Archive for luglio 2007

poesia in 3 lingue invito 28 luglio 2007

“Il non potere” Davide NOTA

bersaglio

Di Davide Nota, nato a Cassano d’Adda nel 1981 e residente ad Ascoli Piceno, esce la seconda raccolta poetica Il non potere; dopo Battesimo uscito nel 2005 per i tipi di Lietocolle con prefazione di Gianni D’Elia.
Nel titolo, due possibili significati: il non potere come utopia – in quanto, deandreianamente, “non ci sono poteri buoni” – e/o come rammarico di “non poter fare” alcunché per porre rimedio ad un malessere individuale, sociale, generazionale. La lettura del libro induce a non escludere alcuna delle due accezioni. Se è ineludibile il raccordo a poetiche dell’impegno di ascendenza pasoliniana, è altrettanto evidente, qui, una tensione storicizzante attraverso la carne dei vissuti individuali: quello dell’autore, innanzitutto, e di suoi coetanei, su uno sfondo di degrado – umano e paesaggistico – silente ed invasivo come una metastasi.
Quattro le sezioni della raccolta: I cadaveri, Domus, Il non potere e Controluce. La scrittura di queste poesie è prevalentemente lirica tendente “alla vera e propria prosa ritmata” – come osservava Gianni d’Elia riferendosi alla precedente raccolta – in cui le ricorrenti assonanze e allitterazioni danno ritmo e musicalità ai versi dove si inseriscono inserti di linguaggio verbale.
La doccia, prima poesia della raccolta, esprime con nettezza di pensiero e di immagine una visione della vita: No, la vita non è enorme, si incanala/come un torrente in rubinetti chiusi/e sgocciola, calcare, di doccia in doccia in vano,/si raccoglie, tra gli abusi, sciolti/dei corpi i resti in acquitrini viola/che l’estate dai finestri asciuga;/così resta, ad un sapone attiguo, un pelo/tuo ricciuto, nero; l’oggi/è quanto resta, scoria/che la fuga della storia elude: un perizoma/sgualcio ai piedi del cesso, un rubinetto/semiaperto… La vita, dunque, ci attraversa e s’incanala in noi, moltitudine di “rubinetti chiusi”, che poca (il “calcare, di doccia in doccia”) ne lasciamo sgocciolare, poca ne trasmettiamo. Resta della vita un “oggi” concreto e vitale – e simbolo ne è il “pelo ricciuto” – che “la fuga della storia elude”; la “vita” qui, sembra voler dire l’autore, non resta strozzata nel rubinetto ma scorre, scorre almeno quanto basta per dirsi tale, ogni tanto.
Un quadro epocale urbano e di periferie in degrado delineano i testi successivi (Genova, Il fiume…) tra cronaca, dolore ed urlo contenuto; metabolizzati nei versi che tutto accolgono, avvolgono e rimodulano in chiaroscuri di ragione soggettiva, auscultata sottopelle, o di lacerti storico/cronacistici: o lupa noglobalina che scambiando follia/per reazione ti precipitasti/tra le mille bandiere di Genova a gridare/il tuo bisogno di esser meno sola.(Genova). Ritroviamo poi (nella poesia Il fiume: morto fiume che penoso passi) altra metafora acquatica di vita stentata, divorata dagli oli e ricoperta dalle pile delle auto; con copertoni e batterie sul bordo sfiancato del niente. E ancora accumulo di resti, calcinacci, scarichi industriali, rifiuti ma anche rivolo di sangue, sterco, muco che scende, nel fiume e nella periferia; questo, il dono, questa, l’eredità delle generazioni adulte a quelle giovani che, ovviamente, ringraziano: dell’incubo trasformatosi,  giocoforza,  in poesie orribili, quella poesia civile non amata neppure da critici ed intellettuali militanti come Franco Fortini.
Rifiuti e scorie ogni tanto si antropomorfizzano sotto una luce di pietà in quei ragazzetti/drogati (che) si trascinano nel gelo/cittadino, fumando sigaretti,/…/tra i cosi lì del parco, un nuovo coso. (I cadaveri); emarginati che originano altra emarginazione (Così a Nicola lo metteranno dentro,/Spaccio di eroina, tentata strage. – La condanna); da ultimo, nei corpi immolatisi dei suicidi (Preghiera, Croce), corpi e pezzi di un più ampio, decomposto corpo.
Attraverso la carne, i giorni. Nelle pareti domestiche, riflessi, i pensieri e i sentimenti (Residenza: osceno letto/dove tornare alle sette di mattina; Dopo sei mesi di naufragio fai ritorno/alla porta di casa (welcome)./La croce appesa al collo/come dono non colto/o ricordo di un tradimento/…/Resta questa stanza/disseminata dalle scorie/di una fallita redenzione. – La soglia) da cui si colgono talvolta ferite più profonde (Tu pensa un po’ che bel Natale/senza albero e famiglia: grazie mille/storia d’Italia meschina, storia/di eredità contese, di cortese rovina).
Se alta, qui, è la tensione recriminativa e disperata (Come l’ultima generazione di una stirpe suicida/questo ramo non fruttifica./La storia e l’utopia non conta più/senza una fede nella vita. – La soglia) contro i “padri” – una costante generazionale, del resto – va pure detto che l’efferatezza di questi padri non ha forse precedenti. Ciò che i “figli” rifiutano, di loro, altro non è che la discarica dei loro vizi, degli eccessi di un benessere cresciuto a dismisura a partire proprio dal dopoguerra); una “ricostruzione” (su macerie e su colpe non loro) divenuta abnorme ed ipertrofica per i sogni insufflati mediaticamente su una moltitudine per lo più inconsapevole (Io mi portavo addosso la luce oltraggiosa/della colazione davanti alla tele,) imposta da oligarchie capitalistiche legate a doppio filo col potere politico; archeologia di ruderi fumanti che si vorrebbero trasmettere cinicamente alla stregua di una cambiale, affinché siano altri a pagarla. Il rimedio, è presto detto: Solo una grande esplosione (per dirla/alla Pasolini) salverà questa nazione,/o un’invasione di gentaglia, o una carestia…/Ma non lo so, ma che ne so io…/Fefo dice che bisogna essere estremamente sinceri/cioè ridere commuoversi gridare/antisociali e belli parlare/a voce alta, parlare sempre…
Ma non tutto il mondo è così, crediamo; non solo cattiveria, sete di potere e di ricchezza muovono i comportamenti umani. Ma non ci potrà essere (l’atteso e auspicato) rinascimento senza indignazione autentica, senza presa di posizione per “le cose che non vanno”; non sarà mai il muto/signore di mezza età/a sbirciare dal divano/con un bicchiere di birra in mano/il mondo rappresentato che ci aiuterà a risollevarci. E’ necessario, invece, uno sguardo acuto, un’attenzione vigile, un impegno comune, per non restare monadi perdenti. Sempre ci sarà bisogno di arte, di bellezza: chi potrà, dovrà per ciò percorrere quell’intuita via dentro di sé, senza rimpianti: Un giorno al fiume mi dicesti sono povero/perché ho tutto mal trattato/e forse l’unico peccato è proprio questo/sciupare doni, le occasioni…

Giovanni Nuscis

Davide NOTA Il non potere Editrice Zona, Civitella in Val di Chiana (Ar), 2007
Con lettera prefatoria di Luigi Alberto Sanchi
Pagg 62, euro 10,00

Sergio ATZENI (Capoterra 1952 – Isola di San Pietro 1995)

sergio atzeni

Da: Il quinto passo è l’addio

Ruggero Gunale esiliandosi dalla città
e discutendo con se stesso di principi morali
ha una visione mistica

Bocca aperta alle mosche, Ruggero Gunale guarda con occhi umidi e impietriti la città che si allontana: la croce d’oro sulla cupola della cattedrale e attorno a corona digradando i palazzi color catarro dei nobili ispanici decaduti, circondati da bastioni pietrosi invalicabili a piede d’uomo, dove pendono chiome di capperi al vento, di un verde che ride.

Guarda i quartieri moderni fuori le mura scendere dai colli al mare oleoso e verde cupo, i bei palazzi e portici dei tempi di Baccaredda (scrittore e sindaco, amato e carogna) e il lascito architettonico di quest’epoca ai futuri: il cubo luttuoso e vitreo che nasconde i vicoli del porto e offende il municipio bianco e danzante cui si è affiancato con protervia da funzionario viceregio d’altri tempi (non è escluso che i futuri decidano di amarlo e cantarlo… o lo smonteranno vetrata per vetrata e lo sposteranno in campagna oltre Palli e invece delle nere geometrie che spengono la luce e l’allegria vedranno panchine, fontane, palme e jacarandas?).

Ruggero Gunale guarda la città che si allontana. Saluta torri pisane e campanili. Sillaba a se stesso: “La mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiacciarti.”

Con gli occhi della memoria vola per i vicoli del paese dove ha vissuto gli ultimi tre anni, gli pare di udire il ronzio di un calabrone in un pomeriggio silenzioso e di vedere i muri bianchi di calce ogni tanto incavati in portali neri o marroni, muri senza finestre, per proteggere gli abitanti dall’occhio sbavante dell’invidioso e da quello maligno della strega che passano per strada.

Nelle ultime novanta notti ha sognato di alzarsi, uscire sul tetto e tuffarsi nel vuoto. Nel sogno era mattina e Ruggero volava sopra i vicoli e i giardini murati, attorno alle campane, guardando auto e passanti, carretti e limoni, ma nessuno vedeva l’uomo planare portato dai venti. Arrivava in riva, guardava il mare, si chiedeva: “Lo attraverso?” e rispondeva: “No. E’ troppo largo.” Tornava indietro, rientrava dal tetto e si svegliava.

Pensa: “Sei figlio di puttana e intrighi, spingi e sgambetti, ti fai largo con la forza e l’astuzia e ti rispettano servili, vogliono farti fesso e se li fai fessi ti ammirano, ti imitano. Devi essere veloce nel colpire, regalare cicatrici. Se ti fermi a pensare, perdi il tempo e ti saltano addosso. Resta alla superficie delle cose e sali nella stima altrui”.

La calce dei paesi e l’acqua del mare e degli stagni riflettono la luce come aureola sulla cupola della cattedrale, attorno alla croce d’oro. Il sole del pomeriggio suscita dall’acqua vapori che imbiancano aria e mura. Luce e vapori avvolgono la città, pare staccarsi dai colli, nube guidata al cielo dalla croce. Visione da monaco medievale. Sciocchi e astuti nella Gerusalemme che sale al Signore. Così vede la città Ruggero Gunale e pensa: “E’ pulita e secca. Il sole la asciuga e il vento spazza via i fetori.”.

Ruggero parla a se stesso: “Fuggi. Dopo trentaquattro anni ti strappi alla terra dove hai amato, sofferto e fatto il buffone. Ogni angolo di strada testimonia una tua gioia, un dolore, una paura.
“In cambio sarò libero. La maschera che mi cuciranno addosso, lo straniero, l’isolano, il mendicante, mi nasconderà, occulterà il nome, sarò uomo fra uomini… Chi è mite compatisce i persecutori, ne vede la fragilità, le ferite nascoste e non si lamenta del male che subisce.
“Tu non sei mite. Ora soltanto hai percepito l’esistenza della mitezza. Perché vinto. Sei stato bestia, avida e feroce, finché avevi forza e te l’hanno permesso. Ora ti mascheri da esiliato, nascondendo il nome che per anni hai sventolato quasi fosse un merito.
“Non hai mai colpito per cattiveria. Per noncuranza, magari, o per cecità.
“Il nome sparisce, salva per un po’ la lapide in camposanto. E la vicenda presto è dimenticata, cancellata da nuove imprese di tonti e di campioni.”

Ruggero sente voci di madri che da altre finestre del porto chiamano i figli sapendo che non torneranno prima di cena, voci che modulano nomi al vento per avere un “eh!?” di risposta, prova che i figli non si sono spaccati la testa tuffandosi nella fontana vuota, non sono annegati in mare e non sono ai cessi pubblici fra le mani di un trucchista.

Carcerati cantano dietro le bocche di lupo alte sul colle: “Voglio la libertà, il mio avvocato al corno della forca e Marianna questa notte stessa”.

Coro di madri e galeotti offerto al Signore quando cala il sole.

“La spada è fatta per colpire, qualunque motivo santifichi la mano che la impugna. Fingi l’anima del monaco ma sei armato.
“Stare in basso a capo chino è penoso, anche se detto segno di saggezza.”

“La nave puzza di piscio e ammoniaca” pensa Ruggero Gunale immobile, uscendo dal dialogo interiore e guardando la città bianca di luce in volo dietro la croce d’oro, con madri e carcerati in canto sacro, profumata di salso.

*

Da: Passavamo sulla terra leggeri

Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò a storia e quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte. Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola.

Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e fango. L’alta zicura di limo e tronchi al limite dell’acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare all’altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.

Nulla è tanto ordinato e perfetto quanto immotivato e misterioso come i cielo e la volta stellata che studiavamo ogni notte immersi in calcoli sulle distanze, le orbite, i cicli.

Distoglievamo il popolo dalle false certezze. Il numero spiega e aggiunge mistero, come la memoria.
Il contadino chiedeva: “ avremo un buon raccolto, quest’anno?” Sapendo la casualità della pioggia e del secco, le stagioni consuete e le infinite varianti, rispondevamo: “Oltre i fiumi, in terre non lontane, la notte incombe a mezzogiorno, forse sono le nuvole di pioggia, forse nugoli di cavallette”.

*

Nell’anno 1302, dicendosi proprietario dell’isola in virtù della donazione di Costantino (che sapeva falsa) l’episcopo di Roma all’insaputa dei giudici (1) aveva donato la Sardegna ai sovrani di Aragona dietro versamento privato e occulto di settecento fiorini d’oro. L’episcopo di Roma aveva assicurato una conquista facile, pacifica, aveva promesso sardi plaudenti. Il sovrano d’Aragona aveva atteso quarant’anni che gli ultimi giudici morissero. Temendo che Mariano secondo avesse a sua volta figli, Mariani terzi e quarti magari prolifici e rimandanti alle calende l’uso del dono papale, il sovrano chiese indietro i fiorini versati. L’episcopo di Roma invitò allo sbarco nella terra di conquista, giurò che l’isola non avrebbe opposto resistenza, promise rapida morte del giudice Mariano.

 [1] Ex luogotenenti del governo bizantino che, allontanatisi da Bisanzio, governarono le quattro partes della Sardegna (Calari, Arborea, Torres e Gallura) “nominandosi” sovrani (re giudici). I Giudicati, regni a tutti gli effetti (superiorem non recognoscens), esercitarono il loro potere dal IX al XV secolo. Il giudicato più importante, ultimo a resistere all’esercito aragonese, fu quello di Arborea, di cui furono giudici Eleonora e suo padre  Mariano.

*

Parlare. Ascoltare. Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia. Scoprire l’altro nelle storie che racconta.

*

Ora sei custode del tempo, disse Antonio Setzu e soggiunse a bassa voce: Come coloro che ti hanno preceduto dovrai rimanere cristiano senza discussione e rispettare le leggi che ci siamo dati nella notte del tempo e abbiamo scritto e modificato durante i giudicati di Mariano e Eleonora. Più malvagi saranno in tempi più l’adesione all’antica legge parrà ribellione o sedizione.
Potrai aggiungere spiegazioni nuove dei fatti antichi narrati nella storia che ti è affidata e raccontare avvenimenti memorabili del trentennio della tua custodia, purché con chiarezza e concisione. Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.

Indicazioni bio-bibliografiche su Sergio Atzeni in un mio articolo pubblicato da Italia Libri nel 2005, a dieci anni dalla morte.
http://www.italialibri.net/contributi/0509-1.html

Per informazioni sul periodo giudicale, la cui conclusione – non a caso – coincide con quella della storia raccontata, rimando a: http://it.wikipedia.org/wiki/Giudicati

“Ars poetica” Ezra POUND. Traduzione di Cristina Campo

ezra pound

  

I

    La poesia dev’essere scritta altrettanto bene quanto la prosa. La lingua dev’essere bella e in nessun modo allontanarsi dalla parola detta, se non per un’accresciuta intensità (cioè semplicità). Non devono esservi parole libresche, niente perifrasi, niente inversioni. Dev’essere semplice come la prosa di Maupassant e dura come quella di Stendhal.

   Non sono ammesse le interiezioni, non le parole che volano via nel nulla. Ammesso che non si può ad ogni colpo far centro, si almeno questa l’intenzione. Il ritmo deve avere un significato. Non può essere una semplice partenza, senza presa, senza stretta sulle parole e il senso.

   Niente clichés, niente frasi fatte, stereotipie giornalistiche. Il solo modo di sfuggire a questo è la precisione, che è il risultato di un’attenzione concentrata a ciò che si sta scrivendo. La prova di uno scrittore è la sua capacità di simile concentrazione e la sua facoltà di rimanere concentrato finché non sia arrivato alla fine del suo lavoro, siano due versi o duecento.

   Oggettività e ancora oggettività ed espressione. Niente code al posto delle teste, niente aggettivi a cavalcioni (come “putridi muschi fradici”). Niente, niente che non si possa in qualche momento, nella stretta di qualche emozione, effettivamente dire. Ogni letterarismo, ogni parola libresca sgretola via un pezzetto della pazienza del lettore, un po’ del suo sentimento della vostra sincerità. Quando uno sente e pensa veramente, egli balbetta le parole più semplici.

    La lingua è fatta di cose concrete. Espressioni generiche in termini non-concreti sono pigrizia; sono conversazione, non creazione.

    Il solo aggettivo che valga la pena di usare è l’aggettivo essenziale al senso del passaggio. Mai l’aggettivo decorativo.

 

II

    Concisione, ovvero stile, ovvero dire ciò che s’intende dire col minor numero di parole e le più chiare.

    Effettiva necessità di creare o costruire qualcosa; di presentare una immagine o più immagini di oggetti concreti, disposti in modo da toccare il lettore. Al di là di questi oggetti concreti si possono fare semplici constatazioni del sentimento sui fatti; come “sono stanco” o “alla morte non può seguire peggiore male”, ecc.

    Io credo vi debbano essere più, molti più oggetti che constatazioni e conclusioni, essendo queste ultime puramente ipotetiche (optional), non essenziali, spesso superflue e quindi pessime.

    Ma bisogna che vi sia l’emozione, o la cadenza e il ritmo saranno rapidi e senza interesse.

    Il compito del poeta è definire e ancora definire finché il particolare alla superficie sia in accordo con la radice nella giustizia.

    In nessun caso la costipazione del pensiero, sia pure nel particolare, consentirà bella scrittura.

    Lucidità…

 

 

III

    Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato.

 

 

IV

    Buttate fuori tutti i critici che usano vaghi termini generici; non solo quelli che usano vaghi termini generici perché sono troppo ignoranti per dar loro un significato, ma quelli che usano vaghi termini per nascondere il significato; e tutti quei critici che usano i loro termini in modo così vago che il lettore può immaginare siano d’accordo con lui o gli diano ragione mentre non è così: col che intendo dire che i loro articoli possono sempre apparire in solide e rispettate riviste  senza scatenare una zuffa o provocare le proteste degli abbonati. La prima credenziale che noi dobbiamo esigere da un critico è la sua ideografia del bello, di ciò che egli considera scrittura valida e di tutti, tutti i suoi termini generici. Allora sapremo a che punto si trova.

    Non potrò mai ripetere troppo spesso o con troppa energia la mia diffidenza (caution) per i cosiddetti critici  che parlano tutto intorno all’argomento e non definiscono i loro termini e non sanno dire francamente che certi autori sono una scocciatura maledetta. Fatevi dire da un uomo prima, e con tutti i particolari, quali sono per lui i buoni scrittori: solo dopo ne ascolterete le spiegazioni.

 

 

Traduzione di Cristina Campo – in Cristina CAMPOLa tigre assenza” (Adelphi, Milano 1991)

Da Wikipedia, una breve registrazione della voce recitante di Pound:

 http://www.case.edu/artsci/engl/VSALM/mod/ballentine/ 

 

 

In terza persona

 

Sono ospite sul blog "La costruzione del verso" dell’amico e poeta Gianfranco Fabbri:

www.frucco.splinder.com  

Leggi recensione:

Giovanni Nuscis, con il suo libro “In terza persona”, lascia nella mia mente una traccia variegata, fatta cioè di più ipotesi di lavoro. Un verso, il suo, che viene come rappreso in una sorta di gelatina multi cromatica, dai toni ora immaginifici, ora invece cerebrali e metapoetici. E’ il primo tocco, quello che prediligo, anche se dichiaro la mia disponibilità a farmi permeare dalla bella intelligenza dell’amico sassarese. Gli scampoli del corredo da me preferito sono quasi tutti “eccellenti” –sia per compostezza formale, sia per tocco personale -. Già a pagina 8 mi riesce di gustare un quadro “urbano” fatto di sapori e di venti occidui; laddove il poeta scorge in lontananza l’isola dell’Asinara, persa chissà in quale caligine, secondo il punto di vista geografico di Porto Torres. Si possono leggere le staticità degli stabilimenti industriali in parziale dismissione –modi ipodinamici di un dio che stia per morire-. “ Pesco sereno nel buio: lo sguardo // rivolto all’Asinara, redenta // le spalle di San Sebastiano, oltre le nubi del bucato che il vento increspa; …”.  “In terza persona” è, in sostanza, una piccola bugia, ma potrebbe essere anche un progetto di lavoro. In realtà, Nuscis parla molto di sé e delle proprie istanze, ma rigetta subito con forza l’intenzione di voler comporre una sorta di diario personale. E ci riesce, dal momento che la raccolta viene da me assorbita come una specie di bollettino di viaggio, (montaliano talvolta, e comunque novecentesco) molto aperto alla condivisione altrui. Accanto alle immagini dei luoghi, appaiono pure i toni di un registro impegnato sul fronte sociale, se non proprio politico. Un acconsentire a diffondere la voce di tutti, l’equanimità integrale. A livello stilistico, numerose sono le allitterazioni e le assonanze, le quali sanciscono un ritmo musicale non ortodosso, seppure marcato da versi eterogenei (talvolta pregiati, a numerazione sillabica dispari, talvolta invece più lunghi e irregolari). Questo “In terza persona” obbliga quindi a viaggiare nel sali e scendi di un’altalena che comporta le folgori intimistiche (“Sei dentro di te e in ogni cosa…” … “Vedi il bianco negli occhi dell’inverno” … “Nudo è il viale. Tu di lana fino ai denti, gli canti le ossa …”), quanto le pontificali dichiarazioni logiche, di matrice metapoetica: due strade opposte –l’una afferente/creativo/immaginifica, l’altra efferente/gelificante e razionale- che credo siano le diverse facce di una stessa medaglia.

Gianfranco

 libri  GIARDINO IN POESIA
   Pomeriggio di versi e note

Presenteranno le loro poesie
Luisella PISOTTU
Luca MINGIONI
Presentazione di
Giovanni NUSCIS
Canzoni e accompagnamento musicale di
Luca CONTESTABILE
In collaborazione con
Collettivo Studentesco
Libreria Odradek

 Giovedì 12 luglio 2007

Ore 18,30
Giardini della Facoltà di Lettere e Filosofia
Via Roma/Via Zanfarino

“In vortice obliquo” di Luisella PISOTTU. Recensione

cedro

    In vortice obliquo è la prima raccolta poetica di Luisella Pisottu, nata nel 1967 a Sassari dove vive e lavora, novantadue componimenti suddivisi in tre sezioni (L’ombra del cacciatore, Passaggi e Acqua).

    Apprezzata la buona veste editoriale, già dalla copertina si presenta la poesia di Luisella Pisottu: La donna è un picco che scava dolente/fino a trovare acqua./Scava terreni argillosi, pietra/inviolabile/fango che non ci consuma./Fino a sé stessa. Natura terragna e verticalità – insistita, caparbia – di ricerca. Una dichiarazione d’identità, di appartenenza si vuole esplicitare in questi versi; e di ciò troviamo poi conferma nella dedica: A mia madre/alle mie figlie//alle donne che osano. Un aspetto fermo, imprescindibile, dunque, quella dell’identità  femminile, ma non solo; i versi e le parole ci paiono una scelta dalla valenza emotiva e programmatica nient’affatto casuale. In una terra di persistente matriarcato qual’è la Sardegna, così come la vita si trasmette di grembo in grembo potrebbe forse la poesia non farsi anch’essa – oltre che espressione di uno sguardo e di una sensibilità – veicolo di una tradizione millenaria ed ancestrale, di una percezione del mondo peculiarmente al femminile?  Ma si coglie in queste poesie pure un sentimento metafisico, una meditazione sulla vita espressa frequentemente con durezza e disillusione: vuoto di pietra/non si riempie con le parole (In ricordo); Mia vita, freccia scoccata/disincantata fuggi/mortale, orizzontale/a compiere sola il cammino (Il nostro centro); La vita che mi porto dietro,/feroce/tremito di vecchiaia (Sembra facile); Quando là, distesa/il corpo tra i vermi,/chiaro avrò il piano della vita, (Perché); Non mi aspetto niente/se non sopravvivere nella casella assegnata,/che non occupa spazio né tempo. (Barbone). Ricorrono in questi versi termini come trafitture, aculei, punture, tremito, ronzii, fattori “perturbativi” dell’esistenza – attraverso la pelle, punto di contatto e di confine tra l’esterno e l’interno corporeo – in aggiunta al “male” ad essa connaturato. Notiamo inoltre un bestiario, in queste visioni, che si fa spesso simbolo o allegoria: vermi, vespe, mosche, lepri, cavalli, gabbiani, fiere.

    Da alcuni componimenti desumiamo le ragioni, il senso dello scrivere poesia, per l’autrice: Ingenuamente tenera/la mia poesia appare//Come futuro bambino/nella fase d’embrione e  feto,/diviene anfibio, pollo e poi cane.//Infine, dalle sembianze umane/unico appare. (La mia poesia); e poi  in Vivere con la poesia, Scrivere, Finestre murate,  Il foglio bianco, Crisalidi e Poesia (Acqua calda mi contiene/ la poesia/sgorga dalla terra, si propone//socchiudo gli occhi, mi circonda/pienamente mi sostiene./Ritorno alla mia nascita/e più indietro/all’inizio del cammino,/quando morula tremavo,/con coraggio mi ancoravo/alla vita.). Nella fascinazione per “la grandezza delle idee” e per i “placidi …poeti, uomini solenni”, forse, il vortice che ha risucchiato Luisella Pisottu nell’avventura poetica e nel ritorno (o nello stazionare, ancora?) nell’amniotica “acqua calda” che la “contiene”, in quanto “la poesia sgorga dalla terra” e la “circonda pienamente”, con un   “ritorno (alla) nascita e più indietro all’inizio del cammino”.

     Tra i testi apprezzati: Silenzio, Braccati, Canto per l’otto marzo, Come carrozze, Il silenzio del cuore, Il nostro centro, Bianco, Anfibi, Donna, Primavera. 

    La scrittura di Luisella Pisottu è aspra, puntuta, dal tono sapienziale. Molto del suo sguardo, della sua esperienza di vita, della sua memoria ancestrale è qui trasfusa; spesso, con sintesi fulminea, epigrammatica, all’interno di un distico o di una terzina (Tatuati/gli amori vissuti/fuochi mai spenti (Emozioni); Sospesa la testa si perde/in vortice obliquo (Sabbia); Sei l’inchino/prima dell’applauso (Bacio); Timbri, datari di giovinezza/infido s’insinua il solco/sulla pelle (Lifting); Il silenzio del cuore/campanile senza campane,” (Il silenzio del cuore).

    L’avventura di questa prima esperienza editoriale disvela il frutto di una perlustrazione impietosa e per nulla, crediamo, indolore – nella dimensione esistenziale, contemplativa, immaginifica ed affettiva – ma proprio per questo, forse, catartica, da cui le scorie scivoleranno via, col tempo, e si ammorbidiranno i tratti, i contorni del paesaggio reale o interiore luminoso qui già presente, come presagio di un cammino possibile:

 

Il cedro

 

La punta di questo cedro sta

raggiungendo mete inaspettate.

Era un fuscello al centro del giardino.

 

E resiste e cresce questo cedro

e noi invecchiamo.

Sarà il nostro quadro, con cornice la finestra.

 

Noi

ammirando l’estro dell’eterno pittore,

sereni ci spegneremo.

    

 

Sassari, 7 luglio 2007

                                                                            Giovanni Nuscis

ScannedImage-3Luisella PISOTTUIn vortice obliquo

Il Filo, 2007 – collana Nuove Voci

Prefazione di Marina Paola Sambusseti

 

 

“Stato di vigilanza” di Gianfranco FABBRI – recensione di Antonio Fiori

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Lo stato di vigilanza cui allude (e invita) il titolo è insieme condizione naturale riscoperta e atteggiamento scelto, premessa di conoscenza. Il libro è diviso in cinque sezioni. Prima del radiodramma, raccoglie propositi, stati di grazia, presenze (‘L’alba, stamani, è sostanziale/ al giorno che l’alberga’; ‘Nebbia nei campi a dilatare/ l’onnipresente…si vive piano’; ‘Avvicendarsi al tempo,/che conclude il suo ciclo,/ è affidarsi al valore delle cose’; ‘Sei tu che gemi/nelle ossa di una tale/ morte apparente?’). E si chiude con una delle poesie più notevoli della raccolta: ‘Da quanti punti / mi osservi stasera…’.

In Presa di posizione si fa invece un discorso ondivago e rimuginante.

Gli oggetti, i sogni e l’altra vita è la sezione centrale, dove si pongono domande (‘Ci meritiamo ogni mattino/l’autentico miracolo che è l’alba?), si danno posizioni (‘Oggi mi sento altrove’, ’Mi evolvo nell’indecisione’), si racconta una donna (‘Altro giorno da donna;/stai nel letto, stesa come balorda’; ‘Oggi però sei “cosa” a mezza strada/…/in mezzo ai fuochi ultimi del vizio’).

In Un altro mondo, a caso si osa qualche consiglio e qualche conclusione (‘Al fiore è candido l’intorno/…/il verde è tranquillante’; ‘Evita la molta luce/nel primo pomeriggio/…/l’alba è una cosa, il sole un’altra’; ‘Dolcissima è la morte/ che ti porta i suoi doni al calor bianco’). Segue una sezione vagamente surreale, già nel titolo, La cosa detta amore è pressappoco fragola, dove si fa anche rivisitazione del già scritto (cfr pag.70  con pag.65). La raccolta si chiude con l’eponimo Stato di vigilanza. Qui le immagini nitide e gli inviti ineludibili (‘Ti prego, fuggi via con me/ nelle immediate vicinanze del silenzio’; ‘Piccolo paese/visitato dagli angeli./Vi scende la sera/ limpida d’arancia’) sono preambolo alla lucida sorveglianza che governa il riapparire della donna  (in ‘Piccole prose della sinapsi’ si allude al ‘risorgere di una nuova vigilanza’, in  ‘The end’ , poesia che chiude il libro, è descritta la manipolazione che subisce la donna senza nome, fino alla definitiva sconnessione).

Nicola Vacca, nella prefazione, coglie il senso profondo di questa raccolta: una poesia che nomina con ostinazione, che non può fare a meno ‘di intervistare la luce, di interrogare le cose dette, di auscultare i sogni’, con esiti che definisce di minimalismo metafisico.

Io credo che Gianfranco Fabbri dimostri qui rare capacità di controllo della scrittura e manifesti una cifra stilistica molto originale, dove la frammentarietà è segno voluto e il quotidiano materia sempre da scoprire.

  

Antonio Fiori

Gianfranco Fabbri

Stato di vigilanza

Prefazione di Nicola Vacca

Manni, 2006

 

Paolo Messina & “Rosa fresca aulentissima” di Marco SCALABRINO

MESSINA - copertina

   

Rosa Fresca Aulentissima, Poesie Siciliane, volume impresso a Palermo in 300 copie, è del 1985:

Ø     ventidue testi –

Ø     in scrupoloso ordine cronologico, tra il 1945 e il 1955 –

Ø     senza versione in Italiano, né note né glossario –

Ø     nel complesso poco più di duecento versi –

Ø     con accenti tonici per favorirne la lettura.

 

         A LA SICILIA. 1945. È un sonetto.

         Paolo Messina avrà per tutta la vita lunga frequentazione e dimestichezza con il sonetto. Nel suo saggio l’essere della poesia del 1990 egli annota: <la mia idea del sonetto come limite infinito della poesia, non solo in quanto metafora del poetare, bensì e più propriamente come struttura essenziale di ogni atto di poesia. Idea fondata sulla diretta esperienza, da una parte, e sulla riflessione estetica dall’altra, talché poi comporre un sonetto e intravederne la possibile perfezione poietica (il suo poter essere “bello e razionale”) diventano un atto solo. Obiezione corrente alla moderna, attuale praticabilità del sonetto è quella relativa alla forte restriction métrique ch’esso comporta: restrizione che impedirebbe un libero o più agevole approccio alla poesia. È invece proprio la rigorosa determinazione formale, una “porta stretta”, anzi chiusa, ciò che tenta (o dovrebbe tentare) ogni spirito avventuroso, il quale dovrà inventarsene la chiave, trovarla nella sua audacia intellettuale e nella sua forza d’animo, poiché, non appena avrà spalancato questa porta, egli sarà colto dalle vertigini, trovandosi improvvisamente a sporgersi sugli infiniti paesaggi dell’essere della poesia, quando scende a sostanziare le cose, ciò che ne conferma il fondamento ontologico. Sicché il limite (la limitazione formale), l’uomo e il mondo (cioè la concezione che l’uomo ha di sé e del suo mondo) si aprono agli “interminabili spazi” della libertà creativa. Non c’è d’altronde assetto poetico più calcolato che nel sonetto, “bello e razionale” nella sua struttura inalterabile, eppure aperta a tante audacie interne, equilibrio di techne e di poiesis: un insieme di proposizioni che asseriscono delle implicazioni (tra figure, simboli, metafore) che contengono delle variabili (accenti, rime, assonanze in funzione semantica): definizione che ricalca quella proposta da Bertrand Russell per la matematica. Rinunziare per una presunta emancipazione metrica al sonetto comporta quindi una immediata perdita di intensità e di afflato nei rapporti con lo spirito, che, come avvertiva senza perifrasi Hörderlin, è retto da leggi metriche.>                 

L’esordio della antologia condensa liricamente <le coordinate storiche – riporta Orio Poerio – dell’esperienza che fu alla base della sua formazione>: l’amore per la Sicilia (d’ogni senziu / trama amurusa), l’appartenenza ad essa (ddocu affunnu / li ràdichi), la nascita a nuova vita (nàsciu arreri) attraverso la <vuci> del dialetto (d’ogni lingua ciuri) e il conseguimento della chiave che apre il mondo: la Poesia.

SPIRANZA. Un speranza fanciulla, libera e spensierata che corre, gioca, canta; e coglie e deposita ai piedi del poeta <vrazza chini / di rosi majulini>.

Ritroviamo in questo secondo sonetto la puntuale applicazione dei precetti sopra enunciati, ma piuttosto che soffermarci su essi, preferiamo registrarne i toni di novità che albergano nel raddoppiamento delle parole omogenee.

<Il raddoppiamento – scrive Luigi Sorrento in nuove note di sintassi siciliana – o la ripetizione di un avverbio (ora ora, rantu rantu) o di un aggettivo (nudu nudu, sulu sulu) comporta di fatto due tipi di superlativo: ora ora è più forte di ora e significa “nel momento, nell’istante in cui si parla”, nudu nudu è “tutto nudo, assolutamente nudo”. I casi di ripetizione di sostantivo (casi casi, strati strati – nella nostra ipotesi: celu celu, spini spini) e di verbo (cui veni veni, unni vaju vaju) sono speciali del Siciliano. “Strati strati” indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di “estensione” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. “Cui veni veni” intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la estende dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente.>       

URA CA PASSA. 1947. La rivoluzione (fu proprio Paolo Messina ad adoperare questo termine, mentre Salvatore Camilleri aveva preferito il lemma: rivolta) si compie!

<Si pubblica a Catania nel 1947 – ribadisce il Camilleri – diretto da Giovanni Formisano, torcia a ventu, un settimanale con una rubrica di poesia siciliana curata da Aldo Grienti, dove appare la lirica URA CA PASSA, di Paolo Messina, primo e reale esempio di poesia dialettale moderna.> E sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989, incalza: <URA CA PASSA, del 1947, nata dall’ermetismo italiano, ma forse più direttamente dal simbolismo francese, dà inizio alla nuova poesia siciliana. Paolo ha 24 anni e si rende subito conto di ciò che è avvenuto.>

         In quindici versi liberi – Paolo Messina fu il primo ad adottare il verso libero e anche in questo sta la straordinaria novità -, stringatissimi, senza rime, nella concreta realizzazione del suo “strumento necessario”, nelle espressioni autenticamente siciliane, negli efficaci dispositivi analogici, simbolici, metaforici, nelle pregevoli invenzioni, nell’accostamento di suoni, nella coerenza ortografica … la felice, originale, lirica formulazione dei principi innovativi teorizzati. E, sbaragliati i vocaboli ricercati, reboanti, artificiosi, bandito ogni traccheggio del verso, cedimento vernacolare, italianismo, epurata la ridondanza di aggettivi, diminutivi, vezzeggiativi … le parole “quotidiane”: chiantu, ura, praj, ciuri, notti, erva. Parole, che nell’alchimia del Poeta si animano, acquistano significati che eccedono la loro semplice lettera; parole comuni che nella loro inusitata cifra compongono scenari irrefutabilmente unici, disegnano profili squisitamente singolari, assurgono a raffinato strumento espressivo con cui il Poeta esplicita la propria Weltanschauung, <l’arte – affermò Viktor Borisovic Šklovskij – restituisce una visione autentica del mondo>.

Pregevolissimo nella sua interezza – dimensione la sola che consente di carpirne l’austera bellezza – se ne riportano, solo a mo’ dimostrativo, taluni sintetici, intensi stralci: <iu m’acquazzinu di tempu, mi ridi la luna / e mi vesti di biancu, portu li giumma / d’un abitu dimisu / ‘n contraluci.>

PASSAGGI. <Na sira (eramu tutti a manciari ô Risturanti Shangai d’a Vucciria) ci apprisintai a prima manu d’un sunettu ntitulatu Passaggi. Mi taliaru – ricorda Paolo Messina in Puisia Siciliana e Critica – tutti alluccuti e fu Fidiricu Di Maria (misu a caputavula) ca rumpiu ddu silenziu dicennumi: Ora ci deve spiegare che significa. Paroli tistuali. Ma comu, ci arrispunnivi, propriu vossia mi veni a fari sti discursi? L’autri s’a pigghiaru a ridiri. E finiu ca ni mbriacamu.>

Episodio eloquente che la dice lunga circa la problematicità di interpretazione (della poesia e) di questo terzo sonetto che, peraltro, l’enjambement: ariusu / juncu, lenti / nuvuli, e l’anastrofe: si passa di salutu umbra, esteticamente connotano.

RISPIRU D’UN CIURI. 1948. Secondo esempio di verso libero.

Immediatamente dopo ogni grande passo è assai difficile ripeterne uno della medesima portata, bissare. La vocazione si consolida; l’ambizione di tentare strade nuove, più difficoltose, malsicure, faticose delle vecchie e, a conti fatti, più avare di riconoscimenti (ma questo forse non importa) persiste. E i risultati non mancano: <silenziu / crisciutu supra un jiditu, amuri ca passa / pi ’na vina di celu, mi sentu / ‘ntra lu pettu / un jardinu di stiddi.>

Gli altri, nel frattempo, che fanno? dove vanno? (anche questo non importa: la Poesia, si sa, è “esercizio solitario” e d’altronde – suffraga il Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1989 di Arte e Folklore di Sicilia – <bisognò aspettare almeno cinque anni prima che altri poeti maturassero quella rivoluzione, formale e strutturale, che era in atto>).

PRIMU DI MAIU. 1949. Terzo testo della nuova “ouverture” in tre anni.

L’occasione, la festa (già tristemente macchiata di sangue a Portella della Ginestra nel 1947) del 1° Maggio. La guerra, con il suo opprimente, irrisolto retaggio di morte, distruzione, sofferenza è appena dietro l’angolo, la sudditanza culturale, sociale, economica da cui decantano la miseria, l’ingiustizia, il malaffare sempre lì a prenderti per la gola, a sgomentarti, a reclutarti. Ciò malgrado, quel primo di Maggio 1949 vola sulle ali di un passero <nni la manica aperta di lu ventu>, pulsa di ricostruenda collettività, avviluppa, in un vorticoso caleidoscopio, gli uomini <li vrazza / turciuti di la fatica / abbrazzati a la terra> e le cose <li banneri, li roti, li ciminii, li pilastri di li casi, li rimi di li varchi, l’àrbuli di li bastimenti, li spichi di furmentu.>

         PARTIRI. 1950. La metafora è nella testa (e non nella penna)!

         Possono apparire adesso – il verso libero, il simbolo, l’enjambement, lo scavo interiore … – conquiste scontate, ovvie, abusate. Ma – immaginiamo – quanti studi ed esitazioni, prove e assidue verifiche, intralci e tentazioni di mollare, allora, per chi ebbe a trovarsi nella esaltante, e al contempo scomoda, sua posizione.

         <Al poeta – ebbe a dire Giuseppe Zagarrio – compete lo stesso dovere-diritto dello scienziato in laboratorio: quello della ricerca, la più ampia possibile, la febbrile consapevolezza di essa, la speranza continuamente gratificante di cogliere ed esprimere qualcuna delle spinte che il collettivo inter-soggettivo opera di continuo dalla sua massa corale e anonima>.

         E Paolo Messina ricerca con consapevolezza la parola nuova, sperimenta con tenacia l’espressione che implichi compiutezza di forma e contenuto, s’ingegna a che l’applicazione sia autenticamente siciliana: <ciuriu lu molu di palummi, nudda lacrima / vagna la corda ca mi va muddannu>. E, non ultimo, si prodiga affinché l’esito si collochi nella cornice della (sua, perché scelta, voluta da lui) disciplina: la coerenza ortografica del dialetto, il criterio semantico di trascrizione di esso, l’impiego delle preposizioni più gli articoli; cornice, pertanto, entro la quale non possono insistere i segni diacritici (tranne l’aferesi in: ‘n, ‘na, ‘ntra, ‘nzina), i raddoppiamenti consonantici iniziali, i nessi fonici.

         La chiusa, <‘nzina ca lu silenziu / mi jetta ‘n coddu / ‘na ghirlanna d’acqua>, ci impone, nella sua mirabile singolarità, una riflessione. Come fosse vera, la ghirlanda d’acqua ci coglie infatti alla sprovvista e quasi ci scansiamo per non esserne bagnati – chiunque di noi del resto d’impulso reagirebbe nello stesso modo; ma ancor più ci strabilia, perché insospettabile, colui/cosa ce la scaraventa addosso: il silenzio.   

         Se URA CA PASSA è stato l’archetipo, PARTIRI ne è stato il degnissimo seguito.

CHRISTUS. Pasqua 1952.

CHRISTUS, in maiuscolo, scrive Paolo Messina (come gli Ebrei a tutte lettere maiuscole scrivono JHWH, il tetragramma sacro per Jahvè) e considera che <di tannu / tu / ddocu arresti / ‘n cruci>.

Ma la religiosità rimane ritenuta, resta racchiusa nella sfera dell’intimo, non spicca il volo (della trascendenza). Il CHRISTUS è un uomo che muore, un uomo che <finiu di mòriri> con il conforto di <fimmini (chi) vannu e vennu (In the room the women come and go talking of Michelangelo, by Thomas Stearns Eliot) purtannu unguenti, linzola e lamenti>, e decisamente terreno è il teatro della rappresentazione: <arbulu, quartari d’acqua, gruppa / ca nuddu chiantu strogghi, sangu spantu>.

Il dialetto siciliano si riaccosta per un attimo, <consummatum est>, alle sue origini (a buona parte almeno di esse): il Latino. Nel naturale confronto e dalle valutazioni più complessive che ne scaturiscono, ci rendiamo conto di quanto la parentela tra i due sia tuttora stretta e di come esso abbia, tutto sommato, assai bene retto l’avanzare dei secoli.

BUCHÈ. Cinque endecasillabi non rimati, in cui si rinviene una delle rarissime eccezioni quanto al raddoppiamento iniziale della consonante, quella dell’avverbio: cchiù.

Il buchè che un Siciliano offre all’amata <li cchiù bianchi manu di lu munnu> non può che essere di <limpi zàgari> (i fiori bianchi dell’arancio simbolo di purezza) e il loro ciauru trattenuto <‘nzina a quannu stasira / idda trimannu strogghi lu nastru>.

LU CHIANTU. Inizi del 1953. Paolo Messina ha già (appena) trent’anni.

Il silenzio (degli addetti ai lavori, della stampa, della critica) è assordante!

I risultati – tranne che nella percezione di pochissimi sodali – tardano e così gli auspicati effetti in ordine alla poesia e, per essa, alla realtà, alla “questione” siciliana, che è politica, oltre che sociale, culturale, economica. Ciononostante l’ufficio continua.

LU CHIANTU propone un positivo incipit <Cadu nni lu margiu /di lu me chiantu> e quindi termini soluzioni, ambienti ancora interessanti, benché già sperimentati: biancu fazzulettu / di luna, li pampini s’asciucanu / lu risinu …

Viene da chiedersi: <Quali / pena ‘nchiui pizzi ed ali> al Messina tanto da far sì che egli si rivolga al sole e lo ammonisca: <dumani lu chiantu / a tia puru t’abbinci>?

Un incidente in itinere, la stanchezza accumulata, la repentina sfiducia nei propri solitari mezzi? O non piuttosto il clima, il contesto di indifferenza, la trama di avversione (<un jornu vinni ‘n Palermu na diligazioni di pueti catanisi pi dirimi davanti a l’amici ca iu stava ruvinannu a puisia siciliana e ca l’avia a finiri>) che montava in direzione di quella che appariva essere una fuga (troppo) elitaria?

ZABBARI. Non leggevamo un sonetto (ma sarà l’ultimo della raccolta) dal 1947.

Un progetto però, quello del sonetto, solo rimandato. Paolo Messina infatti auspicò, con un appassionato intervento del 1989 riportato sul MANIFESTO della nuova poesia siciliana, il ritorno al sonetto <che può ancora oggi educarci alla libertà formale, in attesa che il trophaèum (cioè la sostanza poetica) riacquisti la forma del nuovo>, e produsse poi, rispettivamente nel 1990 e nel 2000, il saggio l’essere della poesia e il volume, in Italiano, sonetti. La sfida (sostanzialmente solo a se steso e perciò eternamente all’umanità) è quella di dimostrare che non la formula, non tanto la struttura del sonetto era (è), ormai, carente, logorata dai secoli, “cotta”, ma che la crisi era (è) in chi scrive, che la vena che si è prosciugata è quella dei poeti, di coloro che ne dovrebbero rinverdire i fasti e lo praticano invece con sufficienza. E allora, bene: la scommessa è vinta (bellissima l’icona <lu lentu / suli>, come se fosse il sole – ve lo figurate! – a procedere mestamente e non già l’uomo, specie quello d’area mediterranea, a causa delle condizioni di calura, spossatezza, lentezza, ora sì, che esso determina).

La zabbara <c’adura di nenti> evoca una Sicilia di <arsura>, di brutture <ciuri ladiu>, di rassegnazione <disidderiu stancu> che pure esiste. Non solo bellezza, quindi, profumo, passione ma, altresì, le tante situazioni <senz’amuri>, <cu li centu spini>, di solitudini <puntuti, silinziusi, trimulenti>. E nondimeno da Paolo Messina, dopo URA CA PASSA e PARTIRI, è lecito aspettarsi dell’altro, di meglio, di più.

IL 1953 si chiude con CANZUNA DI L’ACQUA.

Quattordici settenari che prendono in prestito i dettami del sonetto (tranne chiaramente l’endecasillabo). È l’unico prototipo del genere. Se ne apprezza la costanza mai sopita di provare, la visione, una certa magia di rapporti. Ma si intuisce l’ansimare della salita, il peso di andare avanti senza nessuno – come nel ciclismo – a tirarti la strada, il confidare nella discesa che sbuchi ritemprante dopo l’ennesima curva e nella borraccia fresca d’acqua; si coglie la “strategia” di proseguire per piccole (!) tappe, per traguardi raggiungibili che possano condurre dalla sperimentazione alla esecuzione di nuovi significativi esiti. La tentazione è quella di mollare un attimo i pedali: (<frischizza ‘n contraluci> richiama subito alla mente l’<abitu ‘n contraluci> di URA CA PASSA) e, francamente, preferiamo ormai quelle altre “cose”, quelle “cose” che hanno fatto breccia nei nostri cuori, nei nostri animi, nei nostri gusti: quelle “cose” che hanno segnato il “punto di non ritorno”.     

TRADIMENTU. È del 1954 il segmento più nutrito (sette testi) della silloge.

Assieme con CHRISTUS e, vedremo, col testo che subito appresso segue, una sorta di trittico che attiene alla spiritualità dell’uomo.

Lampanti i riferimenti alle vicende che culminarono nel più famoso tradimento avvenuto un Venerdì che precedette la Pasqua, là in terra di Giudea e al misfatto che si perpetra, come sempre, al <cantari / pi la terza / vota> di <lu gaddu>. Si conferma la dimensione privata e terrena (filara d’umbri / sipali / jardina ‘nchiusi) della spiritualità sebbene nell’accorta trasfigurazione praticata dal dialetto: <un occhiu sulu apertu / e adduma, di ‘n celu / ‘na pinna bianca di palumma.>

MADONNA. I toni – se non la veste – sono quelli della preghiera.

La madre di Dio è invocata a proteggere <stu santu amuri, urdutu / cu manu bianchi>, a distendere le sue braccia bianche come <ponti nni lu scuru / di la terra.>

L’aggettivo bianco (pressoché nella assenza di ogni altro colore) – insieme al sostantivo “silenziu” – è quasi il vessillo della poesia di Paolo Messina: bianchi crini, mi vesti di biancu, pi lu sonnu biancu, calici biancu, ali bianchi, li cchiù bianchi manu, biancu fazzulettu, lu pettu biancu, na pinna bianca, cinniri bianca. Un recondito anelito di armonia? di pace? di misticismo?

Ogni conquista diventa patrimonio comune: se ne appropriano gli altri poeti, ma persino coloro che per primi l’hanno raggiunta la reiterano – come fosse un bel gioco dei bambini – al fine di metabolizzarla, consolidarla, definitivamente acquisirla.

CARRETTU SICILIANU. Inanimato legato di un consorzio umano rurale, arretrato, (apparentemente) folcloristico <tuttu roti / cianciani e giumma>, il carretto approda, in una sintassi pervasa da talento e da laica pietas, ad <arruzzòlu baggianu di culura>. Ma in questa terra di <occhi nivuri / manu tradituri / friddi raccami / petti addumati>, la jumenta, la Sicilia personificata, la <canzuna / (resa) muta> dalle secolari profanazioni, ignominie, angherie subite, <supra la munta dura> morde il freno e <ciara l’umbri>, nello struggimento di affrancarsi dall’amaro giogo <di l’asti>.

MARI GRANNI. In quel <ora tentu> la chiave del componimento: il “sogno” recuperato. Il sogno in cui credere e per cui inseguire ancora la vita <li vrazza longhi di li strati> e, per inconfutabile simbiosi, la Poesia, malgrado <li passi chini di gruppa, la frunti / china di silenziu>.

Un componimento da leggere con dedizione, condiscendenza, riguardo alle pause, allo scopo di assaporarne la liricità, penetrarne i gradi di invenzione, condividerne la felicità di realizzazione. Un convinto plauso a uno tra i testi migliori della silloge, di cui si riportano i versi conclusivi: <Di li banchini di li nuvuli / jetta lenzi lu suli / nni lu mari granni di lu munnu. / Ridu dintra mia / ca li potti / vìdiri ‘n tempu.>

ASPETTU D’ESSIRI IU. Il dado è tratto!

MARI GRANNI ne è stato il testo seme, l’anticipazione: la <vuci aperta> di questo riprende la <aperta vuci> di quello, l’<astrachi di la sira> riecheggiano <li banchini di li nuvuli>. Ma qui la consegna è vissuta con la certezza del (futuro) compimento, l’attesa, <aspettu>, è solamente in ordine alla circostanza, nel convulso nostro vivere, in cui ritrovare sé stesso, ricongiungersi metafisicamente, integralmente a sé stesso, <essiri iu>, giacché quel tempo di <scriviri nni la manu addummisciuta / di lu silenziu / l’ura ca di sempri / va sunannu pi mia / a lu roggiu addumatu di la luna> è assiomatico, è solo da venire. Anzi, nella lirica attuazione, esso è già scoccato.

ASPETTU D’ESSIRI IU è la consacrazione di Paolo Messina. Se pure egli non dovesse (come di fatto avverrà nel giro di pochi mesi) più scrivere poesia siciliana, URA CA PASSA, RISPIRU D’UN CIURI, PARTIRI, MARI GRANNI, ASPETTU D’ESSIRI IU e, presto, AUTUNNU contraddistingueranno indelebilmente la stagione di Paolo Messina Poeta.

PISCI RUSSI. Il 1954 va in archivio con una divinazione: <ju puru / ci dissi addiu / a lu chiaru lippu di la vuci>.

Siamo agli sgoccioli; Paolo Messina lo avverte. Sappiamo adesso che (con IL MURO DI SILENZIO, nel 1959) un altro grande interesse prevarrà: il Teatro.

È da recepire, questo testo, anche in tale ottica? E se sì, perché? Perché questo abbandono? I risultati individuali – abbiamo appurato – vengono. E allora? Allora ciò non basta. Non basta più. Carmina non dant panem, si sa; ma neanche, nel nostro caso, gratificazione (la pubblica s’intende), quella della “grande” critica (il Vann’Antò, nel 1957, pur avendo egli colto il segno del mutamento, la modernità di quegli esiti stilistici e formali, definirà neòteroi – smaniosi cioè di novità e riforme – i nuovi poeti suoi conterranei) e persino i compagni di “processione” (eccettuati quelli di nicchia) mostrano resistenza, diffidenza, ostilità, non riescono (come la volpe dell’uva di Fedro) ad “afferrare” e cercano dunque di fare calare il silenzio, di ricondurre al minimo i progressi altrui.

Era (è) difficile condividere l’intimo tumulto di Paolo Messina, secondarne l’urgenza a volere essere innovativo, l’anelito a volere creare poesia siciliana con spirito, propositi, espressioni, situazioni, estetica siciliani?    

         CANZUNA D’AMURI. Ma, <Vuci, ca mi cusi / un sonnu sapituri, cusimi un lettu / a lenti ‘ncimi cu li to capiddi / cògghimi tuttu / nni lu to jiditali>. Un accorato esseoesse alla poesia, con la quale a breve si consumerà il distacco, ma dal cui ventre fecondo stanno pure già scaturendo, nel solco del Rinnovamento, le cose migliori di poeti quali Ugo Ammannato, Miano Conti, Antonino Cremona, Aldo Grienti, Carmelo Molino, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro.

ARBULU. Il 1955 (cinquant’anni or sono) segna con le tre ultime poesie la fine, per espressa sua volontà, della parabola pubblica del Poeta Paolo Messina.

C’è tutto Paolo Messina in questi ventidue componimenti? in questi poco più di duecento versi? C’è da giurare di no! Come pure è facile assai profetare che non dell’intera sua produzione si tratta quanto di una drastica selezione. E nondimeno, tant’è.

Il fatto che non le avesse pubblicate prima in una raccolta organica sottintende l’evenienza che altre prove sarebbero potute arrivare? E se no, perché non pubblicarle allora? E ancora, nel 1985, trent’anni dopo, perché le ha rese pubbliche? Dobbiamo, beninteso, essergliene riconoscenti, perché queste testimonianze, per la cultura, per la poesia, per la storia siciliane, assolutamente non andavano perdute, ma perché fare trascorrere un così lungo lasso di tempo? Gli animi si erano, forse, placati su tutte le querelles che hanno “accompagnato” quel tratto del nostro passato? Era unicamente giunto il momento “adatto” per divulgare quei suoi esiti? Il pubblico, le coscienze, la critica della Poesia erano finalmente, nel 1985, maturi, formati, acconci a ricevere, ad elaborare, a suffragare quella esperienza? Comunque sia …  

ARBULU. <Lu virdi vinu> e <sdivaca nìdira d’occhi>: due nuove invenzioni. 

AUTUNNU. Il canto del cigno; un vero altro masterpiece!

C’è da leggerlo e abbandonarvisi, lasciarsi, senza resistenza alcuna, vincere dall’estro evocativo, sedurre dalla lirica mestizia, sorprendere dalla crudezza introspettiva. Il suo confessarsi <senza nomu e senza facci / comu mi piaci essiri>, ci coinvolge emotivamente, ci trascina nei meandri di quel nichilismo senza <volu di banneri / né lustru di cannili> e ce ne rende toto corde partecipi. Ma egli sente, percepisce (noi sappiamo) che la <palumma bianca> della Poesia e quegli <sbardi di pampini> lo porteranno, un giorno, <luntanu>.   

VERSI PI LA LIBIRTA’. <Ammanittati li morti> è la sintesi creativa e provocatoria d’un componimento forte, prorompente impegno etico-sociale.

Ultima “pagina” di Paolo Messina idonea, in chiusura, a farci rimarcare che nell’intero corpus della silloge sono totalmente assenti gli “interni”, le relazioni umane dirette: tutto è ambientato nella Natura, che il poeta elegge a luogo dove il suo stato d’animo si trasfigura e assurge a globo trasparente dentro e attraverso il quale ogni cosa esiste e trova la sua ragion d’essere. 

 

Per chi volesse ulteriormente approfondire, volesse ancora “scrafuniari”, proponiamo il raffronto tra i testi: ASPETTU D’ESSIRI IU, RISPIRU D’UN CIURI, PRIMU DI MAIU, nella versione del 1957 dell’antologia Poeti Siciliani D’oggi e nella stesura (a noi più vicina nel tempo) del 1985 di Rosa Fresca Aulentissima.

Calaciu diventa, ora, calici, vagnau, ciminija e fatija rispettivamente vagnò, ciminia e fatica, <li funnamenta di li cità> mutano in <li funnamenti di lu munnu>.

Ma sono in ASPETTU D’ESSIRI IU i riadattamenti più rilevanti: <ca m’aspetti> diventa <ca m’afferri>, scompare l’aggettivo <lijata> che appesantiva il sostantivo <vuci>, <e jsannu li vrazza> diviene <pi jisari li vrazza>, <lu dammusu di lu celu> – semplicemente – <lu celu> e tre versi vengono contratti in uno: <stanchi di sti nòliti>.

“Smania di novità e riforme”? O non invece l’assillo dei veri poeti di non considerare mai del tutto licenziata la propria opera, di tendere ad una costante opera di revisione alla luce di emendate sensibilità, accresciute conoscenze, sempre nuovi fermenti, di compiere una incessante auto-analisi stilistica ed ideologica al fine di “sgriciari la pirfizioni”?

Paolo Messina agognava la “terra promessa”, e l’ha vista, l’ha raggiunta, l’ha calpestata. Ma egli – e dopo di lui pochissimi altri – l’ha solo lambita, sfiorata. E quella è un continente smisurato, le cui vastità, meraviglie, i cui orizzonti danno le vertigini, i cui tesori inebrianti e inesplorati sono tuttora disponibili a chi, con umiltà, purezza d’animo, amore saprà coglierli.

Quando il nuovo star-gate?               

 

                                                              Marco Scalabrino

 

“Antonino Cremona” – di Marco SCALABRINO

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La notizia della scomparsa di Antonino Cremona (Agrigento 1931-2004) si diffuse nell’Autunno tra gli amici e negli ambienti della poesia dialettale siciliana.

Sedato lo sgomento, acquisito il dato della ineluttabilità della morte, la prima autorevole sentita testimonianza è stata la “Lettera per Antonino Cremona” di Salvatore Di Marco, datata 10 Febbraio 2005.

“Lettera”, pubblicata quindi sul numero 78 de la nuova tribuna letteraria di Giacomo Luzzagni, di cui si riportano alcuni estratti: <Il fatto è che questa diceria della tua morte (e ti prego di smentirla) risale al 25 Settembre dell’anno scorso con tanto di necrologio sui giornali. Anch’io lessi a suo tempo, ma vai a fidarti dei giornali! Io penso, infatti, che se tu fossi morto, la città di Agrigento ti avrebbe in qualche modo commemorato. E invece, dal 25 Settembre 2004, ogni mattina Agrigento si sveglia e dice al mondo: “Niente di nuovo, non è successo nulla di rilevante”. Se muore un personaggio come Nino Cremona, poeta di razza e di lunghe stagioni, filologo e scrittore, critico letterario e intellettuale di pregio, Agrigento sicuramente avrebbe versato lacrime sincere. Un Personaggio come te, caro Nino, non può morire nel silenzio generale, soprattutto in quello crudele della tua terra. Perciò dico che se tu fossi veramente morto me l’avresti comunicato.>

 

Il convegno di studi avente per tema l’opera di antonino cremona e il novecento siciliano si è svolto il 27 Gennaio 2006 ad Agrigento. Relatori: Sergio Spadaro, Giovanni Occhipinti, Antonio Liotta e Salvatore Di Marco. E giusto dalla relazione di quest’ultimo, l’anima girgentana nella poesia dialettale siciliana di antonino cremona, pubblicata nel 2007 dalla associazione culturale “nino martoglio” grotte ag, e dal volume lettere per un poeta, carteggio Salvatore Di Marco – Sergio Spadaro su Antonino Cremona e altre carte, edizioni accademia di studi “cielo d’alcamo” 2006, traiamo gli appunti a fondamento di questo elaborato.

 

Leonardo Sciascia, avendone apprezzato gli esordi <dal 1952 ha cominciato a scrivere poesie nel dialetto agrigentino in cui la vocazione lirica si accompagna ad una costante e acuta vigilanza critica>, curò che Antonino Cremona entrasse a far parte (nel Giugno 1953) della redazione de il belli. E nel Giugno 1954 su il belli, il bimestrale di letteratura dialettale fondato e diretto in Roma da Mario Dell’Arco, apparvero tre liriche di Antonino Cremona, lamentu pi la morti dô me sciatu, li canzuna e lu scantu.

 

occhi antichi è la prima opera di Antonino Cremona, portata alle stampe quando ancora non aveva compiuto i venticinque anni di età. È la sola silloge dialettale che egli abbia prodotto (dopo infatti non volle più scrivere poesia in dialetto – tranne che per talune traduzioni – sostenendo semplicemente che non ne avvertiva lo stimolo): una raccolta di diciassette liriche, pubblicate nel 1957 per le edizioni Sciascia di Caltanissetta, scritte tra il 1953 e il 1954; alcune <vergate su carta igienica perché me n’era finita ogni altra.>

Tutte e diciassette le liriche di occhi antichi sono state poi riproposte ne l’odore della poesia (Sciascia, 1980), edizione nella quale è stato aggiunto un diciottesimo testo un mortu, del 1953, inizialmente incluso nella antologia POETI SICILIANI D’OGGI, curata nel 1957 da Aldo Grienti e Carmelo Molino, Reina Editore in Catania, e progettata e realizzata allo scopo di tirare una sorta di bilancio dell’attività intensa di promozione del rinnovamento della poesia dialettale siciliana del dopoguerra di cui erano stati protagonisti un gruppo di poeti palermitani e un gruppo di poeti catanesi.        

Le liriche di Antonino Cremona presenti nella antologia POETI SICILIANI D’OGGI sono: occhi antichi, la pena, un mortu e li pinzera. Antonio Corsaro, che ne redige introduzione e note critiche, nei suoi riguardi così si pronuncia: <Antonino Cremona possiede una conoscenza critica dei problemi che oggi si dibattono sulla corrente dialettale moderna e si occupa di questioni filologiche con risultati degni d’attenzione. Questa sua base di cultura non frena però l’irruenza dei sentimenti, anzi gli giova benissimo a controllare gli interessi della sua poesia.> Importante inoltre la sua affermazione: <I dialettali non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale> poiché coglieva uno dei motivi centrali del movimento.

E a sostenere quasi questa ultima asserzione, Gian Luigi Beccaria, in letteratura e dialetto, editore Zanichelli 1983, ribadisce: <Nel corso dei secoli la letteratura dialettale non conosce eclissi salvo che nel Rinascimento. L’esperienza storica più complessa è negata a quella letteratura. Ciononostante non è affatto letteratura subalterna di interesse locale. Coesiste, con pari diritto, accanto alla nazionale con la quale forma cordiale e ricca unità, feconda di scambi.>

 

Il poeta e letterato Vittorio Clemente, nel 1957, commenta: <La cultura del poeta, lo studio dei testi, il suo gusto lo hanno portato a scoprire valori e bellezze mai prima sospettati nel dialetto. Poesia vera siciliana e non in siciliano.>

Felicissime altresì le considerazioni di Giuseppe Angelo Peritore: <L’uso del dialetto in questi componimenti è la parlata di ogni giorno, scavata nel vivo della pietra, nel dolore e nella passione amorosa, nella sofferenza della storia e delle idee. Una particolare morfologia assiste Cremona nella creazione dialettale; la pagina gli è nata nel suo dialetto agrigentino non in un siciliano generico e compromesso.>

Vincenzo Di Maria, nel 1971, segnala alcuni aspetti illuminanti della scrittura dialettale del poeta agrigentino: <La parola subisce certamente la distillazione più oculata e severa, l’empito viene concentrato sino a prosciugarsene d’ogni umore superfluo.> E il volume II di ANTIGRUPPO 73 ideato da Nat Scammacca e Santo Calì e introdotto dallo stesso Di Maria offre due testi di Antonino Cremona: a la sagra di li ménnuli sciuruti e lamentu pi la morti dô me sciatu.

Pietro Amato inoltre, nel Maggio 1977, riconosce, nel dialetto di occhi antichi, il <girgentano nativo> egregiamente <acculturato nello scrupolo filologico e accresciuto nella invenzione linguistica.>

Il MANIFESTO della nuova poesia siciliana, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989, a cura di Salvatore Camilleri, pubblica quattro componimenti di Antonino Cremona, s’annivisci garcìa, godot, li pinzera, occhi antichi, e una breve chiosa: <In termini poetici, Antonino Cremona è un anarchico, un irregolare, un cavallo che non soffre freno. È stato uno dei primi a rompere con la tradizione.>  

Antonino Cremona venne antologizzato nel volume il dialetto di poeti, Edizioni Piovan del 1988, a cura di Giacomo Luzzagni, e in seguito nei due volumi poesia dialettale dal rinascimento ad oggi, a cura di Giacinto Spagnoletti e Cesare Vivaldi, Garzanti Editore 1991, in cui venne definito <autentico poeta nel panorama dialettale degli ultimi anni>.

Fu uno dei protagonisti di quel movimento del secondo Novecento denominato Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana, che, sottolinea Salvatore Di Marco, è storia interessante di idee e di poeti, di mutazioni culturali e inquietudini sociali, di sperimentazioni e di esiti anche importanti però rimasti sconosciuti a chi ha ritenuto che il solo pannello solare capace di dare nuova energia alla letteratura siciliana dialettale fosse quello esclusivo di Ignazio Buttitta, è ciò semplicemente perché lo si trovava già collocato più in alto degli altri.

 

Antonino Cremona privilegiava le coordinate di un testo poetico, ritenendo che <il testo è il suo stile, mai il suo argomento, giacché il contenuto viene determinato dalle esigenze della scrittura.> E se accadde l’inverso, <non si avverte nemmeno l’odore della poesia.> Soleva dire che come poeta amava <esprimersi più che comunicare>, e ammetteva che la scelta dialettale era motivata dalla <accortezza di esprimere i propri sentimenti e i propri concetti nel modo più acconcio alla sensibilità.> Volle scommettere adottando il “girgentano” (un “proprio” girgentano) pur sapendo bene che Alessio Di Giovanni lo aveva stigmatizzato come <la via più spiccia> (<Due vie s’aprono oggi ai degni cultori del nostro dialetto: o scrivere nel vernacolo natio o seguire, rendendola più moderna, più colorita e più mossa, quella nostra vecchia e scaltrita lingua siciliana. I nostri poeti e drammaturghi contemporanei ha seguito la via più spiccia scrivendo quasi tutti o in palermitano o in catanese o in agrigentino>, Alessio Di Giovanni nel saggio del 1896 Saru Platania e la Poesia dialettale in Sicilia), e questa fu la ragione – insieme al suo fisiologico rifiuto di associarsi a gruppi e scuole letterarie – per la quale egli non volle mai essere incluso organicamente nel Gruppo Alessio Di Giovanni, al quale tuttavia lo legarono sempre sia comuni e condivisi progetti di rinnovamento letterario, sia forti e duraturi sentimenti di fraternità (specie con Pietro Tamburello e Salvatore Di Marco).

La “lezione” tenuta all’Istituto di italianistica dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in data 11 Aprile 2003, ci aiuta a intendere più compiutamente il pensiero di Antonino Cremona: <Ai sentimenti sostituisco le sensazioni, ai valori preferisco le virtù, la morale non mi garba perché tendo all’etica. Rinunziando a concetti che hanno del molliccio, dell’appiccicoso, preferisco la limpidezza luminosa di quanto è netto. Oggettivizzo quanto più possibile. Ho fatto un lungo, faticoso, dolorante, percorso dall’io al tu e al noi sino a pervenire magari a una assenza grammaticale del soggetto.>

Componente fondamentale della sua personalità – annota Sergio Spadaro nel saggio l’espressionismo mediterraneo di antonino cremona – era la sua ironia, che egli faceva discendere direttamene dal suo conterraneo Empedocle, del quale aveva tradotto le purificazioni. Antonino Cremona al riguardo riferisce: <Studiandolo, mi sono rafforzato del suo pacifismo, dell’ira laica avversa ai sacrifici, della sua ironia e autoironia, della sua contrarietà assoluta alla pena di morte. L’ironia non è solo un modo di resistere ma pure uno strumento di conoscenza. L’autoironia è una possibilità di autoispezione, per conoscere se stessi e per difendersi da se stessi.>  

 

Occhi antichi è un’opera significativa della poesia dialettale del secondo Novecento siciliano. I temi protagonisti sono la memoria amorosa, le tensioni della nostalgia, il segno dei destini ultimi dell’uomo contemporaneo e delle sue sofferte futilità, la presenza di figure di uomini e di donne il cui richiamo insiste sulla amarezza della loro condizione sociale. Se ne riportano, in calce, alcuni componimenti nella traduzione dell’Autore, tra i quali a la sagra di li ménnuli sciuruti che fu il primo (<su commissione di Mario Dell’Arco>, precisa il poeta) e l’omonimo occhi antichi.

La memoria di Nino Cremona, poeta dialettale, autore teatrale, saggista e critico letterario, redattore di riviste italiane ed estere, merita di essere onorata, come convenientemente hanno fatto Salvatore Di Marco e Sergio Spadaro nei saggi l’anima girgentana nella poesia dialettale siciliana di antonino cremona e lettere per un poeta sopra menzionate. E ciò nel tentativo di smentire lo stesso Antonino Cremona che, a proposito del poeta niscemese Mario Gori in una lettera del 21 Aprile 1997, aveva amaramente rilevato che <la Sicilia è un cimitero di dimenticati>. 

 

a la sagra di li ménnuli sciuruti

 

Suli ammatina supra di li mennuli

e cantanu l’oceddri a tutta l’ura.

Lu viddranu, curcatu nô carrettu,

s’annaculìa. Cangia la vintura

pi un sciuri di li mennuli all’oricchia?

Pinniculia, tuttu stinnicchiatu

(la vampa di lu suli ca lu scorcia);

senti li forti strepiti d’Orlannu

câmmazza i saracini e ca Rinallu

suspira e chianci, biancu arrussittatu.

Cu la mula parata a festa granni,

lu carrettu lucenti cu li pinni,

a passu a passu mezzu u pruvulazzu.

E la mula nun senti chiù la via.

Ci penni la cuperta mmezzu i gammi.

Li mennuli e l’olivi, tornu tornu,

ci fannu strata. Sbatti ni un pitruni,

isa la testa, curri; sata, abballa,

“Stoccati u coddru”, a zotta a vastunìa.

Vittivìtti, ca sona u mancarrùni.


Nella sagra dei mandorli fioriti. Sole di mattina sopra i mandorli / e cantano gli uccelli a distesa. / Il villano, coricato nel carretto, / dondola. Muta la ventura / per un fiore di mandorlo all’orecchia? / Ondeggia, tutto sdraiato / (la vampa del sole che lo scortica); / sente i forti strepiti di Orlando / che ammazza i saraceni e che Rinaldo / sospira e piange, bianco e imbellettato. / Con la mula parata a festa grande, / il carretto lucente coi pennacchi, / passo passo nel polverone. / E la mula non sente più la via. / Le pende la coperta tra le gambe. / I mandorli e gli olivi, torno torno, / le fanno strada. Sbatte in un macigno, / alza la testa, corre; salta, balla, / “Rompiti il collo”, la frusta la bastona. / Presto, che suona il marranzano.

 

 

un mortu

 

Ora ch’è mortu si mancia la terra.

La malasorti lu fici piniari

senza lu vinu

e un pugnu di furmentu

e na mnuzza ca coci a minestra.

Morti di longu cu li fasci nivuri

ci fici li banneri nâ la porta.

Finì lu diavuluni e la Madonna,

ca s’arriposa

ad occhi chiusi.

Li figli ca nunn’appi nun li cerca

vermi vermi, ca prima li tantiàva

nê mura dô pagliaru; e nun la canta

la zappa ntra li timpi î malandata.

Li caddi di li manu arripudduti,

e li nasu affilatu. Bona paci.

 

Un morto. Ora ch’è morto si mangia la terra. / La malasorte lo fece penare / senza il vino / e un pugno di frumento / e una mano che cuoce la minestra. / Morte a lungo con le fasce nere / gli fece le bandiere nella porta. / Finì il Diavolone e la Madonna, / ché riposa / ad occhi chiusi. / I figli che non ebbe non li cerca / fra i vermi, ché prima li annaspava / ai muri del pagliaio; e non la canta / la zappa fra le zolle della malannata. / I calli delle mani / e il naso afflato. Buona pace.      

 

 

occhi antichi


Resta nall’ortu l’ecu dê canzùna

(comu t’accùpa stu suli, st’arsura

ca conza li canti dê griddi)

li rami di l’àrbuli pénninu nterra.

Cca, fumannu li pinzéra,

sugnu na lampa ca s’astuta.

Cuntu li pidàti ni sta càmmara bianca,

cu i manu nsacchetta.

Ma ti viu lìbbira e nuda.

Muta

tinni isti. E ttu gattìi

a cu ti teni mmrazza e ‘un ti canusci.

Siddu arrìdi. Ca forsi ti spunta

la me facci nguttàta.

 

Occhi antichi. Resta nell’orto l’eco delle canzoni / (come ti soffoca questo sole, quest’arsura / che orchestra i canti dei grilli) / i rami degli alberi pendono a terra. / Qui, fumando i pensieri, / sono un lume che si spegne. / Conto i passi in questa camera bianca, / con le mani in tasca. / Ma ti vedo libera e nuda. / Muta / te ne sei andata. E tu fai la gattina / a chi ti tiene in braccio e non ti conosce. / Se ridi. Ché forse ti spunta / la mia faccia che trattiene il pianto.

 

 

godot


En attendant Godot sta morti

ca ‘un meni ti dassi vampi di focu,

friddulina; ti calliassi nê manu

l’occhi di vitru. T’arriparassi

nô fazzulettu di sita.

O morti

e bita. Sti manu friddi

longhi, sti taliatùri d’ogliu

ca mi sciddricanu ncoddru

mentri avvampi, stu coddru tisu

cu la testa ô ventu. Tutta

t’arriparassi nê me iunti.

Ti quadiassi cû sciatu.

Tu ’un ci senti.


Godot. En attendant Godot questa morte / che non viene ti darei vampe di fuoco, / freddolosa; ti scalderei nelle mie mani / gli occhi di vetro. Ti riparerei / nel fazzoletto di seta. O morte / e vita. Queste mani fredde / lunghe, questi sguardi d’olio / che mi scivolano addosso / mentre avvampi, questo collo dritto / con la testa al vento. Tutta / ti riparerei nelle mie mani giunte. / Ti scalderei col fiato. / Tu non ci senti.

 

 

        Giugno 2007                                                 Marco  Scalabrino