Archive for agosto 2009

Viedellapovertà 3

Era diventata una tassa sul sogno, ma pochi se n’erano avveduti, avendo la parvenza di un gioco, un semplice gioco che tutti potevano fare senza fatica. Con inspiegabile entusiasmo, ogni giocatore stabiliva l’entità della tassa, pari alla grandezza del sogno. Mai a memoria d’uomo era accaduta una cosa simile. Nelle case, nei bar, negli uffici persone di ogni età discutevano e si accordavano per giocare/tributare, depositando infine nelle rivendite, assieme alla giocata/tributo, le schedine coi numeri; attendevano poi l’estrazione, trepidanti, i milioni di giocatori.
L’economia italiana non si era ripresa dalla crisi, a differenza degli altri paesi europei. I rappresentanti politici, piacevolmente sorpresi per la crescente valanga di denaro che gli perveniva ogni giorno in misura direttamente proporzionale alla miseria dilagante, incameravano gongolanti quella linfa vitale evitandosi, così, manovre impopolari. Non si doveva fare altro che assicurare il pagamento dei premi al verificarsi della combinazione, secondo la fredda legge dei grandi numeri, impiegando il rimanente per continuare a nutrire la famelica e capillare nomenclatura politica, e i soci vitalizi del potere.
Gli enormi monte-premi accrescevano il sogno e le speranze, quasi a voler compensare lo sconforto, la rabbia e il pessimismo per le molte altre cose che non andavano nel paese. Le prime pagine dei giornali e i notiziari televisivi, quando non parlavano di sport, di gossip, di vacanze, martellavano esultanti sui monte-premi raggiunti e sulle vincite.
Una parte della popolazione riteneva immorale attribuire a una sola persona premi così elevati; l’equivalente di mezzo migliaio di case che si sarebbero potute dare ad altrettante famiglie; reputando altresì scellerato il comportamento delle istituzioni, incomprensibile che nessuno protestasse per quella vergogna, soprattutto coloro che, confidando nella fortuna, si illudevano di poter cambiare il proprio destino dando fondo al poco denaro che gli restava.
C’era chi non voleva stare con le mani in mano, e decise così di creare una rete di solidarietà per le necessità piccole e grandi di singoli e famiglie, destinando le somme non giocate, e non solo quelle, nelle casse della nuova organizzazione; poteva farvi parte solo chi era disposto a sottoscrivere un patto di vicendevole trasparenza ed aiuto, dichiarando ciò che possedeva e ciò di cui necessitava. Potevano farne parte ricchi e nullatenenti allo stesso modo; i primi erano pressoché assenti.
Superata la diffidenza iniziale e smascherati gli immancabili furbi, dopo appena un mese di attività s’iniziavano a vedere i primi risultati. Col denaro versato da centomila soci erano stati realizzati interventi di rilievo: un’abitazione a un buon numero di famiglie, salvataggi da mutui capestro e strozzinaggi vari, offerte di lavoro a giovani e disoccupati; ma anche sostegni più blandi, come mantenere i ragazzi bisognosi negli studi, assistenza a domicilio di anziani e malati, abiti e alimenti a chi non ne aveva, e via dicendo. La sorpresa era stata scoprire che migliaia di soci svolgevano da tempo ed in segreto attività di volontariato, quasi vergognandosene; divenne da quel momento in poi, invece, un punto di orgoglio portare la piccola esse dorata dell’Organizzazione.
Il sistema, complesso, funzionava, e s’espandeva a macchia d’olio più di un social network, grazie anche alla rete; nessuno restava scontento delle scelte di sostegno adottate, nemmeno i più scettici, costretti a riconoscere l’efficienza e l’equità dell’Organizzazione; si era contenti per coloro ai quali andava il sostegno, sapendosi che erano stati i più meritevoli, e che neanche un solo euro era andato sprecato.
In pochi mesi milioni di persone potevano fregiarsi della esse dorata. Un fiume di denaro irrorava l’estesa moltitudine senza escludere nessuno, era solo questione di tempo; dopo circa un anno, non farne parte era diventato addirittura discriminante; persino furbi e ricchi furono indotti ad aderire, attenendosi a malincuore alle regole.
In tutte le consultazioni elettorali, immancabilmente, rappresentanti dell’Organizzazione avevano conquistato scranni nei vari consessi politici. Scomparsi dalla scena plutocrati, forcaioli e secessionisti, e il loro servidorame, nel giro di qualche anno le casse dello Stato erano diventate floride e trasparenti. Mentre l’Organizzazione continuava a crescere, le istituzioni avevano iniziato a dare segni inaspettati di credibilità.

“Entierro” di Daniela RAIMONDI

entierroTra mito e tragedia moderna, Entierro è la storia in forma poematica di un infanticidio. A raccontarla, in prima persona, è la rea del delitto, una giovane donna vittima di uno stupro – uno dei tanti consumati in ogni tempo e luogo. Il poema procede per scene, digressioni e flashback in un alternarsi di ricordi e stati d’animo che rompono la linearità diacronica della vicenda: dall’innocenza al delirio, dalla follia al pentimento, dal dolore all’accusa, in un flusso ininterrotto di coscienza. Vi è il ripudio della carne, della vita cresciutale dentro, suo malgrado; e, per contro, l’istinto di madre tradito, nella forma di un lacerante pentimento. L’interiorità monologante s’alterna con immagini vivide e metafore efficaci, dentro una scrittura capace di fondere bellezza e forza introspettiva. (gn)

*

Un giorno ho visto una bambina
in riva la mare.
Aveva gambe nude.
il vento muoveva i suoi capelli
e fra le mani
portava gabbie vuote.
Era felice.

Quand’ero piccola
dormivo con i gatti sopra il fieno.
Fuori il cielo cantava e cantava.
La voce di mia madre chiamava
da dietro la finestra,
ma non volevo entrare nella stanza.
Temevo il buio sotto il mio letto.
Saltavo con un balzo dentro le lenzuola con il terrore che una mano
mi stringesse le caviglie,
o che una bocca mi mordesse i piedi,
il sesso…

Sapevo di una donna che non voleva maschi.
Restava sempre in casa, nuda e bella.

“Le mani degli uomini
hanno dentro il male – mi diceva.
I maschi hanno dita dure come saggina.
Sono mani che uccidono i maiali,
che stringono la vita alle ragazze
ma impugnano le lame ed i coltelli”.

Ah, Signore mio,
perché, perché non l’ho ascoltata!
Io non cercavo amori.
Correvo fra i vigneti
senza lasciare orme sulla terra.
Brillavo di sudore,
d’argento e di licheni.
Io non cercavo baci.
Ma poi l’amore arriva
e arriva senza l’annuncio di comete.
Slegati i fiumi,
slegati i mari tutti ed i torrenti.
Amore che ti compi
che ti compi amore
come il destino di una stirpe,
come un chiarissimo presagio.
Amore che ti compi fiato, unghie
e cuore.

E lui arrivò.
Attraversò il deserto
nel canto di cento colibrì.
Il passo incontenibile
un pavone in amore
che apriva le sue piume.
Beveva a le mie rive,
illuminava tutta la marea dei sogni
e mi diceva vieni,
vieni fra queste braccia.
Prendimi a baci, a morsi,
amore annusa,
senti l’odore buono de la carne…

Correvo nella pioggia dei giardini
senza dolermi de le pietre,
senza curarmi del gelo de la terra
o de li spini.
Correvo via, lontano,
ma ancora sentivo la sua voce:
era il sussurro notturno delle garze,
chiudeva le mie ciglia come miele.

Cedevo a un credo, crollavo sui ginocchi
ché il cielo è blu e profondo,
identico al suo mare
e in lui bagna il suo fianco,
in lui si curva
fino a morire dentro la sua schiuma.

S’apriva il novilunio.
Sul corpo scendeva un vento
che scuoteva il grano, i campi d’erba alta.
L’amore era la spiga, l’Africa,
l’anfora di vino.
L’amore era stupore. Toccarsi, accarezzarsi,
leccarsi come fanno le volpi e li animali.
L’amore era la festa, il giubilo,
la mia benedizione.
Era il Giordano
che entravo fino a la cintura.

Più non era il tempo dell’infanzia,
il tempo di ginestre, d’innocenza e attesa.
Caddi alla terra dell’esilio baciandogli la bocca.
Caddi al silenzio,
nel grido di falchi e di gabbiani.

*

Daniela RAIMONDI
Entierro
Monologo in versi
Mobydick (2009)
Prefazione di Bianca Madeccia

Marina PIZZI – “L’inchino del predone”

mpizzi

Viaggia nel mare infinito della lingua, con bussola ritmica e fonica, anche questa nuova raccolta poetica di Marina Pizzi; a vele spiegate, docili ad un vento interiore che spinge verso approdi inauditi. I mondi che disvelano i suoi versi – paesaggi, pensieri, espressioni fuori dal senso logico-razionale del linguaggio ordinario – hanno la consistenza materica di statue e manufatti rigorosamente modellati. Una spiazzante e ludica inventività che rifugge  luoghi comuni ed epigonismi di sorta, nell’incessante ricerca di un’immagine, una sequenza di parole originale e convincente. Poesie percorse, talvolta, da dardi di senso compiuto (“111. Le ronde della forca sono pronte/appena sotto il rantolo di stasi./così amareggiato il rigo della fronte/rende le cose in giro più affamate.”) che rivelano l’eticità dell’autrice, il suo prendere posizione, il suo non stare al gioco dell’umano troppo umano. (gn)

*

10.

L’inchino del predone

 

ho un sesto senso  che mi fa rapace

pace già panica e forse già logica.

non basto al mondo e non ribasso

il prezzo che non incasso. ho una

lapide vermiglia intorno alla gola.

qui mi meraviglio di essere la viva

vedetta di me che già guarda

dormire gl’indici e le vette.

padre conserto madre senza latte

le verità ataviche del palmo.

 

*

 

19.

compro un librino e sono in pace

con la cicala del sangue che gira

e rigira a vuoto dentro il corpo

pagano sempre in gara con qualcosa

o qualcuno per paura o stanchezza.

il cheto aroma della funivia non mi

regala niente. di te stento il ricordo

e il dolore che avvenne quando

moristi stinto stelo del più bello

comodo del bello. fu lo strazio

parco delle lucciole che mi disse

dissero il cielo.

 

*

 

22.

e non sarà domani il giubileo

di vinti, il miracolo attende

rannicchiato, e rivive il sunto

di un viottolo scrostato  attraversato

a piedi per risparmio di tempo

senza foce se non di morte in foce.

tu giubili l’aratro che solca per il nuovo

questa mortale stalla di rimpianti

eremitici rimorsi di non sì.

 

*

 

24.

avaro quanto avaro il delfino

si fa lontano solo lontano

e  so che esiste la gioia

disumana, la mano alata

di voltarsi fieramente  felici.

l’angolo regale sforna le ceneri

del bambino che è stato buono

è senza spera la radice del tuono

questa nomea che fiaccola accanto.

l’eremitico giogo di falena

serra una vita al gancio.

 

*

 

33.

è notte, sono tinti i capelli

con la pece dei tristi che migrano

per questo goccio di aspetto

riarso dalla cometa che va  in pezzi

per colpa della lirica di stonio, stonata

nata dentro i pozzi per fari suicidi

se ne vanno nel vano delle scarpe.

 

*

 

68.

affranta in un giogo di catene

frana la sera. in mano all’orco

del comignolo freme la gola.

nella contumacia della fronte

nessun sole ma la diga gigante

che non ammette gomitoli

da sciogliere. la parete è liscia

irraggiunta da tane e frodi.

in un capanno a valle

vale la legge del panico

la nomea  della frotta degli spini.

in nome di dio ti chiamo

con la bestemmia in regola.

 

*

 

Marina PIZZI

L’inchino del predone 

2008 – 2009

Blu di Prussia (2009)

 

Francesco MASTROGIOVANNI. Una strana morte…

Francesco Mastrogiovanni è morto legato al letto del reparto psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania alle 7.20 di martedì 4 agosto. Cinquantotto anni, insegnante elementare originario di Castelnuovo Cilento, era, per tutti i suoi alunni, semplicemente “il maestro più alto del mondo”. Il suo metro e novanta non passava inosservato. Inusuale fra la gente cilentana. Così come erano fuori dal comune i suoi comportamenti, «dolci, gentili, premurosi, soprattutto verso i bambini» ci racconta la signora Licia, proprietaria del campeggio Club Costa Cilento. E’ proprio lì che la mattina del 31 luglio decine di carabinieri e vigili urbani, «alcuni in borghese, altri armati fino ai denti, hanno circondato la casa in cui alloggiava dall’inizio di luglio per le vacanze estive». Uno spiegamento degno dell’arresto di un boss della camorra per dar seguito a un’ordinanza di Trattamento Sanitario Obbligatorio (competenza, per legge, solo dei vigili urbani) proveniente dalla giunta comunale di Pollica Acciaroli. Oscuri i motivi della decisione: si dice per disturbo della quiete pubblica.
Fonti interne alle forze dell’ordine raccontano di un incidente in cui, guidando contromano, alcune sere prima, avrebbe tamponato quattro autovetture parcheggiate, «ma nessun agente, né vigile, ha mai contestato qualche infrazione e nessuno ha sporto denuncia verso l’assicurazione» ci racconta Vincenzo, il cognato di Francesco. Mistero fitto, quindi, sui motivi dell’“assedio”, che getta ovviamente nel panico Francesco. Scappa dalla finestra e inizia a correre per il villaggio turistico, finendo per gettarsi in acqua. Come non bastassero carabinieri e vigili urbani «è intervenuta una motovedetta della Guardia Costiera che dall’altoparlante avvertiva i bagnanti: “Caccia all’uomo in corso”» racconta, ancora incredula, Licia. Per oltre tre ore, dalla riva e dall’acqua, le forze dell’ordine cercano di bloccare Francesco che, ormai, è fuori controllo. «Inevitabile » commenta suo cognato «dopo quanto gli è accaduto dieci anni fa». Il riferimento è a due brutti episodi del passato «che hanno distrutto Francesco psicologicamente» spiega il professor Giuseppe Galzerano, suo concittadino e carissimo amico, come lui anarchico. Il 7 luglio 1972 Mastrogiovanni rimase coinvolto nella morte di Carlo Falvella, vicepresidente del Fronte universitario d’unione nazionale di Salerno: Francesco stava passeggiando con due compagni, Giovanni Marini e Gennaro Scariati, sul lungomare di Salerno quando furono aggrediti, coltello alla mano, da un gruppo di fascisti, tra cui Falvella. Il motivo dell’aggressione ce la spiega il professor
Galzerano: «Marini stava raccogliendo notizie per far luce sull’omicidio di Giovanni, Annalisa, Angelo, Francesco e Luigi, cinque anarchici calabresi morti in quello che dicono essere stato un incidente stradale nei pressi di Ferentino (Frosinone) dove i ragazzi si stavano recando per consegnare i risultati di un’inchiesta condotta sulle stragi fasciste del tempo». Carte e documenti provenienti da Reggio Calabria non furono mai ritrovati e nell’incidente, avvenuto all’altezza di una villa di proprietà di Valerio Borghese, era coinvolto un autotreno guidato da un salernitano con simpatie fasciste. Sul lungomare di Salerno, però, Giovanni Marini anziché morire, uccise Falvella con lo stesso coltello che questi aveva in mano. Francesco Mastrogiovanni fu ferito alla gamba. Nel processo che seguì, Francesco venne assolto dall’accusa di rissa mentre Marini fu condannato a nove anni. Nel 1999 il secondo trauma. Mastrogiovanni venne arrestato «duramente, con ricorso alla forza, manganellate, e calci» spiega il cognato Vincenzo, per resistenza a pubblico ufficiale. Il motivo? Protestava per una multa. In primo grado venne condannato a tre anni di reclusione dal Tribunale di Vallo di Lucania «grazie a prove inesistenti e accuse costruite ad arte dai carabinieri». In appello, dalla corte di Salerno, pienamente prosciolto. Ma le botte prese, i mesi passati ai domiciliari e le angherie subite dalle forze dell’ordine lasciano il segno nella testa di Francesco. «Da allora viveva in un incubo» racconta Vincenzo fra le lacrime. «Una volta, alla vista dei vigili urbani che canalizzavano il traffico per una processione, abbandonò l’auto ancora accesa sulla strada e fuggì per le campagne. Un’altra volta lo ritrovammo sanguinante per essersi nascosto fra i rovi alla vista di una pattuglia della polizia ». Eppure da quei fatti Mastrogiovanni si era ripreso alla grande, «tanto da essere diventato un ottimo insegnante elementare», sottolinea l’amico Galzerano, «come dimostra il fatto che quest’anno avrebbe finalmente ottenuto un posto di ruolo, essendo diciottesimo nella graduatoria provinciale». Era in cura psichiatrica ma si stava lasciando tutto alle spalle. Fino al 31 luglio. Giorno in cui salì «di sua volontà» sottolinea Licia del campeggio Club Costa Cilento «su un’ambulanza chiamata solo dopo averlo lasciato sdraiato in terra per oltre quaranta minuti una volta uscito dall’acqua». Licia non potrà mai dimenticare la frase che pronunciò Francesco in quel momento: guardandola, le disse: «Se mi portano all’ospedale di Vallo della Lucania, non ne esco vivo». E così è stato. Entrò nel pomeriggio di venerdì 31 luglio per il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Dalle analisi risultò positivo alla cannabis. La sera stessa venne legato al letto e rimase così quattro giorni. La misura non risulta dalla cartella clinica, ma è stata riferita ai parenti da testimoni oculari. E confermata dal medico legale Adamo Maiese, che ha riscontrato segni di lacci su polsi e caviglie della salma durante l’autopsia. Legato al letto per quattro giorni, quindi. Fino alla morte sopravvenuta secondo l’autopsia per edema polmonare. Sulla vicenda la procura di Vallo della Lucania ha aperto un’inchiesta e iscritto nel registro degli indagati i sette medici del reparto psichiatrico campano che hanno avuto in cura Mastrogiovanni. Intanto oggi alle 18, nel suo Castelnuovo Cilento, familiari, amici e alunni porgeranno l’ultimo saluto al “maestro più alto del mondo”.

(http://sergiofalcone.blogspot.com/2009/08/daniele-nalbone-muore-in-reparto.html)

"Spaccasangue" di Iole TOINI

spaccasangue

canto della mamma bambina

Fare la mamma, essere la ninnananna, stare senza senza,
morire morire morire come una qualsiasi fatica.

I

La cuffietta intorno al viso; un fagotto sui gradini
della stanza grande come una forma di lardo,
unico flash della mamma-bambina senza denti né pianto.

Dietro la porta la madre si quieta vegliata dal grufolo caldo, il battito
dentro le cestole; i segni contano le vene.

Madre nera madre troppo
fragile per i boschi per le mele cotogne le primule a novembre
madre dei soffioni senza campo.

Il padre è un peduncolo, grande come il baco
che abita la mummia. Migra dalla pancia all’osso.
Succhia. Geme. E’ un grugnito.

Tagliati a metà, l’uomo e la sua terra, il verro e la sua donna, nel tempo perdonato
della mietitura, crescono la mamma-bambina.  Continua a leggere

Premio nazionale di poesia David Maria Turoldo – Edizione 2009

E’ pubblicato il bando di partecipazione alla ottava edizione del Premio “David Maria Turoldo”. L’edizione di quest’anno prevede importanti novità per i partecipanti:

a) La possibilità di inviare una nota di presentazione dei propri testi;

b) La possibilità di inserire la recitazione dei testi medesimi in formato audio o video, che la segreteria del premio si farà carico di convertire in formato MP3 se l’autore non lo sa fare da solo. La segreteria provvede anche al montaggio e alla conversione di formati video.

c) La possibilità di ricevere note critiche da parte dei lettori Continua a leggere

Viedellapovertà 2

Forse non sono mai stato abbastanza intelligente, pazienza, bisogna farsene una ragione. E’ una di quelle cose a cui si preferisce non pensare, sperando di cavarsela, in qualche modo. Facevo fatica a concentrarmi, a capire al volo; gli insegnanti rispiegavano per me, e questo non mi faceva piacere, così come le sbuffate, le occhiate e le risatine dei compagni. Tolte storia e religione, ero un po’ una frana ovunque. Ma la storia mi faceva sognare, e dimenticare le cose spiacevoli: i rimproveri, le prese in giro, l’essere ultimo in tutto. Così, non amando il presente e non sognando un futuro, pensavo al passato, al mio, e a quello cento, mille anni fa; a come la gente vestiva, parlava. Mi sarebbe piaciuto vedere il mondo senza macchine, senza tivù e telefoni, con tanta gente in meno. Della religione, quella cristiana, mi colpivano le parole potenti e dure, che scuotevano; ma ce n’erano alcune, “poveri”, “umili” e “puri di cuore”, che sentivo speciali e rivolte a me, proprio a me; mi davano serenità e fiducia quelle parole, forse perché non bisognava faticare per essere così, non c’era niente da imparare, niente da dimostrare. “Le persone così piacciono a Gesù” mi ripetevano al catechismo e a scuola, e io ero contento di sentirmi in quel modo.
Sì, avrei voluto vivere in quei tempi calmi e lenti, senza chiacchiere, senza i rumori di adesso. Poche, semplici parole e tanti silenzi. Poi, si sa, non era solo così – c’erano le guerre, la fame, le malattie… – ma mi piaceva pensarlo.
Bello poter guardare ed ascoltare il mondo senza fretta, adagiarsi su di esso come un bue nell’umido di un prato. Ma intorno a me il mondo correva, fuggiva, mi teneva a distanza; intorno a me occhiate severe e sfuggenti, per nulla benevole. Finite le scuole medie, dopo due bocciature, avevo deciso di non andare avanti. “A questo mondo non sono tutti dei geni, anzi, tante teste di rapa hanno un diploma e una laurea, e sono anche pericolosi” mi ripeteva mio padre per convincermi a continuare “almeno un diploma ci vuole, e tu non sarai peggio di altri…” Ma io niente, il pensiero di tornare sui banchi ad ascoltare cose che non capivo, passando da fesso, mi faceva star male. Dopo molte ricerche, un mio zio mi aveva trovato un posto di magazziniere per una catena di market: scaricavo la merce dai camion e la sistemavo in punti precisi del capannone. Un lavoro semplice, dove ti rompevi la schiena ma non la testa. Mi avevano fatto firmare una lettera di dimissioni senza data, ma cosa comportasse l’ho capito solo dopo; e un’altra con cui dichiaravo di ricevere un dato compenso mentre in realtà ne prendevo uno di molto inferiore. Ma mi stava bene così, dormendo e mangiando dai miei. Con quello che guadagnavo mi ero preso un vespino e qualche indumento. Nei fine settimana uscivo con un collega del magazzino. Un film, una pizza, il biliardo, i videogames; e il venerdì notte, la discoteca, dove però non ballavo; me ne stavo comodo su un divano a guardare qualche bella ragazza, purtroppo, quasi sempre circondata da corteggiatori. Qualcuna avrei voluto avvicinarla, parlarci, uscirci assieme; magari fidanzarmici, e tutto il resto; ma non avevo faccia tosta, non ero uno di quei tipi decisi e con la battuta pronta che le andavano appresso.
Sono arrivato a trent’anni senz’accorgermene. E ancora più rapidamente, ho raggiunto i quaranta. Poco era cambiato rispetto a quando avevo iniziato a lavorare. Stessa vita dentro e fuori il magazzino. Poi un anno fa lo stravolgimento: la morte dei miei genitori, a distanza di un mese l’una dall’altro, la richiesta di liberare l’appartamento dove abitavamo in affitto, quella maledetta lettera di dimissioni firmata al momento dell’assunzione. In tre mesi ho perso tutto, e un nuovo lavoro, visti in tempi, nemmeno a sognarlo. Dormo e mangio da mio fratello, ma non so per quanto. Ho lasciato crescere capelli e barba, imbiancati, dicono, un po’ precocemente. Dovrei essere triste, arrabbiato, indignato, ma non lo sono. Mio fratello ha moglie e figli, e una casa piccola. Così alle otto sono in strada, fino alla sera. Cammino piano, mi guardo intorno. Incrocio altri come me, sempre di più, ogni giorno. Mi osservano, li osservo, senza parlarci. Sembriamo pinguini sulla riva, qualcuno ha detto, in attesa dell’onda; una colonia in crescita. Non so cosa significhi essere intelligenti, a questo punto; se mi manca davvero qualcosa.

Viedellapovertà 1

Mi bastava ciò che guadagnavo. Le spese, certo: un mutuo consistente, le pesanti bollette di luce, gas, telefono; e quelle impreviste, visite o cure mediche a pagamento, un conguaglio da pagare, un regalo, e via dicendo. Ma ci scappavano sempre i libri, le riviste, una serata al cinema.
Poi la separazione, lo stare insieme diversamente, coi figli; l’abbandono di una casa col mutuo ancora da pagare, la rinuncia agli arredi comuni, alla propria auto, alle proprie cose; e una nuova casa in affitto, altri arredi, utensili e oggetti necessari da comprare; e un cumulo di vecchie e nuove bollette.
Secondo l’
Istat, è povero chi dispone di una somma inferiore a c. 600 euro al mese per i consumi. Ma chi ne guadagna mille in più, ma deve pagare parte di un vecchio mutuo, il mantenimento dei figli, l’affitto di un nuovo appartamento con uno spazio anche per loro, col condominio e le immancabili spese, come può definirsi, restandogli poco più di duecento euro al mese per mangiare (lui e i figli) e per qualunque altro acquisto e imprevisto?
Qualcuno subito dirà: peggio per chi mette su famiglia e poi, come sempre più spesso accade, si separa; peggio per chi ha avuto l’ardire di acquistare una casa per non farsi strozzare una vita intera da un affitto, destabilizzare da uno sfratto. Cosa conta se ha studiato molti anni, se ha superato un concorso pubblico selettivo, se ricopre un ruolo di responsabilità, se lavora da più di vent’anni senza avere mai avuto un riconoscimento di carriera, un miglioramento economico, se non nella risibile misura prevista dai contratti collettivi?
Sono però sereno, e grato di essere vivo e con le cose essenziali; grato, soprattutto, agli amici e ai parenti, per gli aiuti inaspettati e salvifici (ancora per quanto?). Ogni considerazione e lamentela personale si ferma qui, pensando ai molti, moltissimi che stanno peggio; a tutti coloro che non hanno proprio nulla, né un lavoro né una casa disperando per l’uno e per l’altra; ai tanti giovani con qualità e competenze da poter ricoprire, degnamente, qualunque incarico pubblico o privato, quanto e più di chi attualmente lavora. Tacere ed arrangiarsi, allora, come molti fanno, ripetendosi di continuo che la povertà è ben altro, che si tratta soltanto di un periodo difficile per te e per tutti, che poi passa, che l’importante è conservare un lavoro, specie se garantito, di questi tempi? Le cadute e le ossa rotte restano, però, cadute ed ossa rotte, sulla strada della vita, e piuttosto che tacere, per pudore o inopportunità, prima di parlare di fatalità o di inavvedutezza, sarebbe giusto che chi di dovere inizi seriamente a riparare buche e fossi lungo tutte le strade affinché nessuno possa più caderci, restando in terra, magari, senza potersi più risollevare.