Posts Tagged ‘la parola data’

“Ti scorpori…”, col brano musicale “A Piece, A Chord” di Bobby Mc Ferrin

Stefano Guglielmin su “La parola data”

Ringrazio Stefano Guglielmin per il suo intervento su "La parola data" apparso sul suo blog Blanc de ta nuque

Malgrado La parola data (L’arcolaio 2009), di Giovanni Nuscis, metta in epigrafe, citando Ranchetti, la supplenza del vedere all’esser vivo, sceglie poi la pratica della parola quale decisa viandanza nell’intrico quotidiano del senso, un andare tracciando strade in quell’inquieta penombra che è il presente della comunicazione. La possibilità di vedere, presuppone dunque la necessità di far chiarezza, emergendo da quanto c’impedisce di stare alla luce, di comprendere quanto ci tocca. Questa poesia sembra infatti ripetere, ad sua ogni svolta, l’atto del nascere al senso e al mondo, quel tempo indefinito del venire a patti con l’imponderabile, la cui falce sempre s’impone attraverso la richiesta di decodificazione. La poesia di Nuscis, insomma, racconta l’eventualizzarsi del senso, lo mette in scena l’attimo prima che condensi e s’irrigidisca, salvandolo in quanto possibilità aperta, dopo che lingua della comunicazione ordinaria ha finalmente svelato la propria vocazione all’incomunicabilità. A partire da questa evidenza, certificata dall’intero Novecento, la parola data non solo si rigenera attraverso la funzione poetica, con tutti i suoi artifizi retorici (mai tuttavia fine a se stessi, e comunque sempre modulati con la sordina), ma, come rileva Roberto Rossi Testa nella prefazione, vuole altresì essere un impegno preso dal poeta stesso (dare la parola, mantenere un impegno preso) nei confronti della comunità, evidenziando così di questi versi la loro radice civile ed etica. Resistenza che si svolge, come detto, anzitutto nella lingua. Per questa ragione, egli non può permettersi sbavatura di sorta, anche a costo di risultare talvolta oscuro, come nella migliore poesia che fa i conti con le forze ctonie della vita. Ecco, appunto: ne La parola data siamo di fronte ad una ricerca che, edificando parole, sfocia nel cuore della vita. (Stefano Guglielmin)

“La parola data”, recensione di Massimo Onofri

laparoladata

Ringrazio Massimo Onofri per le parole dedicate al mio libro.

Economia e ordine pubblico legati a un gatto e a un barista

La parola data (prefazione di Roberto Rossi Testa) è la terza raccolta di poesie dell’anconetano e sassarese Giovanni Nuscis pubblicata quest’anno da L’arcolaio di Forlì. Nuscis è un poeta aspro ed elegante, e talvolta concettoso. La parola – quella del titolo – è talvolta inseguita sino ad una sua ardita, difficile, figuratività. Ecco: in linea di massima – ma senza tentazioni orfiche – Nuscis è un poeta che resiste al linguaggio della comunicazione, pur non rinunciando a comunicare le sue verità. Epperò non mancano nei suoi versi certe aperture sulla quotidianità. E’ il Nuscis che preferisco, senza per questo sottovalutare la sua metafisica di resistenza. E’ il Nuscis che affido ai miei men che venticinque lettori per salutare l’anno nuovo che arriva. Una veloce, ironica e prosastica, riflessione sulla casualità e l’insensatezza delle leggi che regolano il mondo e condizionano il destino degli uomini: «L’urina di un gatto sulle scale/rende nervoso l’inquilino/che fa il barista e porta/avanti e indietro ogni giorno/bicchieri su un vassoio;/ogni tanto ne cade uno/sul cliente che s’adira: agente/di borsa o di polizia./Economia, ordine pubblico/influenzati da un barista/e da un gatto». – Massimo Onofri

"La parola data", recensione di Massimo Onofri

laparoladata

Ringrazio Massimo Onofri per le parole dedicate al mio libro.

Economia e ordine pubblico legati a un gatto e a un barista

La parola data (prefazione di Roberto Rossi Testa) è la terza raccolta di poesie dell’anconetano e sassarese Giovanni Nuscis pubblicata quest’anno da L’arcolaio di Forlì. Nuscis è un poeta aspro ed elegante, e talvolta concettoso. La parola – quella del titolo – è talvolta inseguita sino ad una sua ardita, difficile, figuratività. Ecco: in linea di massima – ma senza tentazioni orfiche – Nuscis è un poeta che resiste al linguaggio della comunicazione, pur non rinunciando a comunicare le sue verità. Epperò non mancano nei suoi versi certe aperture sulla quotidianità. E’ il Nuscis che preferisco, senza per questo sottovalutare la sua metafisica di resistenza. E’ il Nuscis che affido ai miei men che venticinque lettori per salutare l’anno nuovo che arriva. Una veloce, ironica e prosastica, riflessione sulla casualità e l’insensatezza delle leggi che regolano il mondo e condizionano il destino degli uomini: «L’urina di un gatto sulle scale/rende nervoso l’inquilino/che fa il barista e porta/avanti e indietro ogni giorno/bicchieri su un vassoio;/ogni tanto ne cade uno/sul cliente che s’adira: agente/di borsa o di polizia./Economia, ordine pubblico/influenzati da un barista/e da un gatto». – Massimo Onofri

 

Gianmario Lucini su "La parola data"

laparoladata Ringrazio Gianmario Lucini per il suo intervento su “La parola data”, pubblicato oggi su POIEN

            

Di non facile lettura questo importante lavoro del sassarese Gianni Nuscis, che segna a mio avviso un balzo in avanti molto forte nella sua poetica e nel suo stile.

Lo stile prima di tutto: asciutto ma senza mai perdere una intrinseca caratteristica dialogica, lirico ma molto sorvegliato e mai abbandonato a larghe melomanie alla Rachmaninoff – tanto per capirci.  Alto ma non inaccessibile a chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il linguaggio alto della poesia.  E parte di questa altezza, che appare anche severa in taluni passaggi, deriva appunto dalla ricerca di quella asciuttezza stilistica che gli fa omettere tutto quanto sia possibile omettere, tutte le parole che non sono da lui considerate essenziali all’economia del senso e del verso.  Continua a leggere

Gianmario Lucini su “La parola data”

laparoladata Ringrazio Gianmario Lucini per il suo intervento su "La parola data", pubblicato oggi su POIEN

            

Di non facile lettura questo importante lavoro del sassarese Gianni Nuscis, che segna a mio avviso un balzo in avanti molto forte nella sua poetica e nel suo stile.

Lo stile prima di tutto: asciutto ma senza mai perdere una intrinseca caratteristica dialogica, lirico ma molto sorvegliato e mai abbandonato a larghe melomanie alla Rachmaninoff – tanto per capirci.  Alto ma non inaccessibile a chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il linguaggio alto della poesia.  E parte di questa altezza, che appare anche severa in taluni passaggi, deriva appunto dalla ricerca di quella asciuttezza stilistica che gli fa omettere tutto quanto sia possibile omettere, tutte le parole che non sono da lui considerate essenziali all’economia del senso e del verso.  Il linguaggio è dunque molto curato, molto sentito, risuonato (lo si vede) per molte volte in una lettura mentale e polmonare.  Certo, è uno stile non facile perché necessita di misura: l’eccesso o la mancanza sarebbero una stonatura, così come in una partita per violino di Bach è necessario che l’interprete ricavi da quella scrittura la sua sobria bellezza, la sua linea melodica essenziale capace lei sola di dividere gli spazi sonori con la sicurezza e che il compositore ottiene coniugando la libertà dell’invenzione col il rigore del senso, l’ansia del dire cose nuove con l’empatia per colui che queste cose nuove è disposto ad accogliere in una dimensione di scambio.  Questa ricerca di rigore può essere spiazzante a chi ama la poesia dialogale, che predilige la semplicità formale della lingua e la chiarezza/completezza della linea espositiva.  Ma, come sopra dicevo, gioca in questi due opposti un ruolo importante il senso della misura, non definibile certo in modo oggettivo, ma che ognuno avverte a seconda di una sua particolare sensibilità e che tuttavia può ben ricreare in se stesso se riesce a leggere con un atteggiamento empatico l’ordito poetico tessuto da un certo autore.  La poesia infatti non è un fatto estetico (soltanto).

E dunque c’è dell’altro.  Ancora nel linguaggio, troviamo infatti una sapiente capacità di sintesi che si esprime in immagini e versi densi e insieme folgoranti, che esplodono in una moltitudine di allusioni e di significati veicolati da pochissime parole (ho sotto gli occhi ad esempio, a pagina 37:  "Senza pianto che recrimina / il domani in cui si ride / forte a banda larga".  Tre versi che valgono un intero discorso che non intendo qui sviluppare).  Questa è l’asciuttezza, che poi è rigorosa scelta del modo più efficace e semplice (e quindi elegante, secondo le teorie della comunicazione) per esprimere un pensiero e le sue emozioni.  Suggerirei: un evidente rigore nel creare delle regole per la sua scrittura e nell’osservarle, secondo una poetica ben articolata, creata su inclinazioni estetiche soggettive, ma che si lascia facilmente penetrare e giudicare.  E dunque si lascia criticare su basi in sé oggettive (il problema nella lettura di certi poeti infatti, è proprio quello di una difficoltà nell’argomentare sulla loro poesia a partire da elementi di criticità, proprio perché hanno elaborato una poetica troppo frammentaria e nello stesso tempo non sempre la osservano, non vi sono insomma fedeli: il tutto potrebbe  essere interpretato, esasperando questo atteggiamento, in coincidenza con il suo contrario – e quindi un niente di fatto).

Dietro questo uso del linguaggio devono per forza giocare un ruolo importantissimo alcuni fattori, primo fra tutti la frequentazione della poesia classica e contemporanea (sembrerebbe ovvio, ma giurerei che pochissimi sono i poeti cosiddetti "emergenti" che si degnano di leggere qualche verso che non siano i loro e, soprattutto, che si degnino di riflettervi e magari chiedersi il perché di un certo modo di scrivere piuttosto che un altro, le ragioni, insomma, di quella poesia).  Dunque è sul filo del confronto e della comunicazione che nasce la scelta di questa poetica, dentro un quadro di rigore disciplinare e metodologico – che non inibisce, come in modo facilone alcuni affermano, la manifestazione della propria genuinità, dei propri sentimenti, della propria psicologia, secondo una attesa di verità intersoggettiva che è insita in ogni attesa di comunicazione, ma che anzi la rende nuda e cruda, non nascosta dal velo ambiguo dei luoghi comuni cristallizzati nel linguaggio. Questa è la mia netta impressione.

Del Nuscis che conosciamo già, resta sempre quel fondo di forte eticità che caratterizza le tre pubblicazioni che egli ha dato alle stampe e che si concretizza in una poesia dove l’attenzione al messaggio, e quindi al pensiero poetico, è prioritaria rispetto ad ogni altro elemento formale.  Ma nel Nuscis di questo volume ci pare però di notare anche una forte vena di disincanto, che non è collera o disillusione o tristezza, ma una consapevolezza matura e serena di quanto di problematico egli afferma nei suoi contenuti: l’inadeguatezza della poesia stessa ad essere protagonista di un cambiamento, ad esempio, o la condizione di solitudine dell’essere umano alla quale da solo l’uomo si condanna, o anche la complicità nel convivere con l’ingiustizia su cui si fonda la convivenza civile.  Tutti aspetti che potrebbero indirizzarci nel ricercare una vena civile in questa poesia, che pure esiste e non è labile, ma che a mio avviso è ben integrata con il verso lirico (asciutto ma lirico!) dove l’io, il tu, il noi sono entità come proiettate al di fuori del tempo e dello spazio e della stessa storia.  Il mastice che lega insieme il pensiero poetico di Nuscis è infatti la presa di coscienza soggettiva che viene comunicata ad altre soggettività instaurando un dialogo che riguarda soprattutto la natura dell’uomo, la sua ontologia, non la sua storia.

Un’opera infine, che a mio avviso ha molto di inedito e di personale, che impedisce di accomunare l’autore a una particolare tendenza o fenomeno di massa.  Un’opera originale e ambiziosa che mi induce a ritenere che Gianni Nuscis sia una delle migliori promesse della poesia Sarda e, già da oggi, un poeta completo, molto riconoscibile, di indubbio talento.

                                                                                                                  

“La parola data”. Presentazione.

laparoladata

Libreria Dessì – Mondadori          Associazione Verba Manent

 

 

Il 18 giugno 2009 a Sassari alle ore 18,00

presso la libreria Dessì – Mondadori

Largo Cavallotti 17

 

 

Presentazione del libro di poesie

 

“La parola data”

di

Giovanni NUSCIS

 

Coordina la serata

Gianfranco Chironi  – presidente di Verba Manent

 

Introduce

 

Antonio Fiori – poeta

 

§§§

 

…Il mio terzo libro di poesia

laparoladata

 

Alcuni commenti su:

www.lapoesiaelospirito.wordpress.com 

 

Altri commenti e la recensione di Antonio Fiori su:

 viadellebelledonne.wordpress.com/2009/04/18/la-parola-data/#comment-33788

 

Il libro è reperibile presso La Casa Editrice L’Arcolaio

 

 

 

 

 

prefazione di Roberto Rossi Testa

Dei cinquanta/sessantenni che trenta/quarant’anni fa coltivavano ancora la beata speranza di cambiare il mondo alcuni erano poeti, anzi fra essi la percentuale dei poeti era forse più alta della media storica, sembrando in quei tempi la poesia una delle vie maestre per raggiungere l’obiettivo in questione. Ma nessun altro oggetto del desiderio si comportò mai in modo altrettanto simile a quello dei pomi del povero Tantalo: cambiare il mondo era una faccenda davvero seria, se non disperata, o perlomeno richiedeva di essere accostata in ben altre maniere. Parecchi di costoro, allora, rivestitisi di tuniche di vario colore o di tute mimetiche, si incamminarono, chi in drappello chi in ordine sparso, verso i monti analoghi e gli aventini opportunamente disseminati per il pianeta; e in mezzo a quella folla composita, va detto, si trovavano alcune delle menti e delle anime più belle delle ultime due/tre generazioni. Fra quanti rimasero, non pochi si diedero a una poesia di pronto intervento, certo generosa negli intenti e non priva di giustificazioni soprattutto esterne, ma in cui l’elemento risarcitorio-consolatorio faceva capolino con insistenza soverchia; da cui cioè si capiva che l’inquietudine, tradizionalmente connessa allo scrivere e al leggere poesia, veniva sentita come attraversamento, funzionale al conseguimento di una meta che doveva essere tutt’altra, e non come stato costitutivo dell’essere nella/per la scrittura e nel/per il mondo. Ciò che si desiderava era, come in ogni altra attività, far quadrare conti e circoli, poter mettere insomma alla fine dei salmi un bel “gloria”. E non che questo in poesia non avvenga mai; avviene anzi abbastanza spesso, ma per grazia gratuita, come un debolissimo bagliore nel cuore del buio lo dirada un istante per quelli che sanno vedere. Ma se si sventola il biglietto pagato, se si brandiscono macchine fotografiche per documentare l’evento, l’incanto si spezza, irrimediabilmente.
Esiste però un piccolo numero dei rimasti che mi pare più in grado di suscitare attenzione ed empatia: si tratta innanzitutto di uomini che nel mondo si sono rimboccati le maniche, avendo imparato a prenderlo esattamente per quello che è, senza troppe illusioni ma anche senza fughe; e sono poeti dai polmoni adattati a incredibili apnee, e con braccia che si coprono all’improvviso di penne, per voli tanto fulminei che quasi non ci si capacita di averli veduti davvero. Costoro sanno operare nel mondo e sulla pagina (starei per dire “sulla pagina del mondo”) con una medietas che pareva ormai insperabile: ovvero con una discreta fermezza in mezzo alle cose, volgendo su di esse uno sguardo che prova a ri-disegnare e ri-dire il mondo intorno, per restituirne se non l´essenza una prospettiva altra, ancorché minima e interstiziale; e tenendo come una sorta di diario di bordo, che però non registra tanto quello che avviene fra quadrato, cambusa e santabarbara, ma quanto succede là fuori, fra gli elementi che si scatenano e, al di sopra, nel moto degli astri rispetto a cui è indispensabile continuare comunque a fare il punto.
E parlo in questo caso specifico di uno di questi ultimi uomini e poeti, Giovanni Nuscis, del quale qui si battezza il terzo libro di versi, La parola data.
In un accorto amalgama di poetese, lingua quotidiana e gerghi tecnici che smonta e rivolta di continuo i luoghi comuni, Nuscis racconta storie per fotogrammi solo apparentemente enigmatici, e che anzi non di rado sanciscono uno scarto minimo dalla realtà ictu oculi; basterebbe cioè avere l’impertinenza di chiamare le cose col loro nome comune, e ognuna potrebbe riprendere il suo aspetto ordinario e consueto. Ma anche il suo aspetto più limitato; perciò lasciamo pure il tutto agli spazi vasti e multidimensionali della poesia, ed alle sue alternanze di trobar clus e di trobar leu (che in questa raccolta si trovano, grosso modo, rispettivamente nella prima e nella seconda sezione).
Questa sembra l’indicazione di cui tenere soprattutto conto durante la lettura di quest’opera. “Guardi, guardi, guardi fisso/come se il vedere supplisse/l’essere vivo…” dice la bella e non casuale epigrafe tratta da Verbale di Michele Ranchetti: ed effettivamente come segmentiamo il mondo e ne scegliamo, combiniamo ed esprimiamo letterariamente quei segmenti è cosa più importante dei giudizi che nel corso di tale operazione volontariamente o meno finiamo per emettere; per non parlare poi dell’altezza dei risultati che nell’operare si raggiungono: dal momento che si tratta di capire, e non di attribuire punteggi, contrabbandando preferenze personali travestite da giudizi oggettivi.
La poesia di Nuscis cerca assiduamente il punto di incontro e congiunzione tra visione e visionarietà, sia quest’ultima profetica o più concretamente civile. Attenzione, tutti hanno scritto poesia che prima o poi si è potuto leggere come civile; nello stesso modo in cui ogni poesia è d’occasione, anche se poi, luzianamente, la materia del ricordo sfuma, lasciando il ricordo stagliarsi nella sua nuda esemplarità.
Ora, la particolare coloritura che questo approccio assume nel lavoro di Nuscis è quella della resistenzialità.
Già nella precedente raccolta, In terza persona (la sua seconda, dopo Il tempo invisibile), si trovavano versi che andavano in tale senso, con affermazioni ed assunzioni d’impegno della più alta significatività: ad esempio “Resisteremo al nero e pure al grigio”, dove pare d’intendere che l’impegno assunto (La parola data?) non è contingente bensì esteso ad ogni evenienza e momento dell’avventura umana; oppure “E basta pronunciarla, la parola/perché tremi la lingua:/noi, la tana in cui la bestia /entra, esce, resta/ a testa bassa”, in cui, con una curiosa inversione della celebre formula montaliana, il poeta pare riassumere le regole e addirittura tracciare i limiti fisici dello scontro che vita e poesia comportano. Il tutto, dal momento che à la guerre comme à la guerre, senza preoccuparsi troppo degli strumenti che in tale scontro possono risultare efficaci, ossia “davanti alla sequenza di sintagmi /strani, assemblati in tante file/né corte né lunghe, né prosa né versicoli”, né tantomeno farsi spaventare dal “drago della non-poesia”, peraltro “sfinito ora in un angolo”.
E la presente raccolta si conferma in pieno nel solco di tale tendenza. Una tendenza la cui stessa onestà le fa assumere dei rischi, certo superati nel modo migliore, ma che fino alla fine lasciano col fiato sospeso.
Intanto, questa è una poesia abbastanza difficile, che non si sostanzia di parole in libertà di cui fruire a piacere, ma di un serio discorso per immagini che si dispiega con un alto tasso di intra- e intertestualità: proprio come piace a chi, purché lo scrittore gli dia il massimo di cui è capace, è pronto ad impegnarsi molto nella lettura. Ovvio che un po’ di spaesamento, persino di frustrazione, può essere a volte avvertito persino dal lettore più attrezzato ed attento. Quando ad esempio Nuscis in una complessa immagine accenna al dente di Pietro confitto nella durlindana, ovvero alla reliquia petrina nella spada del paladino Orlando, ebbene quel dente può continuare a mordere anche da lì, lasciando nel lettore intimorito/indispettito la tentazione di volgersi ad opere meno mordaci e più “cordiali”. Del resto sappiamo bene che la leggibilità dell’opera è solo in piccola misura intrinseca, e dipende per lo più dal diventare essa parte di una tradizione o addirittura del Canone, quindi in generale il problema vero è un altro: per il lettore vale la pena di raccogliere la sfida e compiere la fatica che gli viene richiesta? Ciò che l’autore gli dà in cambio lo ricompenserà con un pane magari duro ma nutriente? Qui la risposta varia da caso a caso e non è sempre positiva. Nel caso di Nuscis però ritengo sinceramente che lo sia: l’interazione tra l’autore e il lettore si chiude a mio giudizio su un bel pareggio. E questo è per me il risultato più auspicabile: nel rapporto fra diversi l’arricchimento sta appunto nel reciprocamente tenere la corda ben tesa, resistere e resistersi, cedendo il terreno all’altro, un piede alla volta, solo quando se lo sia duramente conquistato. Così entrambi, per quanto ammaccati e proprio perché ammaccati, otterranno il massimo l’uno dall’altro.
D’altra parte, autore e lettore si cercano e si scelgono a vicenda: inconsciamente, quando va bene, poiché qui non si parla di marketing, ma di un certo Diogene che andava in giro con la lanterna accesa in pieno giorno. Il rischio è che magari nel mondo reale nessuno corrisponda al ritratto ideale che l’uno e/o l’altro hanno in mente, e che all’uopo debbano proiettarsi nel passato o anche nel futuro; operazione comunque per nulla paranoica, ma, anche per chi crede nella poesia d’intervento che non sia mero “pronto intervento”, perfettamente legittima.
E qui si viene all’ultimo punto: alla distinzione spinosa, che tuttavia non è possibile eludere, tra poesia d’intervento e poesia di “pronto” intervento. Con una drastica e forse scontata semplificazione si può dire in proposito che quest’ultima, certo con la massima buona volontà e le migliori intenzioni, suona le sue sirene e i suoi pifferi, secondo le necessità dell’ora alle quali minutamente aderisce; mentre la prima, puntando all’immagine piuttosto che all’ideologia, sa svariare per giungere poi sempre a bomba nei modi più impensabili e implacabili. Ma il problema vero, di nuovo, è che un Majakovskij, un Brecht, un Neruda non nascono tutti i giorni. E nemmeno, per rimanere in casa nostra, un Primo Levi, il quale, sì, disse che “dopo Auschwitz non si p[oteva] più scrivere poesia se non su Auschwitz”, ma che da parte propria lo fece, già all’indomani della sua tragica esperienza, con quell’afflato di universalità che di opera in opera divenne la cifra essenziale della sua scrittura.
Ad ogni modo, la poesia di Nuscis mi sembra, fortunatamente per lui e per noi, appartenere al primo tipo, proprio in forza della continuità, della moderazione e della complessità medesima del suo dettato. E dico fortunatamente perché, ribadisco estremizzando, credo che la poesia debba assomigliare all’orologio fermo che due volte al giorno segna l’ora esatta per l’eternità, piuttosto che segnare concitatamente un tempo ed esaurirsi in quella bisogna; specie oggi, che esistono ben altri mezzi per essere connessi e operativi in tempo reale; o per averne la pia illusione.
Concludendo, sono consapevole di aver scritto una recensione che è anche una meta-recensione; ma Nuscis, essendo poeta di questo tempo, non può non essere anche meta-poeta: pertanto i conti dovrebbero tornare, consentendomi di mettere punto con la coscienza a posto.

da La parola data

Una muta di occhi
ti insegue
nella notte vascolare
nell’intrico di rivoli
e fiumane di rubini
bilie d’ossigeno in corsa
lungo navigli di arterie.

Colpi di tosse
brevi
e vai avanti.
Attendi per fermarti il fiato caldo
sulla nuca
l’ala sulla scapola.

La mano nel buio
nell’altra
invisibile di brina
e ben venuto sei
nell’ascendenza infinita.

*

Dal muro bucato la notte
ti vedi andare via leggero.
Ritrovi all’alba sul tuo letto
un ubriaco che ti legge la vita;
gli ruotano gli occhi e la testa
nella veglia allucinata
nel ludo di parole in sella
ad un ronzare di cellule.
*

Ti scorpori
a poco a poco
e ogni incontro è più breve.
Cominci a vedere
la città che non era
e che sarà
quel delirio d’aria
che ti avvicina di un morso
ogni giorno
all’osso del tramonto.

Il tempo è appeso alla tua gola
le lancette dal quadrante
vi si figgono e ritrovi
dell’ora più ferita
sulla carta una parola.

Il passato lo si trova ormai
pressato in pochi bytes
lo apri e da un chicco
di grano ti esplode
una nube di talco
sugli occhi.

*

Cade in una nicchia
e tace. Dalla parete
vitrea d’una nursery
se non tu, altri
lo attendono nuovo
lo sconosciuto che
dopo un poco
a qualcuno somiglia.

*

Tu scrivi in un angolo
e io ti leggo e commento
e come coscienza remota
t’affioro e tu mi ascolti.
Hai dunque conferma che esisti
che dal tuo avamposto resisti
paradiso inferno palestra
dove mai impareremo
a capirci a bastarci.

*

Non la parola che salva
o muove ma la puntura di un’argia.
Febbre e agitazione
da una mandorla dolcissima.
Dal giardino di piante inaudite
una mano di terra
sotto un piede di cielo.
Queste basse radici dove inciampi:
la cronaca
gli immancabili morti
le esclamazioni che fai
mentre sbadigli.

*

Solo minuscole zanzare.
Ma la mano picchia
forte sulla carne.
Bianca farina
cade e ti ricopre
mentre a mezz’aria
salutano la terra i piedi.
Non sai pensarti
in nessuna direzione
senza calciare inquieto.
Eppure anche da fermo
chiuso in un barile
disegni traiettorie
luminose.

*

Il pirata e la fata son fratelli
si beccano ma vi è un porto
la sera dove attraccano
posando sulla cassapanca
spada e bacchetta.
Dormono e nella penombra
un lume vaga intorno ai letti.
Sognano espirando un drago rosso
un galeone che s’arena in giardino
e smaniano i bambini calciando
un nemico invisibile.
Il viaggio consumerà la notte
i suoi sogni e il destino saputo
con suggello di morte.

*

Si è smorzata la musica
di anni ritenuti straordinari.
Ogni tempo ha la sua e quella
s’era allargata a dismisura
col suo stuolo di cantanti
e rockettari a riempire la casa.
Non c’era gesto, parola o pensiero
che non fosse accompagnato da una nota:
il loro tempo sul nostro.
Quale vento una notte
ha riaccordato le foglie,
schiuso il sipario dell’afa
a una musica nuova.

*

Ne rompono il sigillo di lumaca da ogni dove
ma l’occhio come il mondo è franto in pixel acini,
pigiati per vino non bevuto per sangue non buono.

C’è un diritto nel rovescio a cui non giova
l’inverabile contrario. Si distruggono case si nega
il cemento
in cui fuma e s’invagina una pozza d’acqua lurida.

Il sole per facce di bronzo ha un solo occhio
chiuso, sorride ai belli ai figli di cani che rispondono,
Giani, mentre guaiscono alla luna.

Una riga bianca in mezzo segna il senso
di marcia finché un bue non la cavalca tra urla
e sangue di passanti sbattuti gli uni contro gli altri.

Una Pasqua verrà e s’apriranno uova
senza sorprese né fiocchi e
ne usciremo nuovi, forse più sciocchi ed assenti.

*

Sapere che sei e che resisti sul limo dei giorni
nell’abbraccio d’aria scommesso
in una santa partita senza punti e rivincite.

Nato freddo monolite o porcospino
nella distanza che non figge la carne che bacia
assetato una tazza rovente sciogliendo.

Quell’Uno che fummo, dici, è ora istinto
alla fusione. Cronaca fitta di sogni assassini
di ingressi a quell’uno impediti con pietra tombale.

Tenia del bicchiere mezzo vuoto
contendi l’altro mezzo con la sete
di un angelo invisibile e coppiere.

*

Ragazzi, incontravamo bambole
senza testa. Non ridevamo.
Piccole madri le tenevano strette.

Noi si affondava sull’erba.
Le cicale di notte facevano il verso
ai poeti caduti in fossati di vinile.

*

Un matrimonio. Gli invitati fuori dalla chiesa.
Decine di visi stranieri ed eleganti
sorridono come in un reality.

Maggio è in fiore, svaporano i corpi dai vestiti.
Dopo mezz’ora la scena è dissolta. Una fila
di bimbi per le prove della prima comunione.

Il sole già dietro una casa. Un campo
è la piazza della chiesa, di grano e cocci.
Sullo sfondo i cassoni colorati dei rifiuti.

L’aria che prima era ferma ora si muove. Le voci
un’onda che flette nel pensiero,
e giunge lenta la sera. Da molti occhi al nulla.

La giacca di lino gualcita sfilata
dalla carne ride mentre si osserva
da una panchina, accondiscendere alla vita.

*

Arriverai. Solo.
Il carico del viaggio perduto. La piuma
fuggita al cadere del respiro.

Il salto e quel motore ondivago
tra i flutti dei secondi
catena su corona sdentata.

Poi, grano, ape, gufo
affacciati a una corolla albale.
Uguali a nessuno.

Nota bio-bibliografica

Giovanni Nuscis è nato ad Ancona nel 1958, vive dal 1973 a Sassari. Laureato in giurisprudenza si occupa, attualmente, di formazione. Ha pubblicato i libri di poesia “Il tempo invisibile” (Book Editore, Castelmaggiore, 2003) (Premio Nazionale di poesia “Alessandro Contini Bonacossi” ed. 2003, per l’opera prima) e “In terza persona” (Manni, Lecce, 2006). Per la poesia inedita, tra gli altri, ha vinto il Premio Turoldo ed. 2005 organizzato dall’Associazione Poiein (1° classificato). E’ stato anche segnalato al Premio Lorenzo Montano 2008 (22° edizione) per la sezione “Raccolta inedita”.
Suoi testi sono stati inseriti in alcune antologie tra le quali: “Parliamo dei fiori” a cura di Vincenzo Guarracino (Zanetto Editore 2005), “Vicino alle nubi sulla montagna crollata” (Campanotto editore, 2008), curata da Luca Ariano ed Enrico Cerquiglini.
Suoi lavori (poesie, note di lettura e interventi critici) sono stati pubblicati sulle riviste L’immaginazione, Polimnia, Gemellae e Le Muse, e su quelle on line Italia Libri, ORG, Poiein, Sinestesie, Il Convivio, Rotta Nord Ovest, I poeti del Parco, Lingua Siciliana, Parole di Sicilia, Fara.
Fa parte della redazione del blog collettivo “La Poesia e lo spirito” (
www.lapoesiaelospirito.wordpress.com ). Gestisce un blog personale, “Transito senza catene” (www.giovanninuscis.splinder.com) dedicato alla poesia, alla narrativa e all’attualità.”