questi ventidue componimenti? in questi poco più di duecento versi? C’è da giurare di no! Come pure è facile assai profetare che non dell’intera sua produzione si tratta quanto di una drastica selezione. E nondimeno, tant’è.
Il fatto che non le avesse pubblicate prima in una raccolta organica sottintende l’evenienza che altre prove sarebbero potute arrivare? E se no, perché non pubblicarle allora? E ancora, nel 1985, trent’anni dopo, perché le ha rese pubbliche? Dobbiamo, beninteso, essergliene riconoscenti, perché queste testimonianze, per la cultura, per la poesia, per la storia siciliane, assolutamente non andavano perdute, ma perché fare trascorrere un così lungo lasso di tempo? Gli animi si erano, forse, placati su tutte le querelles che hanno “accompagnato” quel tratto del nostro passato? Era unicamente giunto il momento “adatto” per divulgare quei suoi esiti? Il pubblico, le coscienze, la critica della Poesia erano finalmente, nel 1985, maturi, formati, acconci a ricevere, ad elaborare, a suffragare quella esperienza? Comunque sia …
ARBULU. <Lu virdi vinu> e <sdivaca nìdira d’occhi>: due nuove invenzioni.
AUTUNNU. Il canto del cigno; un vero altro masterpiece!
C’è da leggerlo e abbandonarvisi, lasciarsi, senza resistenza alcuna, vincere dall’estro evocativo, sedurre dalla lirica mestizia, sorprendere dalla crudezza introspettiva. Il suo confessarsi <senza nomu e senza facci / comu mi piaci essiri>, ci coinvolge emotivamente, ci trascina nei meandri di quel nichilismo senza <volu di banneri / né lustru di cannili> e ce ne rende toto corde partecipi. Ma egli sente, percepisce (noi sappiamo) che la <palumma bianca> della Poesia e quegli <sbardi di pampini> lo porteranno, un giorno, <luntanu>.
VERSI PI LA LIBIRTA’. <Ammanittati li morti> è la sintesi creativa e provocatoria d’un componimento forte, prorompente impegno etico-sociale.
Ultima “pagina” di Paolo Messina idonea, in chiusura, a farci rimarcare che nell’intero corpus della silloge sono totalmente assenti gli “interni”, le relazioni umane dirette: tutto è ambientato nella Natura, che il poeta elegge a luogo dove il suo stato d’animo si trasfigura e assurge a globo trasparente dentro e attraverso il quale ogni cosa esiste e trova la sua ragion d’essere.
Per chi volesse ulteriormente approfondire, volesse ancora “scrafuniari”, proponiamo il raffronto tra i testi: ASPETTU D’ESSIRI IU, RISPIRU D’UN CIURI, PRIMU DI MAIU, nella versione del 1957 dell’antologia Poeti Siciliani D’oggi e nella stesura (a noi più vicina nel tempo) del 1985 di Rosa Fresca Aulentissima.
Calaciu diventa, ora, calici, vagnau, ciminija e fatija rispettivamente vagnò, ciminia e fatica, <li funnamenta di li cità> mutano in <li funnamenti di lu munnu>.
Ma sono in ASPETTU D’ESSIRI IU i riadattamenti più rilevanti: <ca m’aspetti> diventa <ca m’afferri>, scompare l’aggettivo <lijata> che appesantiva il sostantivo <vuci>, <e jsannu li vrazza> diviene <pi jisari li vrazza>, <lu dammusu di lu celu> – semplicemente – <lu celu> e tre versi vengono contratti in uno: <stanchi di sti nòliti>.
“Smania di novità e riforme”? O non invece l’assillo dei veri poeti di non considerare mai del tutto licenziata la propria opera, di tendere ad una costante opera di revisione alla luce di emendate sensibilità, accresciute conoscenze, sempre nuovi fermenti, di compiere una incessante auto-analisi stilistica ed ideologica al fine di “sgriciari la pirfizioni”?
Paolo Messina agognava la “terra promessa”, e l’ha vista, l’ha raggiunta, l’ha calpestata. Ma egli – e dopo di lui pochissimi altri – l’ha solo lambita, sfiorata. E quella è un continente smisurato, le cui vastità, meraviglie, i cui orizzonti danno le vertigini, i cui tesori inebrianti e inesplorati sono tuttora disponibili a chi, con umiltà, purezza d’animo, amore saprà coglierli.
Quando il nuovo star-gate?
Marco Scalabrino