Archive for gennaio 2007

locandina-pARTIcORali

 

Oristano, 3-16 febbraio

pARTIcORali 2007

 

Programma

 

 

 

 

 

 

3 febbraio

inaugurazione pARTIcORali 2007

ore 17.00 / Palazzo Arquer

intervengono Pietro Corrias – presidente pARTIcORali,

Antonio Bellinzas, Antonio Corrias e Paolo Sirena

Naos Trio > Lumière-Jazz

ore 21.00 / Palazzo Arquer

concerto trio jazz con proiezioni di cinema muto

 

4 febbraio

Lella Fadda >

alfabetando / spremute d’arancia

ore 10.00 / Palazzo Arquer

piccole poesie per grandi e piccini

Maestri del canto a Tenore DURE – Bitti > giratas

ore 20.30 / Palazzo Arquer

canto tradizionale con lettura di poesia dialettale

 

5 febbraio

Giancarlo Zoccheddu > leggere un film

ore 9.30 / Cinema Movies – Santa Giusta

analisi e frammenti di cinema per le scuole

Piera Maria Chessa / Marcello Marras > Il mestiere di fantasma

ore 18.00 / Palazzo Arquer

una scelta dalle “Lettere dal Carcere” di Antonio Gramsci

Aldo Sicurella / Monica Pisano /

Ivo Zoncu >

che io possa liberare parole

ore 21.00 / Palazzo Arquer

poesie e scritti di Don Peppino Murtas

 

6 febbraio

cinema: l’arte alla ricerca della verità?

ore 16.00 / Cinema Movies – Santa Giusta

incontro con la settima arte

a seguire

Paolo Benvenuti > un’idea di cinema

il regista e il suo cinema maieutico

Paolo Benvenuti > Gostanza da Libbiano

ore 21.00 / Cinema Movies – Santa Giusta

 

7 febbraio

Giulio Angioni > le fiamme di Toledo

ore 18.00 / Palazzo Arquer

interviene Paolo Benvenuti

 

8 febbraio

Salvatore Cubeddu > scrivere un film

ore 9.30 / Aula Magna Liceo Scientifico Mariano IV

analisi e frammenti di cinema per le scuole

Laura Pisano / Vinia Tanchis >

bianco quarzo / nera Africa

ore 18.00 / Palazzo Arquer

la poesia in un percorso mediterraneo

Eros e Poiesis

ore 20.30 / Palazzo Arquer

l’Eros affidato alla poesia e a una chitarra

 

9 febbraio

Antonio Turnu >

il velo lungo della notte

ore 18.00 / Palazzo Arquer

una oscillazione poetica

Fiorella Ferruzzi >

le infinite facce della medaglia

ore 21.00 / Palazzo Arquer

la poeta e i percorsi paralleli

 

10 febbraio

quadri parlanti

ore 18.00 / Palazzo Arquer

parole, musica e immagini dall’universo pittorico

Peter Waters > piano solo

ore 21.00 / Teatro Comunale A. Garau

 

 

 

mostre

sulla mia terra malata

don Peppino Murtas e la fotografia

3-11 febbraio / Palazzo Arquer

mestieri in bianco e nero

la fotografia racconta il lavoro

installazioni di Martino Fadda

dal 3 febbraio / Palazzo del Demanio

immagini vicine e lontane…

fotografie di Giangi Chiesura

3-16 febbraio / Portixedda

emersione del sommerso

mostra collettiva di arti figurative

3-11 febbraio > Palazzo del Demanio / Palazzo Arquer

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

pARTIcORali > Mediterranea > 15-16 febbraio

 

15 febbraio

“che lavoro svolgeva il vostro bisnonno?”

ore 16.00 / chiesa di San Domenico

premiazione e mostra dei lavori del concorso per le scuole primarie

Roberto Cau / Antonio Pinna >

Color-mente

ore 18.00 / chiesa di San Domenico

un percorso ri-creativo dentro la materia: presentazione del libro e dibattito

 

16 febbraio

Beppe Meloni e i suoi ospiti >

la vecchia Oristano dei mestieri

ore 18.00 / chiesa di San Domenico

dibattito e documentari tra parola e memoria

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intro

 

Il programma di pARTIcORali è suddiviso in sei sezioni, quattro disciplinari e due tematiche.

 

“Bruciare sulla carta lentamente”, verso rubato a Valerio Magrelli, è il titolo della sezione di poesia.

Sei gli appuntamenti: apre Lella Fadda, si prosegue con l’allestimento del Teatro Instabile di Paulilatino sulle poesie e i racconti di Giuseppe Murtas. Poi Laura Pisano e Vinia Tanchis, che affidano le loro creazioni/riflessioni alla voce di Monica Pisano; Gianfilippo Uda che presenta una antologia di poeti erotici, e dialoga con Antonio Fiori; Antonio Turnu con la sua ultima silloge, “Il velo lungo della notte”; infine Fiorella Ferruzzi, che presenta una scelta dalle sue raccolte.

 

“Inquisizioni – indagini, processi roghi” intende raccontare, attraverso tre vicende esemplari (Sigismondo Arquer, Gostanza da Libbiano, Antonio Gramsci), la violenza inquisitoria del potere. Apre la sezione una scelta di “Lettere dal carcere” curata da Piera Maria Chessa, Pietro Corrias e Marcello Marras; si prosegue con la proiezione del film “Gostanza da Libbiano” di Paolo Benvenuti, e si chiude con la presentazione de “Le fiamme di Toledo” di Giulio Angioni.

In questa ultima serata, Paolo Benvenuti e Giulio Angioni avranno modo di confrontare le loro opere, che attraverso arti diverse (cinema e letteratura) hanno affrontato il medesimo tema, con la medesima accuratezza documentaria (sia il film che il romanzo si fondano infatti su atti processuali rinvenuti in ricerche d’archivio).

 

“Cinema: l’arte alla ricerca della verità?” è una riflessione sulla settima arte centrata sulla contrapposizione, originaria nella sua storia, tra cinema della verità e cinema della finzione. È possibile andare a caccia della verità con la macchina da presa? O il Cinema è solo un mezzo che consente agli autori di spacciare come realtà il proprio punto di vista?

Quattro gli appuntamenti: due lezioni per i ragazzi delle scuole, “leggere un film” e “scrivere un film”, affidate rispettivamente a Giancarlo Zoccheddu e Salvatore Cubeddu; e due incontri/dibattiti alla presenza del regista Paolo Benvenuti: “Cinema: l’arte alla ricerca della verità”, in cui autori e critici discutono sul tema; e “Un’idea di cinema”, in cui il regista toscano racconta la propria esperienza di cinema maieutico.

 

La sezione musicale del festival, “Note da Gaia”, propone tre appuntamenti difformi ma complementari, secondo un progetto di racconto dell’universo musicale contemporaneo, polimorfo ma univoco, denso di un ricco intreccio tra tradizione e sperimentazione: Naos Trio presenta un programma di composizioni originali e standard jazzistici riarrangiati; i Maestri del canto a tenore “DURE” di Bitti presentano una selezione di canti tradizionali. Chiude Peter Waters, pianista inclassificabile, capace di spaziare dal repertorio barocco a quello romantico, fino al jazz e alla world music.

 

 

 

 

 

 

La proposta artistica di pARTIcORali ha il suo nucleo centrale in un’ampia mostra collettiva, “emersione del sommerso”, che si propone di esplorare le profondità dell’umano “cercando di sedare per immagini il conflitto che sorge tra il sapere e il vedere.

Il programma è ulteriormente arricchito da tre raccolte fotografiche. “Sulla mia terra malata”, completa e amplifica le suggestioni poetiche intorno alla figura di Giuseppe Murtas, cui il Teatro Instabile di Paulilatino dedica l’allestimento “che io possa liberare parole” (5 febbraio); “Mestieri in bianco e nero” raccoglie immagini del lavoro negli anni centrali del Novecento, in una ricca suggestione sospesa tra il rigore documentario e la forza estetica. A “immagini vicine e lontane…”, mostra di Giangi Chiesura, è affidato il compito di testimoniare la difficile ricerca di uno sguardo essenziale e personale.

 

Le due giornate di pARTIcORali inserite nella rassegna “Mediterranea”, con il patrocinio della Camera di Commercio di Oristano, sono dedicate ad una riflessione sul mondo del lavoro, tra passato e futuro. Oltre ad un concorso per le scuole primarie, le due giornate propongono due dibattiti: Color-mente, di Roberto Cau e Antonio Pinna, un percorso di analisi all’interno della materia, che conduce alla riflessione sulla sostenibilità ambientale; e “La vecchia Oristano dei mestieri”, curata da Beppe Meloni e coordinata da Pietro Corrias, che attraverso filmati d’epoca e ricordi personali degli ospiti permetterà di ricostruire una città oggi quasi dimenticata.

 

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Bruciare sulla carta lentamente

esempi del linguaggio poetico contemporaneo

 

Uno nessuno e centomila poeti abitano qui. Sono i figli di Alceo e di Saffo, gli aborti di Erato e di Apollo, belli, forti e valorosi guerrieri armati di imbarazzo e amore per la vita. Hanno volti diversi, la bellezza della parola ne ha sfigurati alcuni.

”La poesia parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa. La voce della poesia dice questo o quello, ma lo dice in modo che un effetto d’eco ci ricorda sempre che non la si può prendere in parola. Naturalmente questo irrita coloro che vogliono opinioni, vogliono scelte, sentimenti immediati. Ebbene questa sua ambiguità fondamentale è la sua lezione, una lezione insostituibile. Insomma, nella poesia ci si trova di tutto ma lo si trova ad una di-stanza tale che ricorda continuamente la necessità di prendere le distanze. Qualcuno alla fine del Settecento scrisse che la poesia era un sogno fatto in presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno, cioè un discorso che in apparenza è un discorso come un altro, cioè un discorso di amore, di dolore, di descrizione, di esortazione, di sapere, di sapienza che è fatto sotto lo sguardo di un fantasma, uno sguardo che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto come accade appunto nei sogni.”

Franco Fortini

 

4 febbraio > ore 10.00 > Palazzo Arquer

Lella Fadda >

alfabetando / spremute d’arancia

piccole poesie per grandi e piccini

interpretate da Mauro Porcu

intervengono Fiorella Ferruzzi e Anna Busi

 

Lella Fadda, insegnante elementare. Ama la sua sedia a dondolo, farsi bagnare dalla pioggia e mangiare banane a colazione. Poeta di magie, sogni e carezze, lettere dell’alfabeto, arance da spremere. Per anni ha suonato il clarinetto, ha recitato poesie e ha partecipato alla realizzazione di concerti, manifestazioni e strani incontri. Giocare con le parole è la sua prima passione, la seconda è incantarsi alla voce e ai capelli dell’attore Mauro Porcu: creatura scomoda al mondo. Folletto di follie mai immobili.

Assonanze e consonanze, divertissement e nonsense, desiderando plausi e applausi, abbracci e amplessi, goduria panica, in soggiorno scrittorio sardo obbligato.

Prendere o lasciare, accettare o rifiutare, laudare o denigrare, pubblicare o non pubblicare. Prendere, accettare, laudare, pubblicare.

Per il diletto di grandi e piccini d’ambo i sessi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5 febbraio > ore 21.00 > Palazzo Arquer

Aldo Sicurella / Monica Pisano /

Ivo Zoncu >

che io possa liberare parole

poesie e scritti di Don Peppino Murtas scelti ed interpretati da Monica Pisano, Aldo Sicurella e Ivo Zoncu. Musiche di Ivo Zoncu

 

“Nella solitudine preziosa del Duomo don Peppino studiava, scriveva e amava conversare lontano dai frastuoni. Il suo studiolo era aperto a tutti: la porta appena accostata, le chiavi nella toppa. Il parroco-poeta cercava un dio che a lui sfuggisse. Duro e difficile trovare nella disperazione la risposta vera a fenomeni e a umani interrogativi. Viveva questo dramma. Era il dramma della sua gente, il suo dramma. Sacerdote scomodo, a volte frainteso e incompreso, rifiutava qualsiasi schema contrario alla libertà dell’essere.”

(Giorgio Farris)

Parroco a Paulilatino negli anni Cinquanta, Peppino Murtas si adoperò per creare in seno a quella comunità una coscienza religiosa e sociale che la affrancasse dall’ingiustizia e dal bisogno.

Trasferitosi ad Oristano, fu negli anni Ottanta ideatore, fondatore e direttore della rivista “Quaderni Oristanesi.” Le sue poesie testimoniano uno spirito di condivisione delle vicende umane ed un appassionante impegno di vita e di solidarietà. Gli attori del Teatro Instabile di Paulilatino Aldo Sicurella e Monica Pisano, insieme al musicista Ivo Zoncu intrecciano con la musica le poesie e gli scritti di Peppino Murtas, in omaggio al sacerdote-poeta.

”Mi è spina scheggia croce

il vuoto che mi trovo dentro

il limite di molte indecisioni

la povertà di fronte alla Pienezza

che contemplo nascosta

e resto muto.”

(Peppino Murtas)

 

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L‘omaggio di pARTIcORali a Peppino  Murtas  si completa con la mostra fotografica “sulla mia terra malata”

(Palazzo Arquer, 3-11 febbraio)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8 febbraio > ore 18.00 > Palazzo Arquer

Laura Pisano / Vinia Tanchis >

bianco quarzo / nera Africa

con Monica Pisano (voce recitante)

e Gianfranco Fedele (pianoforte).

Immagini di Giangi Chiesura

 

Dalla savana a uno stagno.

Giraffe incantate nel Sinis.

Zebre in fuga davanti al maestrale.

Ogni cosa avanza immobile: un asfodelo e il suo deserto, l’ebano accanto al quarzo. La sete e l’acqua.

Il sale marino e la sabbia arida inventano nuvole in forma di fenicottero che urla canti d’Africa che ha sentito in volo. O in sogno.

Pesci e murene e serpenti s’affacciano alle tane, ad annusare il cisto e la sua polvere.

Che si arrendano i ciechi e i sordi alle violenze di due terre altere, alla tene-rezza delle loro voci. Le anime delle due autrici, grani di rosario in preghiere distinte, accolgono e donano i profumi di luoghi mai ammalati di solitudine, finchè restano tanto amati. E’ vero, le loro anime nutrono, ma succhiano ancora il seno al mare e a tutto ciò che di nuovo osservano. Ogni giorno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8 febbraio > ore 20.30 > Palazzo Arquer

Eros e Poiesis

testi scelti da Antonio Fiori e Gianfilippo Uda

e poesie di Franca Tronci e Antonio Vizilio

con Alessandro Martometti (chitarra)

 

L’Eros, come la Morte, è uno dei temi privilegiati dalla letteratura, che lo investe di valori etici e simbolici. Le “parole per dirlo” ce le ha insegnate il primo fuoco che l’uomo, all’improvviso e per sbaglio, ha acceso. Temendolo, ma cercandolo ancora.

Parole per raccontare amore, vizio, solitudine, lussuria, tenerezza. Potere. O arrendevolezza. Piacere o odio.

Carne e cuore assieme, o che mai si incontrano.

Con connotazioni ed espressioni differenti, eccolo oggi, l’Eros, affidato alla poesia e a una chitarra.

Alcova, il Palazzo Arquer prega le sue pietre di farsi guanciali, rose, spade.

Letture da Dioscoride, Lorca, Neruda, Merini, Mariani, Valduga, Sexton, Ristos, Prèvert, Belleau, Grainville. Inoltre Antonio Vizilio, Franca Tronci e una scelta dall’Antologia della poesia erotica contemporanea (Atì editore): Anna Maria Farabbi, Carlo Molinaro, Antonio Fiori, Giuseppe Tirotto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

9 febbraio > ore 18.00 > Palazzo Arquer

Antonio Turnu >

il velo lungo della notte

interviene Carmelino Pitzolu

con Savina Dolores Massa, Alessandro Melis, Renato Zedda (voci recitanti)

 

Tempo scandito e candito in un oscillare di celle ipogeiche, di carni mattutine, di tramonti avvizziti, di sangue in guerra.

Più lingue percorrono le ore, inseguite, decapitate dal ritmo della frusta, senza scampo, del vivere.

Nessun gioiello o tendaggio ad abbellire la Nave.

Neppure derive, per lei.

Solamente e inesorabilmente, il Battito imposto.

 

 

 

9 febbraio > ore 21.00 > Palazzo Arquer

Fiorella Ferruzzi >

le infinite facce della medaglia

con Clara Farina (voce recitante),

Mario Chessa (pianoforte), Salvatore Scala (chitarra)

 

Quale è la verità sincera della medaglia.

Dove sono i volti.

In quale quantità le maschere scolpite a bellezza o bruttezza sanno celare percorsi paralleli di comportamento. Verso mille madri e amanti e figli e paure inestricabili si snoda la ferocia fatta indossare alla sensualità del linguaggio. La parola conduce alle ossessioni della perfezione, canta il reale dell’inverosimile, innervosisce gli incubi altrui.

Attrici a convegno, che sfidano i roghi, ridenti ma amare.

Che sfidano i suoni: tasto o corda, corda o tasto.

Parlano di disinganni, le infinite facce della medaglia?

Inquisioni

indagini, processi, roghi

 

Sigismondo Arquer, bruciato sul rogo a Toledo nel 1571.

Gostanza da Libbiano, torturata nel 1594.

Antonio Gramsci, inquisito dei nostri tempi, condannato al silenzio carcerario nel 1926.

Emblemi di una vicenda che ciclicamente si ripete: il potere che tenta con ogni mezzo di sopprimere ogni intelligenza che gli si contrapponga, che sia scienza, fantasia o lucida analisi.

Il potere processa la differenza, brucia il sogno che gli è precluso. Invidia le lingue incapaci di piegarsi a univoco senso e a solitaria ragione, disgusta la salvezza del dubbio, e incatena a una verità prescelta ad essere unica. Non si placa all’orrore: predilige le ceneri ai campi, le sbarre alle siepi.

Non si salvò Sigismondo, non ebbe soccorso dal sillogismo: poiché infondata, la logica accoglie ogni fondamento, e si presta alla frusta, alla trappola, al cappio.

Sopravvisse Gostanza, sacerdotessa del magico, celebrò la parola che rifugge la logica e diviene malia. Ma la logica vinse, e la costrinse all’esilio.

Non si arrese al confino Gramsci: il potere gli accecò il mondo, ma non seppe spezzargli il pensiero.

 

 

 

 

 

 

5 febbraio > ore 18.00 > Palazzo Arquer

Piera Maria Chessa / Marcello Marras >

Il mestiere di fantasma

una scelta dalle “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci

con Alessandro Melis (voce recitante)

e Gianfranco Fedele (pianoforte)

coordina Pietro Corrias

 

Gramsci è in carcere. “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare” è l’assurdo anatema che il tribunale pronuncia.

Ma non bastano le sbarre ad appannare l’intelligenza critica, a nascondere un mondo. Un mondo astratto, ridotto a segni sulla carta, che ha perso voce e consistenza, ma che sopravvive oltre il velo sottile della corrispondenza epistolare.

Disposto a “cavar sangue anche dalle rape”, Gramsci sceglie di cogliere i pochi frutti del lento cammino sul bordo dell’esilio. E nel racconto ai familiari le vicende della politica non sono più importanti della semina di un roseto, o dell’addestramento di un passero. O del paziente lavorio d’artigiano intorno a un tagliacarte o a un cucchiaio.

Gramsci in carcere studia, legge voracemente, traduce. Ma soprattutto scrive, e non solo per mantenere vivo un legame reso labile dalla distanza, ma per riempirlo di senso.

Malgrado una condanna cui non vuole sottomettersi, perchè sa la dignità delle idee, vuole essere padre, marito, figlio. E insiste a dare alle parole corpo di cose e di carne, perché le lettere non siano mai voce muta di un uomo a cui ripugna il mestiere di fantasma.

 

 

 

 

 

6 febbraio > ore 21.00 > Cinema Movies – Santa Giusta

Paolo Benvenuti >

Gostanza da Libbiano

Italia, 2000, 92’, con Lucia Poli

premio speciale della Giuria, Festival di Locarno 2000

 

“…E andammo via con il vento in lontani paesi… alla casa del diavolo…". Così, nel 1594 in San Miniato al Tedesco nel Granducato di Toscana, Monna Gostanza da Libbiano (magistralmente interpretata da Lucia Poli) racconta ai suoi accusatori, ai difensori della fede che la tormentano per cavarle fuori la "verità".

E questo dei santi inquisitori è un impegno tanto forte e determinato che deve intendersi alla lettera. Una verità non solo estorta (e “forse” distorta) ma cavata fuori dalle membra.

Il film, tratto da atti notarili (rinvenuti nell’Archivio storico del comune di San Miniato) verbalizzanti un processo per stregoneria, narra, in uno splendido volgare toscano, la vicenda di una contadina sessantenne che esercita da sempre il mestiere di guaritrice. La sua pratica di "misurare i panni ai malati per conoscerne i mali" mette in sospetto le autorità ecclesiastiche locali. Arrestata per ordine del vescovo di Lucca, a seguito di una breve istruttoria, viene accusata di stregoneria. Due vicari la sottopongono per molti giorni a lunghi ed estenuanti interrogatori volti a farle confessare "pratiche diaboliche". Lentamente ma inesorabilmente, tentano di piegarla sottoponendola a  ripetute torture. Monna Gostanza entra così nel personaggio della strega, costruendo un suo mondo metafisico, scatenandosi nelle fantasie più fervide: malie, delitti, vampirismi, metamorfosi, voli notturni e baccanali alla Città del Diavolo, confessioni che le consentono di sfruttare in modo personalissimo e originale l’inesauribile ricchezza dell’immaginario popolare e contadino.

 

 

7 febbraio > ore 18.00 > Palazzo Arquer

Giulio Angioni > le fiamme di Toledo

interviene Paolo Benvenuti, coordina Alessandro Biolla

con Gianfranco Fedele (pianoforte preparato),

Savina Dolores Massa (voce recitante),

Alessandro Melis (voce recitante)

e con Mauro Sigura (chitarra)

e Alessandro Pulisci (percussioni)

 

1571. Tre giorni prima della sua esecuzione, Sigismondo Arquer, magistrato cagliaritano condannato al rogo dall’Inquisizione dopo otto anni di torture, ripercorre la sua vita e i suoi ricordi. La Sardegna, la Svizzera, la Spagna: personaggi come il marrano Diego De Jesus e il suonatore di launeddas Zio Cocco, Balthasar il bestemmiatore e la prostituta che vede la Madonna, e soprattutto come la giovanissima Domíniga Figus, che per il suo sogno di volare viene messa al rogo… Giulio Angioni, professore di Antropologia Culturale all’Università di Cagliari da più di vent’anni, è probabilmente la persona più qualificata per far rivivere la memoria del martire umanista Sigi-smondo Arquer, una delle più illustri vittime dell’orrendo massacro inquisitorio.

Denunciato all’Inquisizione, dopo fughe e alterne vicende Sigismondo fu arrestato in Spagna nel 1563 con l’accusa di luteranesimo. Iniziavano anni di sofferenze terribili, che solo la morte fece cessare. Con l’ausilio di una lingua spuria e magica, Angioni racconta una storia esemplare: la storia della ragione che invano si oppone al potere, all’arbitrio, al dogmatismo, all’insensatezza.

Sotto le volte sanguigne del Palazzo Arquer, e stimolato dalle domande di Alessandro Biolla, Angioni dialoga con Paolo Benvenuti.

In apertura, un adattamento di brani tratti dal libro con composizioni originali di Gianfranco Fedele, Savina Dolores Massa e Alessandro Melis.

Cinema, l’arte della verità?

a cura di  Massimo Murru

 A distanza di poco più di un secolo dalla nascita del cinema, chi oggi si avvicina al mondo della celluloide spesso non si sofferma a riflettere sui film, non concede importanza al messaggio che gli autori vogliono trasmettere, nè al differente linguaggio che contraddistingue questo favoloso universo di immagini in movimento. Ma che cosa è il Cinema? Quale è la sua natura e quali sono i fini che può perseguire? I Fratelli Lumiére pur definendolo “un’invenzione senza futuro”, con quest’arte  immortalarono e riprodussero la realtà. Méliès ne fece spettacolo e lo usò come evoluzione della propria atti-vità di prestigiatore. Dal cinema russo degli anni 20 e 30 fino al Neorealismo; dalla Nouvelle Vague fino ai recenti successi del cinema documentario sulla meraviglia del mondo animale e vegetale, oppure come mezzo d’informazione su scottanti temi di attualità politica ed economica, il cinema della verità si contrappone ai film di finzione. Ma persiste il dubbio sulla capacità della cinematografia di cogliere “veramente” il reale o quanto meno di indagare la verità. In tutte le sue sfaccettature il Cinema  fa spettacolo, intrattenimento,  e insieme, pur essendo finzione, persegue l’ambizione di rappresentare e ricostruire il vero. Ma è possibile andare a caccia della verità con la macchina da presa? O il Cinema è solo un mezzo che consente agli autori di di spacciare come realtà il proprio punto di vista?

Cinema e Verità, un possibile binomio attorno a cui far gravitare una riflessione sulla settima arte.

 

5 febbraio > ore 9.30 > Cinema Movies – Santa Giusta

Giancarlo Zoccheddu > leggere un film

proiezione del film “Infamous” di Douglas McGrath

analisi della pellicola e cineforum

per i ragazzi delle scuole

 

lnfamous: Una pessima reputazione”, ovvero la vicenda dello scrittore americano Truman Capote, che portò alla nascita del suo capolavoro, “A sangue freddo”: il re-gista, Douglas McGrath, sorretto da un ottimo cast, porta sullo schermo, coi toni del dramma ma anche della commedia, una nuova trasposizione della vicenda dello scrittore, ambiguo quanto brillante, e dei salotti gla-mour nella New York di fine anni ’50: un uomo cambia il modo di fare letteratura stringendo un rapporto intimo con i colpevoli dello sterminio di una famiglia. Un rapporto tale da stravolgere per sempre la vita di Capote.

Dopo la proiezione del film, la lezione di Giancarlo Zoccheddu illustrerà le peculiarità del linguaggio cinematografico rispetto al linguaggio comune e a quello letterario. Come si interpreta una sequenza d‘immagini? Quale era l’intenzione dell’autore?  In che modo è possibile individuare i molteplici piani di interpretazione di un’opera ci-nematografica, trovando le giuste chiavi di lettura e i modi opportuni per farne uso?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6 febbraio > ore 16.00 > Cinema Movies – Santa Giusta

Cinema: l’arte alla ricerca della verità?

a cura di Massimo Murru

autori e critici incontrano il pubblico: proiezioni e dibattito

 

Antonello Carboni, Salvatore Cubeddu, Peter Marcias, Paolo Zucca e Alverio Cau, accompagnati dalle voci di Antonio Bellinzas e del regista toscano Paolo Benvenuti, presentano alcuni frammenti dei loro recenti lavori nel cinema documentario, nel cinema di fiction, nella sceneggiatura, nella pubblicità e nei videoclip. Le loro esperienze introducono al tema della serata: può il cinema esser definito come un’arte per l’indagine della verità? Sa rappresentare la realtà, o è solamente  un complesso gioco di prestigio? Gli aneddoti riguardanti la produzione dei loro lavori aiuteranno il pubblico a ripercorrere la Storia del Cinema fin dalle origini, e ad indagare la natura della settima arte e il suo rapporto con la realtà.

Sarà possibile soffermarsi sugli aspetti tecnici e sulle problematiche legate alla concreta realizzazione di un film, e sugli aspetti teorici sottesi alla struttura del linguaggio cinematografico: dalla scelta degli attori a quella delle locations e delle scenografie, dalla scelta delle inquadrature al ritmo del montaggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a seguire

Paolo Benvenuti > un’idea di cinema

il regista e il suo cinema maieutico

 

“..La realtà può essere ripresa da infiniti punti di vista ma uno solo è quello giusto, ed è quello che fornisce il maggior numero di informazioni sulla realtà osservata e raccontata…”

Paolo Benvenuti (Pisa 1946) gia molto giovane si dedica alla pittura. Frequenta l’Istituto d’Arte e il Magistero d’Arte di Firenze, dove si diploma nel 1965. L’anno successivo si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove i corsi vengono interrotti a causa dell’alluvione del novembre 1966. Nel 1968 si avvicina alle esperienze del cinema d’avanguardia e abbandona gradualmente la pittura. Nel 1972 è assistente volontario sul set de L’età dei medici di Roberto Rossellini. Appassionatosi al cinema didattico che il maestro romano propone in quegli anni, approfondisce i suoi studi storico-archivistici.

Ha condotto corsi e seminari di teoria del linguaggio audiovisivo presso molti istituti italiani e stranieri.Tra questi la “Scuola Holden” di Torino e la “Scuola nazionale di Cinema” di Roma. Ha collaborato con il sociologo Danilo Dolci alla realizzazione di un progetto di “Scuola di Cinematografia e Televisione a struttura maieutica”.

La sua filmografia comprende, oltre a numerosi corto e mediometraggi, Il bacio di Giuda (1988), presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Confortorio (1992), presentato in concorso al Festival Internazionale del Cinema di Locarno (Svzzera), Tiburzi (1996), presentato in concorso al Festival Internazionale del Cinema di Locarno, Gostanza da Libbiano (2000), vincitore a Locarno del Premio Speciale della Giuria e, infine, Segreti di Stato (2003).

Il regista toscano incontra il pubblico e racconta il suo progetto di cinema storico. Ovvero la costruzione dell’inquadratura, la disposizione della scena, i movimenti della macchina da presa tesi  verso un’opera in cui forma e contenuto siano in perfetta armonia, in cui etica ed estetica siano elementi coerenti al servizio dell’educazione integrale. Cinema come strumento critico per una seria lettura della storia, cinema che svolge il proprio ruolo educativo divenendo strumento di demo-cratizzazione dell’informazione. Cinema come mezzo di indagine storica, che consenta di formulare opinioni e giudizi fondati sui canoni dell’epoca rappresentata, tenendo conto dei punti vista coevi alle azioni oggetto dell’indagine.

Cinema didattico, ma che rispetta il pubblico e i suoi tempi di apprendimento, fornendo strumenti conoscitivi attraverso le immagini. Chi assiste alla proiezione assume un ruolo attivo, ha il tempo di riflettere e interagire con la pellicola.

Cinema maieutico, non solo mezzo d’intrattenimento, ma strumento di conoscenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8 febbraio > ore 9.30 >

Aula Magna Liceo Scientifico “Mariano IV”

Salvatore Cubeddu > scrivere un film

dalla letteratura alla sceneggiatura,

dallo script alla pellicola

 

Come nasce una storia che prenderà vita sulla pellicola. Genesi e sviluppo della sceneggiatura.

Dalla nascita dell’idea all’immaginazione di un soggetto, ovvero la necessità di strutturare la storia. Come organizzare e sviluppare il materiale narrativo, individuare gli atti, i punti di svolta della narrazione, la caratterizzazione dei personaggi e la costruzione dei dialoghi, oltre all’inserimento del punto di vista del narratore.

Come pianificare la costruzione e lo sviluppo di scene e sequenze, strutturare le strategie di drammatizzazione, il ruolo di conflitti, metafore, omissioni e ritmo. Infine, come comporre il tutto in script e storyboard, impaginati secondo il rispetto di precise regole che ne consentano una lettura tecnica ed immediata, utilizzabile durante le riprese.

Ne discute col pubblico Salvatore Cubeddu, affermato sceneggiatore e docente per la scuola Holden, illustrando in particolare attraverso quali meccanismi sia possibile “portare” la letteratura al cinema, e passare dall’una all’altra arte.

Dal testo alla sceneggiatura, dalla sceneggiatura alla pellicola: l’enigma è la fedeltà della trasposizione, la scelta nel testo delle scene da filmare e il modo migliore per farlo.

 

 

 

 

 

 

Note da Gaia >

Nucleo minimo circolare

per la mappa contemporanea

dei suoni dal mondo.

a cura di  Gianfranco Fedele

Ambizione di pARTIcORali è cercare di rappresentare a largo spettro, pur attraverso un ristretto numero di eventi, il canto attuale – polimorfo ma in fondo univoco – dell’organismo vivente che ci ospita e di cui siamo parte, voce non priva di sofferenza ma sempre forte e affascinante.

Pianista eclettico, Peter Waters, parte dalla tradizione colta europea per giungere, con una tecnica di altissimo livello, all’evoluzione di un linguaggio musicale contemporaneo. Con l’ausilio di Tai-Chi e meditazione – discipline che lo vedono, fra le altre cose, insegnante in corsi specifici -, il pianoforte diviene grimaldello, chiave che apre la via all’energia creativa, trascendentale o puramente cerebrale che sia. Un’apertura mentale che porta il musicista australiano a passare indenne attraverso classica, jazz, world music, fino addirittura al rock e al pop. Senza perdere coerenza.

Il Naos Trio attinge dalla medesima fonte, con uno sguardo focalizzato in maniera particolare sull’improvvisazione acusmatica e sulla composizione jazz; sguardo che mira a un equilibrio estetico privo della necessità di “mostrare i muscoli” dell’arida tecnica strumentale.

Infine il coro a Tenores DURE, da Bitti: la grande e preziosa tradizione popolare dell’Isola, conservata e accudita con cura fino al riconoscimento internazionale come Patrimonio comune dell’Umanità.

Resta da sottolineare, non mero sottofondo, la forte presenza musicale all’interno delle rimanenti iniziative: chitarre, percussioni, rumori, canti a impreziosire poesia, cinema, narrativa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3 febbraio > ore 21.00 > Palazzo Arquer

Naos Trio > Lumière Jazz

Gianfranco Fedele > pianoforte

Antonio Farris > contrabbasso

Andrea Cogoni > batteria

 

Celato nel Naos, la  parte più nascosta del Tempio greco, era custodito il simulacro della divinità. Allo stesso modo, uno sguardo rivolto alla “divinità” dell’uomo, ha naturalmente portato il Naos Trio verso la ricerca di un suono personale, suono che oggi ne costituisce la caratteristica principale. Tale ricerca ha preso spunto dallo studio della grande tradizione jazzistica americana, fino al naturale approdo al continente europeo – con il suo enorme patrimonio musicale – e alle comuni radici mediterranee dei componenti, originari di Puglia e Sardegna. I tre musicisti sono attualmente allievi del corso Jazz presso il Conservatorio di Cagliari. Il repertorio comprende composizioni originali di Gianfranco Fedele e Antonio Farris, e alcuni standard jazzistici poco frequentati, riarrangiati dal trio. La serata si avvale della collaborazione del regista Maurizio Abis, autore di alcuni montaggi di frammenti tratti da film muti degli anni ‘20 e ‘30.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4 febbraio > ore 20.30 > Palazzo Arquer

Maestri del canto a tenore DURE – Bitti >

giratas

G. Pietro Calvisi > oche / Pasquale Delogu > mesu oche

Mario Demelas > bassu / Mario Forroia > contra

Quattro cantori disposti in cerchio. In alto il cielo rosso di una volta in pietra.

Le polifonie basaltiche dei Maestri della Scuola del Canto a Tenore di Bitti donano alla pianura il suono della Sardegna centrale. Due voci gutturali, Bassu (basso), e Contra (contralto), procedono in parallelo nella scansione di sillabe nonsense (bim bam boo). La Mesu Oche arricchisce il canto con abbellimenti, fioriture e le tipiche giratas (virtuosismi vocali). Le tre voci si amalgamano in armonico accompagnamento per la voce solista (Oche) che intona e cadenza in modo quasi esclusivamente sillabico, restituendo la solitudine ri-tuale della natura al canto.

Aprono la serata alcune liriche di Carmelino Demartis, Martino Fadda, Giorgio Masili, Vinia Tanchis e Renato Zedda, accompagnate dal pianista Gianfranco Fedele. Presenta la serata Salvatore Zucca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10 febbraio > ore 21.00 > Teatro Comunale A. Garau

Peter Waters > piano solo

in collaborazione con l’Ente Concerti di Oristano

Nato a  Broken Hill, Australia, Peter Waters ha completato gli studi di pianoforte ad Ade-laide con Clemens Leske, e a Londra con Peter Wallfisch.

La sua carriera di concertista comprende collaborazioni con famose orchestre: Zurich Tonhalle Orchestra, Munich Chamber Orchestra, Sydney Symphony Orchestra, Orchestra Filarmonica di Mosca.

Varie le collaborazioni di altissimo livello anche in ambito jazz, fra cui da sottolineare sono quelle che, in varie formazioni, lo hanno visto accanto a Paolo Fresu. Nel 2000 e nel 2001 è stato fra i principali protagonisti, con i suoi concerti per piano solo, del Festival “Time in Jazz” di Berchidda.

La sua è una musica senza confini, che trascendendo le categorie musicali e gli ambiti cronologici, offre percorsi imprevedibili oltre che una vastissima gamma di colori ed atmosfere: il repertorio barocco (Bach), quello romantico (Chopin), la scrittura jazz (Hancock) con delle riuscite aperture verso sonorità di impronta africana (Abdullah Ibrahim). Eclettico nelle esecuzioni, come nella scrittura di composizioni che stanno tra improvvisazione contemporanea, jazz e world music.

La formula del piano solo e la scelta di temi legati al mondo della musica "classica" esaltano il magistero tecnico di Waters – musicista dalla forma-zione classico-accademica – che  volutamente piega la tecnica al servizio della fantasia e della comunicativa, nello sviluppo di differenti linee melo-diche.Egli incarna pienamente la figura di musicista "totale" e policentrico, che ha nella musica senza confini e barriere predefinite la sua cifra di-stintiva.

 

 

arti corali

le voci di una strada

Si sceglie di titolare le mostre. Lo si fa cercando di condurre chi osserva per strade imposte. Le  mostre di pARTIcORali hanno titoli ma, probabilmente, non il potere di condurre. Se non, forse, lungo una via antica che per qualche giorno si colora di arti difformi. Ogni immagine, dal quadro, alla fotografia, all’installazione, possiede una propria voce e una storia.

E ogni sguardo che vi si poserà ne creerà altre, ingiusta e libera scelta di interpretare.

Ma c’è pur sempre qualcosa da dire.

Nelle parole degli artisti l’espressione diventa simbolo, s’incontra, si scontra, si compenetra, per  trasformarsi e trovare sfogo negli aspetti più offuscati e nascosti della psiche umana.

Ecco allora che sotto arcate di illusorie fiamme, nei granai sepolti del Palazzo Arquer, il quadro prende vita vibrando di colori, di musica, di poesia: il quadro parla:

10 febbraio > Palazzo Arquer > ore 18.00

quadri parlanti

video a cura di Massimo Murru

con Annalisa Torchia (voce recitante)

 

 

 

 

Palazzo Arquer > 3-11 febbraio

sulla mia terra malata

Don Peppino Murtas: testimonianze fotografiche

per gentile concessione del Comune di Paulilatino

 

“Attorno al gran falò

c’era posto per tutti…”

(Peppino Murtas)

 

L‘omaggio di pARTIcORali a Peppino  Murtas  si completa con la lettura delle sue poesie  “che io possa liberare parole.”

(5 febbraio, Palazzo Arquer, ore 21.00)

 

 

 

 

Palazzo del Demanio > dal 3 febbraio

Mestieri in bianco e nero

la fotografia racconta il lavoro

collezione di Massimo Torrente

a cura di Martino Fadda (allestimento) e Savina Dolores Massa (testi)

 

21 scatti di forte impatto emozionale colgono attimi di antichi mestieri della nostra terra, raccolti da artisti sardi, prevalentemente di Oristano e provincia: Il visitatore ha modo di scoprire (o ricordare) faticose e dolenti ritualità ormai scomparse: l’aratro e il giogo dei buoi, il secchio della mungitura, la vendemmia, le forbici della tosatura, l’intreccio del giunco, il grano al vento, il vorticare del tornio, l’ingrato peso delle reti.

La scrittrice Savina Dolores Massa percorre ciascuna delle immagini col suo linguaggio evocativo e mantico, accompagnando il visitatore lungo le curve della memoria e del sogno.

La mostra si avvale inoltre dell’installazione “Parabole del tempo”, appositamente creata dallo scultore Martino Fadda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torre di Portixedda > 3-16 febbraio

immagini vicine e lontane…

fotografie di Giangi Chiesura

 

Testimonianze fotografiche di affascinanti viaggi, in un’esplorazione mirata alla ricerca di itinerari distanti dalle rotte affollate.

Solitudini salmastre, conchiglie sonore, dispiaceri annegati.

Esperienze silenziose di mondi d’acqua, di trasparenze nebbiose, pance di soli a partorire tramonti e a morire di albe, ali in fuga verso legami desiderati tra mondi lontani.

Scatti lenti.

Parole poche.

La comunicazione attraverso l’occhio esatto, capace di cogliere il momento e lasciare il Tutto intatto.

Senza appropriarsi di nulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Palazzo del Demanio > 3-11 febbraio

emersione del sommerso

mostra collettiva di arti figurative

 

La proposta artistica di pARTIcORali 2007 è centrata su un’ampia mostra collettiva che cerca di manifestare, attraverso esperienze esemplari, ciò che l’immaginario umano non può esprimere in maniera comprensibile e razionale: l’artista fugge la banalità del linguaggio quotidiano, e lascia campo alla fertile attività dell’immaginario.

Un folto gruppo di artisti di varie concezioni e tendenze, esplora e testimonia il mondo sommerso che si nasconde nell’uomo, cercando di sedare per immagini il conflitto che sorge tra il sapere e il vedere.

Espongono Donatella Altea, Antonello Atzori, Isella Barresi, Tino Biselli, Roberto Cau, Domenico Cugusi, Martino Fadda, Rita Fais, Gianluigi Manca, Giorgio Masili, Graziella Mastinu, Dina Pala, A.Paola Piras, Laura Pisano, Vinia Tanchis, Ferdinando Tiboni, Franca Tronci, Renato Zedda, Stefano Zuccheroso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

pARTIcORali > Mediterranea

con il patrocinio della Camera di Commercio di Oristano

 

Due giornate di percorsi, tra memoria e prospettiva, raccontano il lavoro, cu-stodito dalla sapienza antica delle parole e delle immagini, e consegnato ai giorni futuri e alla loro cura.

Due giornate, due dibattiti: l’uno dedicato al passato e al suo tesoro, con la chiesa di san Domenico ad ospitare i ricordi di chi generosamente vuole offrirli in lascito; l’altro dedicato al domani e ai suoi progetti di sviluppo sostenibile.

Nell’ambito di questo progetto interamente dedicato alla memoria degli antichi mestieri nel loro significato prospettico, l’Associazione pARTIcORali ha indetto un concorso a premi rivolto alle quinte classi delle scuole primarie della città e della provincia, dal titolo “che lavoro svolgeva il vostro bisnonno?”, con l’intento di far riscoprire il valore del sacrificio, colto dall’interno del vissuto familiare.

15 febbraio > chiesa di San Domenico > ore 16.00

“che lavoro svolgeva

il vostro bisnonno?”

concorso per la scuola primaria: premiazioni e mostra

 

 

 

15 febbraio > ore 18.00 > Chiesa di San Domenico

Roberto Cau / Antonio Pinna >

color-mente

un percorso ri-creativo all’interno della materia

presentazione del libro con proiezione di immagini

Un pittore che si riavvicina alla sua arte con strumenti inusuali. Uno scrittore da sempre impegnato a sensibilizzare i suoi lettori su temi di rilevanza sociale. Ne nasce un sodalizio che conduce alla riflessione artistica e poetica sul tema della sostenibilità ambientale, e che procede fino all’interrogativo estremo: è possibile l’Arte dal rifiuto?

“Non finirò nel limbo / dei rifiuti morti viventi, / sorvolata dai gabbiani. […] Non resterò chiusa / nel sacco, / appesa ad un pino, / mio purgatorio infinito. / Preferisco la resurrezione. / Sceglierei il riciclo, / paradiso benefico.”

(A. Pinna)

Gli autori interrogano la città e le sue attività produttive sul tema dello smaltimento dei rifiuti, proprio alle soglie dell’attuazione del servizio di raccolta differenziata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

16 febbraio > ore 18.00 > Chiesa di San Domenico

Beppe Meloni e i suoi ospiti >

La vecchia Oristano dei mestieri

intervengono Antonio Corriga, Augusto Ligas,

Emilio Matta, Antonio Marchi; coordina Pietro Corrias

film documentari a cura di Antonio Sanna,

Alessandro Martometti, Sandro Corona

Cinque illustri personaggi della vita culturale ed artistica della città e della provincia si incontrano e ricordano, stimolati dalla curiosità e dalla passione storica del giornalista e scrittore Beppe Meloni. Le loro voci si intrecciano in un ricco scenario, in cui la vecchia Oristano dei mestieri rivive sotto gli occhi del pubblico.

La suggestione si alimenta dell’attento lavoro di recupero della memoria cittadina, grazie ai materiali d’epoca provenienti dalla ricca cineteca di Antonio Sanna, e alle interviste che Alessandro Martometti e Sandro Corona hanno realizzato incontrando uomini e donne che hanno contribuito a creare la storia della città.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Tardara” di Licia Cardillo Di Prima – Recensione di Marco Scalabrino

TARDARA - Cardillo

 

Da tempo ero al corrente che Licia Cardillo stesse lavorando a un nuovo progetto, dopo IL GIACOBINO DELLA SAMBUCA del 2000. Ci eravamo, difatti, incontrati l’estate di un paio di anni or sono a Sambuca di Sicilia, la sua città, e nella frescura della terrazza della sua villa in collina che domina la valle in cui insiste il lago Arancio, sorseggiando una bevanda e discorrendo come avviene in queste circostanze di scrittura e di scrittori, lei mi confermò quanto già mi aveva anticipato al telefono qualche mese prima. E tuttavia, nonostante la mia manifesta curiosità, nulla allora trapelò in merito all’opera. Finché l’Agosto scorso, daccapo incontratici, mi fece, con amabile dedica, graditissimo omaggio del suo lavoro appena pubblicato.

         Tardara, il titolo, e (la) Ninfa, acquaforte acquatinta di Bruno Caruso in copertina, mi intrigarono immediatamente e la lettura, anche in virtù del contenuto numero delle pagine – 160 circa – e della gradevolezza appena sfogliandole del carattere, ne venne ben disposta.

         L’incipit è sullo Stretto. Al primo rigo della prima pagina, Gino Roveri sul Caronte, uno dei traghetti che fa la spola tra l’Isola e la penisola italiana, rientra dopo dodici anni; e al secondo, la Sicilia, che emerge dal mare.

         Ecco diciamo subito che, Gino Roveri, benché risulti il personaggio fulcro della vicenda, non ne è, almeno a mio avviso, il protagonista, per la cui identificazione dovremo, tra poco spero converrete, ripiegare altrove.

         È Settembre. Il paese di Rocca Regina è un canestro di confetti grigio perla. In quella stanza aggredita da un silenzio penoso, le donne tutte vestite di nero, sembrava però si celebrasse un rito antico, codificato: la morte al buio rappresentava se stessa. Solo il morto, Renzino Puglisi, sfuggiva alla finzione. Gino Roveri si segnò ripetutamente e si baciò la punta delle dita. Una morte assurda, sentiva egli sussurrare in un’aria di rassegnazione e di fatalità che si respiravano, una pietra dall’aria.

         Una pietra, nondimeno, lanciata da qualcuno, considerò appena fuori Gino.

         Una prima notazione – comune peraltro a tutta questa opera – ci serve per spezzare un po’ la lettura e per fissare quanto mano mano registrato, oltre ad essere comunque un sistema di procedere: il periodare breve (il vecchio: soggetto, predicato, complemento) agevola la lettura stessa e la comprensione del tessuto narrativo.

         Tutto merito di Totò Raisi, disse il proprietario dell’albergo. Lo zio Totò – il terremoto, quello del 1968 nella fattispecie, gli ha dato una mano – ha cambiato tutto con la bacchetta magica dall’oggi al domani. E Gino apprende che la scala catalana che occupa troppo spazio e così pure gli archi e le maioliche verranno demolite, dando fondamento all’equazione: modernità = demolizione, svilendo il valore delle cose da valore d’uso a valore di scambio, trasformando il paese in un enorme forno crematoio, buono per bruciare memorie, dove l’antico combatteva con il nuovo una muta battaglia e l’orologio, sul quale si erano consumati i secoli, come un vecchio cuore, aveva smesso di battere.

         Gli stralci fin qui illustrati decretano una seconda digressione allo scopo di porre in luce una peculiarità della penna di Licia Cardillo; una peculiarità, in aggiunta alla comprovata eleganza, che già nettamente connotava FIORI DI ALOE del 1996, il volume con il quale io la conobbi, ovvero la liricità della scrittura: traghetti che tessevano lo stretto, affogava nell’acquario dei ricordi, l’unica speranza è di aggrapparsi al cielo … e, non bastasse, alla pagina 53 e seguenti, un’intera poesia è riportata.

         A Tardara – è il nome della forra, ossia cava, burrone – là dove il tempo al pari della Sfinge si era pietrificato, l’incontro inaspettato con Maria. Sei ancora bella, pronuncia lui, mentre lei se ne va, lasciando il posto ai ricordi che, davanti al baglio, affiorano: Renzino e Gino amici d’infanzia, compagni di scuola.

         Il successivo abboccamento con don Giuseppe e il colloquio serrato e a tratti determinante che ne segue, ci forniscono lo spunto per focalizzare un attributo che, mai forse come in questo periodo, sta investendo i narratori siciliani: l’utilizzo nella loro prosa del Dialetto. Ritengo che Licia Cardillo non pratichi un mero canale di contaminazione, non metta in atto un espediente da captatio benevolentiae, l’accattivarsi cioè la simpatia del lettore cavalcando la moda – consumata, viceversa, nel mondo dello spettacolo – della caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti, quanto, piuttosto, la riappropriazione di una bistrattata identità culturale, la riaffermazione di uno strumento linguistico che, nell’attitudine a contemplare le complesse realtà del vivere e nella dovizia lessicale, mostra ancora intatta la sua vitalità antica. D’altronde, il nostro Dialetto ci appartiene da millenni, ci rende bilingue; e allora perché privarcene? Licia Cardillo, registro con favore, ne fa un uso misurato e conveniente, ne cura la trascrizione: Na petra di l’aria, E chi semu senza sagnu comu li babbaluci, li mura hannu l’occhi e li troffi hannu l’aricchi, scuitari lu cani chi dormi, agustu e rigustu capu di mmernu, donni, cubbaita, truvaturi, mutria …

         Qui si sa tutto di tutti, ma nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno parla, sostiene don Giuseppe. E l’uno e l’altro constatano che noi riusciamo a vedere più di quello che vedono gli altri, ma parliamo meno o non parliamo, parliamo per dire e non dire, parliamo lento, sofferto, tiriamo in ballo uno per definire un altro; e le parole si spogliano come donne impudiche per vestirsi di allusioni, doppi sensi e la lingua, questa lingua senza speranza e senza futuro, manda segni al vento.

         In una sorta di confessione, è messa a nudo l’anima dei Siciliani e in discussione uno dei capisaldi della cultura e della società siciliane: la famiglia, che è un marchio … lu criscenti. La famiglia è come il pane, è nuova e vecchia nello stesso tempo, ha dentro il passato, il presente, l’avvenire. Renzino, nessuno gli ha perdonato di non essere dello stesso criscenti di suo padre, l’hanno ucciso perché era di un’altra pasta, non è voluto entrare nel gioco.

         Oltre a Renzino Puglisi e al suo sogno di cambiare il mondo, colpiti davanti al baglio con tre colpi al cuore, due altri uomini nel giro di due mesi saranno uccisi: Vito Zito, il proprietario della Tardara, scomparso alcuni mesi prima, e, proprio durante la permanenza di Gino Roveri, Menico Russo, che la Tardara aveva quindi acquistato, precipitato a bordo della sua auto da una scarpata di quindici metri sulla Statale 115.

         Quest’ultimo riferimento ci suggerisce la collocazione della nostra storia: la Sicilia occidentale, la strada statale 115 Trapani – Agrigento, Segesta e la Sambuca di  Gianbecchina, mentre molteplici risvolti sollecitano la rispondenza con la realtà, i richiami all’attualità: Chi l’ha visto?, il piercing …

         Il dottor Antonio Curti, amico di Renzino Puglisi, non ha peli sulla lingua: la colpa più grave è l’essere vigliacchi, e ha le idee assolutamente chiare: un filo misterioso lega quegli omicidi. Il vero problema, insiste, sono i giovani: dovrebbero essere loro a cambiare le cose, se ne dovrebbero convincere, ma ne stanno davanti al bar, stravaccati sui motorini, appoggiati al muro, vivono con le pensioni dei nonni e lasciano naufragare qualsiasi progetto di cambiamento. Perché non si danno da fare? si chiede.

         Ma che se ne fa Menico Russo, un impiegato comunale, di una cava abbandonata? si interroga Gino Roveri di ritorno dalla visita alla cava medesima: un paesaggio lunare, come se ci fosse il divieto di coltivazione della terra, recintata da filo spinato e chiusa da un robusto cancello.

         Siamo prossimi ormai all’epilogo: i pezzi, lemme lemme, si vanno incastrando e vieppiù delineano il mosaico. Non vi anticiperò, ovviamente, gli sviluppi che porteranno alla soluzione del caso. Sappiate però che a Gino Roveri (l’unico, scopriremo, che potesse farlo, malgrado il minaccioso, eloquente messaggio anonimo recapitatogli dentro una busta per via aera con i rettangolini colorati ai bordi: Cambia aria) e alle sue indagini si unirà, in un fronte di omertà che si andrà disgregando in ragione soprattutto del ruolo capitale che assumeranno le donne – una fra tutte Rita, la vedova di Menico Russo –, l’acquisita consapevolezza – che sa di rivoluzione dalle nostre parti – che la parola fa l’uomo libero, che chi non si può esprimere è uno schiavo, che parlare è un atto di libertà, che, come professa Ludwig Feuerbach, la parola è per se stessa libertà.

         Il caso, ma non la scrittura finisce qui.

         Giacché è giunto il momento, riprendendo l’ipotesi lanciata in apertura e soppesate le considerazioni esposte, di palesare il vero protagonista della vicenda, che reputo sia il “contesto” sciasciano in cui si snoda il groviglio.

         E proprio questo apprezzamento contribuisce a situare il lavoro – ma, Licia Cardillo in questo frangente è in buona compagnia: Francesca Incandela di Mazara del Vallo ad esempio ed Alfio Patti di San Gregorio di Catania – nel filone dell’impegno, per la denuncia, in una trama per dirla giustappunto con Leonardo Sciascia da <materia saggistica che assume i modi del racconto>, dello ntrallazzu e della criminalità mafiosa e del clima da essa imposto.

         Le osservazioni finali passano attraverso:

Ø     l’impiego, nella voce vellutata di Brigitte, la governante, del Francese: Ah les parfums de la Sicile, voulez–vous des figues?, c’est un crapaud;

Ø     le citazioni da Pirandello: la corda pazza, la corda saggia, di verità ce ne sono tante, l’artificio qui è una necessità, tutto è apparenza, teatro, rappresentazione;

Ø     l’accostamento alla mitologia: Tardara era una ninfa, Ati era il dio del ruscello, Zeus scese dall’Olimpo …

         Non mi rimane, nell’invitarvi alla lettura certo che da essa trarrete quanti ulteriori motivi per ampliare e completare queste mie succinte riflessioni, che chiudere con un ultimo stralcio, dal timbro gattopardesco, da Licia Cardillo: la festa è un uragano che scuote il siciliano dal torpore per farlo entrare in un’altra dimensione: quella dell’ebbrezza.

 

 

                 Marco  Scalabrino

 Curriculum di Marco Scalabrino

Marco Scalabrino marco.scalabrino@alice.it funzionario di ente pubblico, lo studio del dialetto siciliano, la poesia siciliana, la traduzione in Siciliano e in Italiano di autori stranieri contemporanei, la saggistica sono tra i suoi principali interessi culturali. 

Ha pubblicato PALORI (Documenta 2000, Palermo 1997), poesie in dialetto siciliano, ha tradotto in Siciliano Nat Scammacca e pubblicato POEMS PUISII (Arti Grafiche Corrao, Trapani 1999), ha tradotto in Siciliano le sillogi Okusiksak e Leone Assiro di Enzo Bonventre pubblicate in POESIE SCELTE (Palma Editrice, Cecina LI 2000), ha tradotto in Siciliano testi scelti di Duncan Glen pubblicati in THREE TRANSLATORS OF POEMS by Duncan Glen (Akros Publications, Scotland 2001), ha tradotto in Italiano Feast of the Dead di Anthony Fragola pubblicato col titolo Festa dei Morti e altre storie (Coppola editore, Trapani 2001), ha pubblicato TEMPU palori aschi e maravigghi (Federico editore, Palermo 2002) poesie in dialetto siciliano con traduzioni in Francese, Inglese, Italiano, Latino, Spagnolo, Tedesco, ha scritto il racconto breve in dialetto siciliano A SUA DISPOSIZIONI, tradotto in Francese da Jean Chiorboli e pubblicato in Francia (Albiana – CCU 2002), ha tradotto in Italiano Eu vivo só Ternuras di Nelson Hoffmann pubblicato col titolo IO VIVO DI TENEREZZE (Arti Grafiche Corrao, Trapani 2002), ha tradotto in Italiano Bagunçando Brasília di Airo Zamoner pubblicato col titolo SCOMPIGLIARE BRASILIA (Editora Protexto, Brasile 2004), ha pubblicato CANZUNA di vita di morti d’amuri (Samperi editore, Castel di Judica CT 2006) in dialetto siciliano, con traduzioni in Inglese, Italiano, Portoghese.

Attualmente collabora con diversi periodici culturali, cartacei e in rete, nazionali e internazionali, tra i quali lumie di sicilia di Firenze, IL CONVIVIO di Castiglione di Sicilia (CT) http://www.il-convivio.org/, POIEIN di Sondrio http://www.poiein.it/, PAROLE DI SICILIA di Piazza Armerina (EN) http://www.paroledisicilia.it/, LITERATURA di Fortaleza (BRASILE), PROGETTO BABELE di Modena http://www.progettobabele.it/, FARANews di Rimini http://www.faraeditore.it/, TERZA PAGINA WORLD di Dublin – Ireland http:/www.terzapaginaworld.com

È componente della equipe regionale del progetto L.I.R.eS. promosso dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca – Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, per lo studio del Dialetto Siciliano nella Scuola http://www.lires.altervista.org/

 

 

Francesco Masala (1916-2007)

orme

"Chie ses?

Ite ti naras?

Ite faghias in vida tua?"

"Mi naro Franciscu Masala.

Faghia su poeta.

Cantaia sos laribiancos de bidda mia" *

* "Chi sei?/Come ti chiami?/Cosa facevi in vita?"//"Mi chiamo Francesco Masala./Facevo il poeta./Cantavo quelli dalle labbra bianche, i poveri del mio villaggio"

E’ morto ieri 23 gennaio, all’età di novant’anni, il poeta e scrittore Francesco Masala. Era nato a Nughedu San Nicolò (SS) il 17 settembre 1916.
Ha frequentato le Scuole Elementari nel suo paese natio, il Ginnasio ad Ozieri, il Liceo Classico a Sassari e l’Università a Roma, dove ha conseguito la Laurea in Lettere discutendo, con Natalino Sapegno, la tesi "Il Teatro di Luigi Pirandello". Ufficiale di complemento presso l’81° Reggimento fanteria di Roma, la seconda Guerra Mondiale lo vede impegnato, prima, sul fronte iugoslavo e, poi, sul fronte russo, dove viene ferito in combattimento e decorato al valore militare. Congedato, vincitore di Concorso della Cattedra di Italiano e Storia negli istituti magistrali, ha insegnato per trent’anni, prima a Sassari e, poi, a Cagliari.
È stato legato da lunga e amichevole affinità culturale e politica con Emilio Lussu, Aldo Capitini, Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu.
Giornalista pubblicista, per cinquant’anni, ha collaborato a giornali e riviste con articoli di critica letteraria, artistica e teatrale. Nel 1951, vince il Premio Grazia Deledda per una raccolta di poesie inedite e, nel 1956, gli viene assegnato il Premio Chianciano per la raccolta "Pane nero". È stato presidente del Premio letterario in lingua sarda "Città di Ozieri" e, nel 1978, fu presidente del "Comitadu pro sa limba", che presentò la "Proposta di legge di iniziativa popolare per il bilinguismo perfetto in Sardegna". Scrittore bilingue, ha pubblicato libri di poesia, di narrativa, di teatro e di saggistica. Le molteplici traduzioni in lingue straniere sono testimonianza dell’universalità del messaggio delle sue opere, pur totalmente estratte dalla sarditudine.
Le sue opere più importanti sono: "Quelli dalle labbra bianche", (Romanzo), Feltrinelli, Milano, 1986; "Pane nero", (poesie), Ed. Maia, Siena, 1956; "Il vento", (poesie), Ed. Maia, Siena, 1960; "Lettera della moglie dell’emigrato", (poesie), Feltrinelli, Milano, 1968; "Quelli dalle labbra bianche" (riduzione teatrale in collaborazione con Giacomo Colli), Ed. Quaderni del CIT, Cagliari, 1974; "Su Connottu", (dramma popolare bilingue in collaborazione col regista Gianfranco Mazzoni), Ed. Coop. Teatro Sardegna, Cagliari, 1980; "Emilio Lussu, il capotribù nuragico", (radiogramma bilingue), RAI, 1979, in "La Grotta della vipera", Cagliari, 1980; "Gramsci, l’uomo nel fosso", (radiogramma bilingue), RAI, 1981; "Poesias in duas limbas", (poesie bilingui), Ed. Scheiwiller, Milano, 1981; "Il riso sardonico", (saggi), Ed. GIA, Cagliari, 1984; "il dio petrolio", (romanzo), Ed. Castello, Cagliari, 1986; "Storia del teatro sardo", (saggio), Alfa Editrice, Quartu S. Elena, 1987; "S’Istoria", (Condaghe in limba sarda), Alfa Editrice, Quartu S. Elena, 1989; "Storia dell’acqua in Sardegna", (saggio), Alfa Editrice, Quartu S. Elena, 1991.

Giovanni NUSCIS

autoritratto con specchio

 

Scoprirsi in uno specchio

lontani come dalla luna.

Un brivido quegli occhi che s’incrociano

dalle tribune precarie di due corpi

di due sogni. Uno più dell’altro.

Un corpo tracciato da solchi

-dove la vita s’imbotra, e scoppia

il cuore, bengala nella notte-

l’altro che si ribella,

senza tempo, guarda severo

e s’allontana.

Sapersi piccoli

in un dissidio così grande

in un amore-odio così antico

così inedito, che si rianima

in questo luogo in cui un nemico

ricompare, ogni volta

in quello sguardo, al suo bersaglio.

 

 

Interventi e recensioni su “In terza persona”

Ezio Sanapo - Finibus Terrae

Vedervi ora immobili

in questa rada bianca

che si chiude alla vista.

Una pagina e un numero

in fondo, non si sa se riuscito.

Si poteva sperare

in un approdo migliore,

per le navi oscure qui attraccate,

per chi ha affrontato il mare,

dono più grande?

In terza persona

Marco Scalabrino  su:

Parole di Sicilia (http://www.paroledisicilia.it/letture/letture/giovanni-nuscis.-in-terza-persona.html) e

Il Convivio – Giornale telematico di Poesia Arte e Cultura (http://ilconvivio.interfree.it/primo_piano/persona.htm)

Gianmario Lucini 

Poiein (http://www.poiein.it/autori/2006/2006_11/aaaElenconov.htm)

Antonio Strinna 

Italia Libri (http://www.italialibri.net/opere/interzapersona.html)

 

Antonio Fiori

La Poesia e lo Spirito

 http://www.lapoesiaelospirito.splinder.com/?from=24

Angelo MUNDULA – Il Cantiere e altri luoghi – Recensione

Il Cantiere e altri luoghi

    Alla domanda frequentissima di quale sia la poesia destinata a rimanere, di solito consegue un’altrettanto ricorrente risposta: quella che ci richiama infinite volte a lei, per dilettarci e per apprendere, ancora, per misurarci e riverificare radici e appartenenze. La poesia che resta, per dirla in breve, è quella che ci nutre, per una qualche ragione. Una qualità, questa, che non sempre è dato cogliere nell’immediato. Molta buona poesia – che si fa subito apprezzare per una qualche dote e alla quale, magari, dedichiamo attenzione – spesse volte non la rileggiamo. Addirittura, la dimentichiamo. Forse, perché non ci siamo presi il tempo necessario di lettura; non abbiamo atteso quel riscontro interiore di cui parlava Eliot; se è vero, infatti, che nei massimi poeti c’è qualcosa di più che non semplici “idee” da accettare o respingere, (ma) c’è una forma che genera il capolavoro, è anche vero che il lettore, oltre al diletto e alla gratificazione estetica, cerca non di rado anche esemplarità, saggezza, la quale si trasmette ad un livello più profondo che non quello delle proposizioni logiche; e allora qualunque linguaggio è inadeguato, ma probabilmente il linguaggio della poesia è il più atto a comunicare la saggezza. Anche il Parini, in altra forma, a sua volta traendo da Orazio: Va per negletta via/ognor l’util cercando/la calda fantasia,/che sol felice è quando/l’utile unir può al vanto/di lusinghevol canto.

 

    Ho voluto fare questa premessa per parlare di Angelo Mundula e della sua nuova raccolta poetica, Il Cantiere e altri luoghi, nella convinzione che la sua poesia rientri proprio tra quella destinata ad essere letta e riletta, a divenire cara al lettore; tanto più se si conosce la persona, il riserbo, la coerenza che da sempre lo contraddistinguono (egli non fa presentazioni dei propri libri, non partecipa ai premi letterari né ad iniziative pubbliche, neppure a quelle a lui dedicate), e del silenzio mediatico quasi totale proprio nel luogo dove egli vive; tanto più sorprendente e imbarazzante in quanto il suo lavoro, da tempo, trova consensi significativi in Italia e all’estero. Poeta dell’esilio è stato per ciò definito in un saggio di Giuseppe De Marco (L’esperienza di Dante "exul immeritus" quale autobiografia universale).

 

     Il libro, il suo undicesimo di poesia, inaugura la nuova collana La Ginestra di Carlo Delfino Editore diretta dallo stesso Mundula e da Nicola Tanda. Le novantaquattro poesie in esso contenute  sono state scritte tra il 2000 e il 2005.  Il Cantiere a cui si riferisce il titolo è luogo reale (“…era proprio un cantiere in disarmo, con un grande capannone, un prato verde e due case in una delle quali, per concessione del Genio Civile a mio padre, abitava la mia famiglia. Tutt’intorno molti vecchi ferri e il mare”) e metaforico: Nella grande libertà del Cantiere/io mi aggiravo come un prigioniero dentro/una gabbia di ferro, gettando a mare/tutte le scorie del mondo, che da ogni/parte mi piovevano addosso (“Nel  Cantiere”). Ma il  termine “Cantiere” viene reiterato anche nel titolo di altri  tre testi (Nostalgia del Cantiere, Il Cantiere navale,  Cantieri), nonché nei versi di altre poesie. Il leitmotiv riteniamo che intenda alludere anche a dell’altro. Riferendoci alla poesia che chiude la raccolta (Il ritorno), leggiamo: Ogni tanto ritorno al mio Cantiere/a risentire le voci di un tempo/ a ritrovare ciò che si è perso. Il Cantiere, dunque, si fa anche simbolo del passato, di quella parte di noi che non è più e che il tempo monda ed èleva, interiormente, rendendocelo sacro. Ma il Cantiere a cui allude Mundula, forse, è pure un altro: il ben più alto Cantiere da cui tutto ha origine e a cui s’innalza – o s’introflette – lo sguardo: e allora me ne sto tra me e me e/lungamente m’interrogo su quanto/mi è accaduto e qui scopro un cantiere/in fermento una ribollente officina/e vedo quanto ho costruito quest’anno/appena trascorso quali mura o torri/ho innalzato per giungere fino a Te. Un Cantiere umano e artistico dentro il più ampio Cantiere dell’incessante Creazione, al cui Artefice il poeta vuole avvicinarsi, coi buoni frutti del proprio, di Cantiere, a lui affidato dalla nascita.  

    I componimenti, all’interno della raccolta, si susseguono senza indicazioni cronologiche e senza accorpamenti in sezioni tematiche. Né vi è introduzione o altro scritto. Le ultime otto pagine raccolgono invece parte dei numerosi e qualificati giudizi espressi, nel corso degli anni, sul poeta e sul prosatore (tra i tanti, Mario Luzi, Carlo Betocchi, Giuliano Gramigna, Giorgio Bàrberi Squarotti, Dante Maffia, Franco Fresi, Stefano Jacomuzzi, Pietro Civitareale, Franco Loi, Ferruccio Ulivi). 

 

    Per entrare nella poesia di Angelo Mundula può essere utile richiamare quanto scrisse di lui, a suo tempo, Giorgio Bàrberi Squarotti (riportato in appendice al libro): “…un grande poeta metafisico, il maggiore che si abbia oggi, accanto a quel Luzi che, significativamente è protagonista  e dedicatario  di  uno dei componimenti  del libro. In uno stile elevato,  un poco lento, appena a tratti percorso da un brivido di ironia o di disperazione, Mundula ricompone l’idea della poesia come discorso dell’essere e del vero, partendo dalla sua città, Sassari, quella dell’esilio “pel tenace cammino verso la luce della Gerusalemme celeste.”

    Una chiave, dunque, quella escatologica, importante per entrare nella Weltanschauung dell’autore, la cui  poetica, non a caso, sembra tradursi proprio in una scrittura protesa comunicativamente all’Altro, per condurlo a sé, non lasciarlo a distanza: Ogni uomo è uomo/solo nel suo incontro con l’altro/niente i più nutriente che discorrere/con uno sconosciuto. Mai/perdersi nell’Io come dentro/un imbuto. L’uomo che ci/vede chiede d’essere visto/e guardiamo soltanto gli/occhi che ci scrutano lo sguardo/che che ci attende….)(“La strada”).

    Una “semplicità” vera, la sua, e, nel contempo, apparente (in quanto dissimula, spesso, in modo accorto, profondità e ricchezza di senso); in cui si rinuncia, teleologicamente, a percorsi di ricerca incentrati quasi  esclusivamente sul linguaggio.

    Potremmo quindi considerare questo libro come un’unica, articolata meditazione sull’Uomo, sul mistero della vita, sul destino ultimo delle cose (Ho voluto spiegarmi tutto/e non c’era niente da spiegare:/tutto il sale della vita è soltanto/l’inspiegabile. Così in alto/così in alto che la nostra mano/non potrà mai toccare il/nostro sguardo non potrà mai vedere/ciò che è troppo evidente./Il nostro vero approdo è il naufragio.)(“L’inspiegabile”). Molte poesie prendono spunto da luoghi visitati, da letture, da eventi reali, anche minimi: Quest’anno non ci sono zanzare né/vespe: pungevano, facevano male./Ma questa improvvisa sparizione/non ci (dis) turba meno (“Assenze”). Non manca la meta-poesia: Figuro nella tua bibliografia,/caro Luzi, anche per una mia poesia/scritta sulla tua poesia cercando/anch’io come su una stele di Rosetta/”frasi e incisi di un canto salutare.” (“Davanti alla stele di Rosetta”). Né, intuibilmente, manca la preghiera, trasfusa nel canto (O Signore, non circondare la mia vita/di troppi enigmi: la mente vi si perde/il cuore è in pena. Ciò che sembrava/chiaro è improvvisamente tenebra/ogni lieve foglia pesa come un ramo/inizia nuovamente la lotta con l’angelo/mentre attendo il bianco uccello dell’alba/o appena quella luce che si versa da/non so dove sulla mia povera vita./E talvolta ne raddoppia gli enigmi. (“Notte dell’anima”).

    La poesia di Angelo Mundula non sembra nascere dal suono, dal ritmo o da alchimie linguistiche, ma dall’urgenza di esplicitare pensiero, fede, sentimenti, sguardo preciso sul mondo: ovviamente, senza nulla escludere. Ciò, spesso, per via metaforica, o con dolente ironia.

    Pur nell’opinabilità degli accostamenti, andando oltre gli echi leopardiani (vedi  “Rio Mannu”), si intravedono, in Mundula, consonanze tematiche con Giorgio Betocchi (in particolare, “Poesie del sabato”) e Mario Luzi, come accennato sopra. Lo stile colloquiale, le originali soluzioni richiamano talvolta, invece, la poesia di Valentino Zeichen: per la linearità della sintassi propria della lingua ordinaria; ma sulla quale Mundula innesta dell’altro, a cominciare dalla metafora a cui demanda opzioni di senso. Egli fa inoltre uso di cesure e sospensioni, nei versi e nelle parole, di anafore e dell’enjambement, con l’effetto di una raffinata musicalità quanto di una maggiore forza comunicativa. Ma ciò che è dato cogliere, nell’immediato, è l’utilizzo coraggioso di rime e di assonanze, soprattutto interne.

    Altro aspetto da chiarire è l’uso che il poeta fa della prima persona (scelta che da Eliot fino a i nostri giorni genera spesso incomprensibili pregiudizi), che nel caso specifico non si deve certo a una tendenza solipsistica, bensì al convincimento della   centralità dell’Uomo quale referente imprescindibile, fondante di qualunque relazione interpersonale e sociale: …Mai/perdersi nell’Io come dentro/un imbuto. L’uomo che ci/vede chiede d’essere visto/e guardiamo soltanto gli/occhi che ci scrutano lo sguardo/che ci attende….)(“La strada”).

    Una personalità poetica dal forte segno, quella di Angelo Mundula, ancora da conoscere; lontana da mode e da tendenze; fuori dal tempo ma dentro un altro Tempo in cui crediamo, fortemente, segga già, a pieno titolo.   

 

Sassari, 11 gennaio 2007

 

                                                                                                          Giovanni Nuscis

 

 

 

Da  Il cantiere e altri luoghi

 

 

 

Nel Cantiere

 

Nella grande libertà del Cantiere

io mi aggiravo come un prigioniero dentro

una gabbia di ferro, gettando a mare

tutte le scorie del mondo, che da ogni

parte mi piovevano addosso.

In quelle acque mi purificavo

di tutte le impurità innalzando una

preghiera di ringraziamento

al Dio che si nascondeva non so dove.

Quello era il mondo e non c’era nessun altro

“vietato l’ingresso a ogni estraneo

ai lavori” diceva lì presso un cartello

mentre il Cantiere mi forgiava

il mare mi avvolgeva come un mantello.

Li sono stato incudine e martello

isola e mare, una volta per sempre.

 

 

 

 

Riu Mannu *

 

 

Riu Mannu, piccolo fiume,

che ridicolo vederti giungere alla foce

con quel tuo nome solenne e

sotto l’arco di trionfo

dell’antico ponte romano.

Vano è ciò che gli uomini

decretano per noi. Lo scopro

nel tuo nome che si perde

tra poche erbe selvatiche

tra escrementi di vacche e

altre indecenze mentre costeggio

le tue sponde come fossero

le date di una storia che si ripete

che vanamente scorre dalla

fonte alla foce sempre meno

limpidamente fino a quest’acque perse

in cui io stesso mi perdo come

alla fine del tempo e della storia.

 

 

(NdR Dal sardo, “Fiume grande”. Nome attribuito nell’antichità e tramandatosi,  in Sardegna, a numerosi corsi d’acqua.

 

 

 

Strade

 

 

Fra tanto clamore nessuna vera voce

fra tante strade nessuna via da percorrere

neppure quel “sentiero da capre” che Montale

vide aprirsi sulle nostre mappe neppure

quelle nostre rampe su cui ogni giorno

ci arrampichiamo per vedere le stelle

la luna o marte. Niente e nessuno in

questo innominabile buio. Se non fosse

per quel tenue barlume che traspare

da qualche parte e fa dire: “è giorno”

mentre intorno si addensano le ombre.

 

 

 

 

Del fare

 

 

Oh se potessi non scrivere

lasciando queste parole in cambio

di quel che dicono! Oh se potessi

finalmente trovare il mio vero

esistere votando la mia vita

alla vita dell’altro. Ma sono

un uomo impastoiato dalle parole

di questo antico suono che mi strugge.

Vado cercando vita ove la vita fugge.

 

 

 

Il ritorno

 

 

Ogni tanto ritorno al mio Cantiere

a risentire le voci di un tempo

a ritrovare ciò che si era perso.

Odo tutti e nessuno mi ode.

Mai così tanto m’entrano nel cuore

gli antichi suoni e le eterne cose del

mondo: piccoli rumori di un granchio

che scivola sullo scoglio, il sibilo

di un serpe, un brusio di vespe

improvvisamente ridestate dal torpore,

un passo d’uomo… forse mio padre

venuto a salutarmi chissà da che parte

e tutto quello splendore di mare e di cielo.

Nulla è mutato e tutto è diverso.

C’era tutto, c’è sempre, ma non c’è più,

non c’è più niente: e il cuore svuotato

come quella conchiglia che raccolgo

sulla spiaggia e subito getto tra le onde.

Chissà dov’è andato

dove si è insediato

il suo misterioso abitatore.

 

 

 

    Angelo Mundula è nato e vive a Sassari. Ha pubblicato, in poesia Il colore della verità  (Padova, 1969), Un volo di farfalla (Pisa, 1973), Dal tempo all’eterno (Firenze, 1979), Ma dicendo Fiorenza (Milano, 1982), Picasso fortemente mi ama (Firenze, 1987), Il vuoto e il desiderio (Catania, 1990), Per mare (Padova, 1993), con Giorgio Bàrberi Squarotti e Giuliano Gramigna, La quarta triade (Milano, 2000),  Americhe infinite (Milano, 2001), Vita del gatto Romeo detto anche Meo (Milano, 2005); a cui si aggiungono due libri di prosa: Tra letteratura e fede (Firenze, 1998) e L’altra Sardegna (Milano, 2003). Ha collaborato con i maggiori quotidiani italiani e con prestigiose riviste. Da vent’anni collabora intensamente con le pagine letterarie e culturali dell’”Osservatore Romano”.

 

 

 

“Ciatu” di Flora RESTIVO – Recensione di Marco SCALABRINO

CIATU by F.R.

       Ho conosciuto Flora Restivo dodici anni fa, correva l’anno 1994. Si teneva, tra le svariate attività dell‘associazione culturale ericina Anteka, una annuale abbuffata, camuffata da gara di cucina da espletarsi fra gli associati. Questi, unitamente ai familiari e a qualche ospite di riguardo, erano i destinatari delle portate e bensì i giudici di gara. Tra i piatti, ricordo con vivo gusto, un couscous all’araba che ottenne un consenso generale e che, ad urne aperte, si seppe essere opera, appunto, di Flora Restivo. Nelle circostanze di quella serata autunnale, Flora Restivo e io avemmo modo di scambiare qualche parola, di scucire alcune rapide impressioni. E ci siamo vicendevolmente scoperti, in un clima di crescente empatia, sostanzialmente innamorati della medesima cosa: la poesia dialettale siciliana.

Da allora, in forza al legame che la Poesia esercita – appresi peraltro in seguito che lei era la presidente di Giuria del premio letterario “ANTEKA – Erice” indetto da quel medesimo sodalizio – il nostro rapporto andò vieppiù consolidandosi, specie sotto il profilo umano. Seppi che, brillantemente licenziatasi al Liceo Classico Ximenes di Trapani, lei sposò, giovanissima, Arnaldo Cugurullo e che – interrompendo gli studi universitari di Etnologia e Tradizioni Popolari col prof. Nino Buttitta – seguì il marito, responsabile commerciale di un noto marchio nazionale, in giro un po’ per tutta la penisola fino ad approdare, dopo una intensa stagione di peregrinazioni, in Calabria prima e in Umbria poi. Moglie e ben presto madre di Stefania (cui è dedicata la silloge CIATU), visse lunghi anni lontano dalla sua Sicilia.

Nel 1997 Flora Restivo intervenne quale relatrice, sia a Palermo che a Trapani, alla presentazione della mia silloge PALORI e nel corso del 2001, in virtù del credito che aveva a mano a mano acquisito ai miei occhi e di una risoluta sensazione, le affidai – spiazzandola, lei stessa mi confesserà – la mia seconda raccolta, TEMPU palori aschi e maravigghi, affinché ne stilasse la prefazione. Per farla breve, la raccolta ha visto poi la luce nel 2002 e io non mi stancherò mai di ringraziarla per la dedizione e l’amicizia  mostrate e per gli esiti felicissimi del suo lavoro.

         Non sembrino fuorvianti tali discorsi. Essi tendono in buona sostanza a rispondere alle domande: Chi è? e Da dove “spunta” Flora Restivo?, ci aiutano ad “inquadrare” nella storia, nella società, nella cultura la Nostra. Flora Restivo, difatti, non è il caso letterario del giorno, non configura il “fenomeno” che le case editrici periodicamente si inventano per battere cassa tra i lettori, non reincarna Minerva, scaturita cioè come la dea già adulta e armata dal capo di Zeus.

         Ecco gira allora a suo favore quanto appena detto … la frequentazione sin dai banchi di scuola della buona letteratura, l’esercizio acquisito negli anni quale presidente o membro di giuria di concorsi letterari, la conoscenza documentale e personale di autori dialettali, sia siciliani che di altre realtà regionali italiane, sia classici che contemporanei. E oltre ciò l’innata disciplina, i “sudati” studi, i privati allenamenti e, non ultime, la volontà di ascoltare, la capacità di cogliere e di esaltare nella propria individuale formulazione quanto di più utile le è tornato da stimoli esterni e da (buoni) consigli.

            <Nessuno procede da solo né nella vita, né per i sentieri  della poesia; né mai poeta ha percorso la sua strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo>: sono parole di Salvatore Camilleri tratte dal suo MANIFESTO della nuova poesia siciliana. A conferma di esse, sono state frequentissime, in questo decennio, le occasioni di incontro, le telefonate pomeridiane, le chiacchierate durante le quali, pur se comprensibilmente in maniera disarticolata e mai esaustiva, Flora Restivo e io abbiamo discorso di temi quali l’Ortografia del Siciliano, la forma e il simbolo piuttosto che il contenuto e la mimesis, il movimento e i protagonisti del Rinnovamento della Poesia Siciliana, nonché il plurale dei sostantivi, la filosofia e le questioni del linguaggio promosse da B. Croce, L. Wittgenstein, F. De Saussure ed altri, le problematiche connesse al trattino d’unione, alla perifrastica contratta … o, semplicemente, ci siamo scambiate le nostre reciproche esperienze di vita.

In tali frangenti, gli spunti forniti dal MANIFESTO della nuova poesia siciliana, e gli scritti di Salvatore Camilleri e di Paolo Messina, e dal GIORNALE DI POESIA SICILIANA, e gli interventi di Salvatore Di Marco e di Pietro Tamburello, sono stati i nostri fari.    

         Sono in effetti, questi, argomenti che necessitano di una soluzione prima di misurarsi col foglio bianco. E non già per essi stessi, non per riuscire a sfornare un “prodotto” che catturi il plauso del pubblico, né tanto meno per carpire la benevolenza della “autorevole” giuria di turno; quanto perché ogni scrivente deve acquisire determinatezza, coscienza, responsabilità del proprio dettato. E ne è maturato il convincimento che ci debba essere cuore, passione, ingegno in chi scrive; ma, parimenti, non può difettare la forma, la  disciplina, la scelta. 

         Come contemplare tutto questo? In verità, non esistono scorciatoie, soluzioni preconfezionate, formule magiche. Ciascuno di noi, ognuno degli scriventi, deve trovare in sé la propria strada, la propria sintesi, la propria espressione. Propria, individuale, unica; che non faccia il “verso” a nessuna altra, e ciò, qualsiasi codice linguistico si adotti. E qualsiasi codice si adotti, si impone l’affrontarlo con rispetto, con rigore, con cognizione di causa. Nessuno di noi ritengo affronterebbe mai il Francese, l’Inglese, il Tedesco … senza conoscerne l’ortografia, la morfologia, la sintassi, la semantica … 

         E allora perché farlo col Siciliano? Non credo basti essere nati – e cresciuti – nell’Isola per scrivere il Siciliano! Noi tutti siamo sì, in virtù di ciò, dei “parlanti”. Per acquisire l’altra qualità, la qualità che ci qualifichi “scriventi”, occorre un “apprendistato”, occorre un impegno diuturno volto alla conoscenza delle opere degli Autori siciliani e alla lettura di saggi inerenti agli stessi e al Dialetto, occorre la frequentazione di un preliminare, diligente esercizio di scrittura. In definitiva, bisogna studiare il Siciliano.

         Il dilemma della scelta tra Italiano e Siciliano (blocchiamo così sul nascere eventuali quesiti in relazione a questo aspetto) non si è mai posto per Flora Restivo; lei non ha mai dovuto sciogliere alcuna perplessità di tale genere: ha scritto in Siciliano perché il suo sentire è siciliano, i suoi pensieri nascono in siciliano, il suo animo è profondamente, convintamente siciliano.

         Secondo lo Studio del Centro Ethnologue di Dallas: <Il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata>, <è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui> in Siciliano e in Italiano standard. <Il dialetto – asserisce Salvatore Riolo – non è una corruzione né una degenerazione della lingua e non potrebbe mai esserlo, perché i dialetti non sono dialetti dell’italiano, non derivano, cioè, da esso ma dal latino, e soltanto di questo potrebbero eventualmente essere considerati corruzione>. 

         E Guido Barbina e Roberto Bolognesi rispettivamente incalzano: <Tralasciamo, perché puramente accademico, il pretestuoso problema della differenziazione fra lingua e dialetto>; <Tecnicamente i termini lingua e dialetto sono interscambiabili>, <il loro uso non implica alcuna precisa distinzione genetica e/o gerarchica. Tutti i cosiddetti dialetti italiani sono lingue distinte e non dialetti dell’Italiano>.  

         Benché di suo non manifestamente Poeta, la poesia era già entrata a passi da gigante nella vita di Flora Restivo, tant’è che, nella veste di presidente della Giuria del premio letterario POESI@ & RETE, tra l’altro, lei scriveva: <C’è poesia o non c’è, quale che sia il modo che ciascuno trova più congeniale alle proprie esigenze espressive, e non esiste alcuna differenza, in termini di qualità, tra poesia in lingua e poesia in dialetto: scrivere in dialetto è una scelta che non pone questo in posizione ancillare nei confronti dell’Italiano. Se è vero, come dice Cesare Pavese, che la ricchezza di una generazione è data dalla quantità di passato che contiene, ebbene di questa ricchezza noi ne possediamo da così tanto tempo che fa parte ormai della nostra mappa genetica. Guardiamo al futuro! E’ inutile rammaricarsi del fatto che si vadano perdendo le “nostre belle e sicule parole”. E’ certo che si perderanno fintantoché i poeti si parleranno addosso, scriveranno sempre allo stesso modo e degli stessi argomenti. Vediamo se è possibile parlare, che so, di filosofia, di società, di rapporti umani, di valori; senza retorica. Non sarà mummificando le parole che risolveremo la questione. Bisogna promuovere un rinnovamento tenendo presenti le lezioni che ci vengono dai nostri dialettali più avvertiti e da quelli di altre regioni, bisogna studiare la poesia nel suo complesso. E bisogna adoperare un linguaggio che sia carne, sangue, passione, pensiero; un linguaggio coerente ortograficamente, rispettoso delle regole e, al contempo, munito di spirito innovativo. Siamo nel terzo millennio e anche se, per esempio, il sonetto è nato qui da noi, ciò non vuol dire che dovremo per forza scrivere sonetti e semmai scriviamo dei buoni sonetti. Rispettando e onorando le nostre alte tradizioni, consideriamo che esiste pure il verso libero, e liberiamo il linguaggio da lacci e laccioli. Che si scriva poesia in qualsiasi registro, ma che si tratti di poesia vera. Il poeta vive, respira, sta immerso nella realtà, non può ignorare problematiche di nessun tipo. Allora si parli di tutto! Di sicuro non sarà con le zagare, le malannate, le soperchierie subite, con tutto il rispetto argomenti triti e ritriti, che potremo legare i giovani all’amore per un linguaggio che è straordinariamente ricco, vivo, duttile. Saranno i giovani a raccoglierne l’eredità e dobbiamo quindi il più possibile avvicinarci al loro mondo, coniugando il rispetto per il linguaggio alla molteplicità degli stimoli a cui loro sono sottoposti. Forse così facendo potremo avere una poesia in Siciliano a tutto campo, aperta alla società e non rivolta solo agli addetti ai lavori, potremo avere poesia vera, che è vita, morte, resurrezione all’infinto e non certo raffigurazione di sterili rimpianti o banale descrittività. E tutto ciò con la fierezza della nostra sicilianità e capaci infine di trasmetterne la  valenza>. 

Come vedete le idee erano ben chiare e delineate assai prima che “la febbre dell’oro”, che evidentemente già covava, nell’Autunno 2002 l’avvampasse.

Nel gioco che mai concederà tregua della definizione della Poesia, Flora Restivo ama molto quella di Attila József: <Una poesia può essere considerata come un’unica parola nascente.>

         Affascinante definizione. Ma è estendibile alla poesia in Dialetto?

<Un concetto – asserì Attila József – è lo stesso sia per un cinese che per un ungherese o un inglese. Chiunque può esporlo con le proprie parole. Il concetto, in quanto spiritualità, è dell’umanità intera.>; <La poesia in dialetto – affermò Mariano Lamartina – ancora vive. Vive, e non importa se sarà il canto del cigno. Il dialetto rimane come ultimo approdo alla serenità del mondo classico, anche se è destino che di esso si parlerà come lingua morta, al pari del greco e del latino.>; <I limiti del mio linguaggio – enunciò Ludwig Wittgenstein – sono i  limiti del mondo.>

Dalla fausta combinazione di tali precetti, scaturisce l’icona che apre alla “lettura” della poesia di Flora Restivo: l’assioma DIALETTO = MONDO; l’assunto ovvero che “l’essere siciliana” è la dimensione in cui i fatti della sua poesia avvengono, il Dialetto è l’essenza che tale “dimensione” rappresenta.

         La pubblicazione della silloge di Flora Restivo, CIATU, è del Marzo 2004, ma l’attenzione alla sua “parola poetica” risale ad un paio di stagioni  prima: la fine del 2002.

Salvatore Di Marco, che a più riprese ne ha incoraggiato l’esordio, Mario Grasso, che dalle pagine della Gazzetta Ufficiale dei Dialetti d’Italia ne salutò in toni entusiastici il debutto, Franco Loi, dei testi del quale la Restivo ha curato e custodisce inedite alcune versioni nel nostro Dialetto, versioni che il “Milanese” ha apprezzato, e Paolo Messina, l’innovatore per antonomasia della Poesia Dialettale Siciliana, il prof. Salvatore Camilleri, il cattedratico Salvatore Trovato, Lia Mauceri, si sono pronunciati in termini lusinghieri sul suo lavoro e, naturalmente, Giuseppe Cavarra, della cui dotta prefazione la silloge della Restivo si avvale. E non da meno è stato il riconoscimento e l’ammirazione da parte dei militanti: gli affermati Vito Tartaro e Senzio Mazza, il giovane e valente Pippo Samperi, l’inedito Nino Fraccavento, il rinomato Carlo Trovato, nonché di eruditi del calibro di Lina Riccobene, Sebastiano Burgaretta, Carmelo Lauretta.

         <Ho imparato come non scrivere dai cattivi poeti. Il resto è poesia> dichiara, in un secco, provocatorio aforisma Flora Restivo.

         Ma, cosa scrive e come scrive Flora Restivo?

I versi di Charles Baudelaire, a pagina 17 dell’antologia, non sono posti lì a caso! Credete, non una delle 4113 parole di Flora Restivo è posta lì dov’è per caso! Ognuna di esse é stata scelta; è passata attraverso un vaglio dalle maglie fittissime, ha dovuto assoggettarsi ad una analisi semantica, sonora, lirica, ad una verifica di posizione, di suggestione, di effetto severissime, e alla fine la prescelta ha prevalso non perché solo seducente o funzionale, non perché solo rispondente alle esigenze di metro o all’urgenza di realizzare wittgensteinamente il mondo (cosa vieppiù ardua con una lingua che se pure viva va perdendo ogni giorno i pezzi e che paga un prezzo salatissimo alla scienza, alla tecnologia, alle contaminazioni) non perché solo polisemica o arguta … ma perché tutto questo assieme. E soprattutto perché siciliana. La parola di Flora Restivo infatti rivendica con forza la sua appartenenza, si gloria di essere scevra da italianismi, vanta la sua refrattarietà ai traccheggi del verso.

Ogni sua poesia è un singolo evento, un originale atto creativo, una nuova sfida a se stessa, per superare i traguardi già raggiunti, i suoi e, perché no, quelli di qualsiasi altro poeta. Nella sua privata officina, nell’intellettuale suo “laboratorio” (per dirla con Paul Valéry) in cui lei “trasforma l’esperienza in coscienza” (stavolta tiriamo in ballo Franco Fortini), si concepisce, si accresce, si perfeziona l’emancipazione lirico-formale di Flora Restivo. E, come osserva Senzio Mazza, lei sottrae le parole–diamanti “al tarlo ignobile dell’assenza per sempre” e le incastona accuratamente, ad una ad una, negli spazi vuoti della pagina. Perché la poesia è fatta sì di parole, ma anche di spazi vuoti; di silenzio. E <il silenzio – annota Donatella Bisutti nel suo libro LA POESIA SALVA LA VITA – è tanto importante quanto le parole. Bisogna perciò imparare a leggere anche gli spazi bianchi. Questo vuol dire che là dove sono segnati, bisogna fermarsi e lasciare che, come davanti ad una apertura improvvisa, il silenzio entri e ci sommerga come un fiotto d’acqua. E quando leggeremo le parole che seguono ci accorgeremo di come ciascuna di esse sia preziosa>.

         Nel dispiegarsi in siffatta cornice, la Poesia di Flora Restivo acquista una propria originale scansione, si permea di una sua interiore armonia – De la musique avant toute chose raccomandava Paul Verlaine -, sfocia nel “verticalismo lirico”. E appronta – in una quarantina appena di fotogrammi – un palpitante caleidoscopio di pulsazioni: lu ciatu di tutta una vita vissuta.

         I connotati della brevità e della l’essenzialità che la identificano, lungi dal puntare al risparmio, investono sulla qualità della parola, sul peso specifico di ognuna di esse, sulla capacità loro <di cogliere i nuclei più vitali del travaglio di pensieri e di affetti e puntano – è l’avviso di Carmelo Lauretta – a discriminare la realtà dalle apparenze, la concretezza della parola dai  verbosi astrattismi.>   

Vi domina il verso libero, è evidente il lavoro sulla parola – il limae labor et mora di oraziana memoria – e l’ORTOGRAFIA, affrancata dalle incoerenze delle scritture vernacolari, rifugge dagli arbitri fonografici, svela netta presa di coscienza. 

Si diceva Baudelaire, ma un po’ tutti i poeti del Simbolismo francese (Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé) e dell’Ermetismo italiano ( Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale ) popolano le scansie mentali di Flora Restivo. E beninteso i dialettali d’Italia (Andrea Zanzotto, Albino Pierro, Franco Loi), giacché lei è solita ribadire <non si può amare il proprio dialetto visceralmente e contestualmente disconoscere il dialetto degli altri>. La rivoluzione a fondamento del Rinnovamento, che giusto dai Simbolisti ha preso le mosse, ha epurato la ridondanza dell’aggettivazione, l’oleografia dei vezzeggiativi e delle rime, la sclerosi della tradizione.

         SBARAGLIATA senza alcuna esitazione la concezione del dialetto quale codice sinonimo di sottocultura, SUPERATE le questioni afferenti a: raddoppiamento della consonante iniziale, aferesi, nessi fonici, RISOLTI i dilemmi riguardo a segno “j”, preposizioni e articoli, il dialetto della Restivo contempla i principi innovatori enunciati nel  Rinnovamento, specie in ordine a quelli che ne furono i capisaldi:  

1.      L’adozione della koiné siciliana

2.      La libertà metrica e sintattica

3.      L’unità di pensiero, linguaggio e realtà,

riverbera di locuzioni autenticamente siciliane, esprime assoluta aderenza alla sua anima, conferisce al Siciliano una rifondata contemporaneità, mette in risalto il proprio antico vigore, la specifica pregnanza semantica, il nobile e celebrato lignaggio.

         L’universo della Restivo, universo che ruota attorno al susseguirsi di istanti collegati tra di loro sul tenue filo della vita, è composito, a tratti  inconsueto, spesso spigoloso. Vibratamente femminile e mai femminista, radicato nell’attualità e altresì votato alla prassi proustiana del passato che l’atto del ricercare e rivivere eleva ad occasione d’Arte, è crudo e allucinante e insieme tenero e sognante. Vi si scovano riferimenti biografici, di introspezione esistenziale, di vocazione spirituale, vi si palesano elementi affettivi, sociali, ideali nella visione che “qualsiasi cosa può diventare oggetto di poesia”.

Alla luce di quanto esposto le sue poesie, quelle di CIATU e le altre che in futuro è auspicabile lei ci riserverà, obbligano il lettore a essere parte integrante del processo di creazione e gli richiedono di essere fruite sia con gli occhi che con il cuore, sia con la lingua che con la disposizione migliore dei sensi, sia con lo scrupolo filologico che con l’incontaminato avvertire. 

La poesia – ha detto Callimaco – deve trovare in sé la propria autonoma giustificazione, svincolandosi da ogni finalità didascalica, da ogni funzione civile o religiosa. Essa “è frutto di lunga, faticosa, diuturna conquista, nasce da grande studio e da grande amore”.

Il poeta, se davvero è tale, aspira sempre a dire l’inesprimibile.

            Flora Restivo ci sta provando.    

 

                                                                         Marco  Scalabrino  

 

Ju

 

Ju sugnu fatta

di nenti:

 

di ariu

di luci

d’amuri

raspatu cu l’ugna

nna petri di cori

nsirragghiati.

 

Li manu chiusi a pugnu

addifennu

stu nenti

cu tuttu lu me ciatu.

 

Na mossa, na palora …

e sugnu pupu

cu li fila

tagghiati.

 

 

Io sono fatta / di niente: / d’aria / di luce / d’amore / raschiato con  le unghie / a cuori di pietra / sprangati. / Le mani strette a pugno / difendo / questo niente / con tutte le mie forze. / Un gesto, una parola … / ed eccomi burattino / con i fili / tagliati.

 

L’ultimi stiddi

 

L’arrancata 

parissi arrè li spaddi.

                           

Qualchi muntarozzu ancora, 

lu pinninu,

e sugnu ‘n-casa.

                           

Di lu sularu allongu na scala 

l’acchianu cu l’ali a li pedi

e cògghiu, giustu ‘n-tempu

                           

l’ultimi stiddi.

 

 

La parte più dura della salita / sembrerebbe alle spalle. / Ancora qualche collinetta, / la discesa / ed eccomi casa. / Dal solaio protendo una scala / salgo con le ali ai piedi / e colgo, appena in tempo / le ultime stelle.

 

 

Canzuna

 

Siddu m’arriniscissi di cantari

la canzuna

chi mi firrìa ‘n-testa,

raciuppata cu palori di sangu 

e di ventu

chi si ciàccanu e si ncòddanu      

chi mòrinu e arrivìscinu

e mai ci crisci un pilu biancu …

 

la vulissi cantari

cu ’n-filu di vuci

a la cuddata

lenta

di lu suli.

 

 

Se mi riuscisse di cantare / la canzone / che mi  frulla in testa, / messa insieme con parole di sangue / e di vento / che si incrinano e rincollano / muoiono e rinascono / e non gli spunta mai un capello bianco … /  la vorrei cantare / con un filo di voce / al calare lento / del sole.  

"Ciatu" di Flora RESTIVO 

Edizioni Sfameni Messina 2004

Salvatore CAMILLERI – da SANGU PAZZU a Gnura Puisia – recensione di Marco SCALABRINO

CAM. - copertina

         Scrivere di Salvatore Camilleri (Catania, 1921) è, necessariamente, un po’ ripercorrere la storia della poesia e della letteratura siciliane degli ultimi sessant’anni.

         L’opportunità, indeclinabile per ogni cultore della poesia e del dialetto siciliani, mi viene offerta dalla pubblicazione della sua più recente opera: Gnura Puisia, BOEMI Editore Catania 2005.

            <Ho scritto SANGU PAZZU, la mia prima opera – sono parole di Salvatore Camilleri – negli anni 1944-45. Essa rappresentava il diario in termini lirici di chi, reduce dalla guerra, ha visto franare tutti i suoi sogni.>

         A Palermo, prima che terminasse il 1943, Federico Di Maria venne a trovarsi a capo di un nucleo di giovani poeti dialettali: Ugo Ammannato, Miano Conti, Paolo Messina, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro, e nell’Ottobre 1944 venne fondata la Società degli Scrittori e Artisti di Sicilia (che ebbe sede nell’Aula Gialla del Politeama).      

         Sul versante ionico, nella Catania del 1944, il gruppo di cui Salvatore Camilleri era l’animatore: Mario Biondi (nella cui sala da toeletta di via Prefettura si tenevano gli incontri diurni, mentre di sera li attendeva il salotto di Pietro Guido Cesareo, in via Vittorio Emanuele 305), Enzo D’Agata, Mario Gori ed altri già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto, si ribattezzò (dietro suggerimento di Mario Biondi) Trinacrismo e La strigghia, un solo foglio redatto perlopiù da Salvatore Camilleri e battuto a macchina da Enzo D’Agata, fu nel 1945 il loro giornaletto.

         <Ho cercato – prosegue Salvatore Camilleri – nella poesia l’unica verità possibile e, giacché le parole dell’italiano erano incrostate e cristallizzate, le ho cercate nel siciliano che lasciava ampie zone al maggese, alla ristrutturazione. Bisognava inventarsi un nuovo linguaggio e la mia ricerca, di un linguaggio nuovo interiormente siciliano, fu la prima che si ebbe in Sicilia. Bisognava rinnovare la sintassi senza distruggerla, accostarsi all’analogia con cuore umile, creare una zoologia poetica, una nuova botanica poetica, un rinnovamento interiore e non solo di forme, di sostanza e non solo di impressioni fuggitive. Doveva entrare nell’area della poesia siciliana la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali, ma come patrimonio culturale che chi scrive brucia nell’atto della creazione.>

         <Il dialetto – afferma Paolo Messina nel pezzo in ricordo di Aldo Grienti, pubblicato a Febbraio 1988 sul numero ZERO del ritorno del Po’ t’ù cuntu! – non era più portatore di una cultura subalterna, ma si era innalzato alla ricerca di contenuti (e quindi di forme) su più vasti orizzonti di pensiero. Sicché con lui (e con gli altri poeti definiti allora “neòteroi”, smaniosi cioè di novità e riforme) la poesia siciliana toccava il punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica, pur restando (linguisticamente) siciliana>. <Naturalmente – postilla – eravamo consapevoli dei rischi dell’opzione dialettale che, se da un lato ci portava alla suggestione della pronunzia, dall’altro restringeva alla Sicilia il cerchio della diffusione e dell’attenzione critica.>        

         <Io – asserisce Salvatore Camilleri – intendevo rinnovare la poesia dall’interno, per evoluzione spontanea del siciliano, attraverso le fasi ineluttabili del processo di sviluppo linguistico; Paolo Messina pensava di dare subito un taglio netto al passato, e lo diede. Il motivo dei nostri diversi atteggiamenti sta nel fatto che io avevo prima letto Croce e poi i simbolisti, Paolo aveva letto prima i simbolisti, poi Croce.>

         Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore della poesia dialettale siciliana. Ce la indica Paolo Messina, nel suo pezzo citato del rinato Po’ t’ù cuntu! edito a Palermo e diretto da Salvatore Di Marco: quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania il 27 Ottobre 1945.

         <L’innovatore – conferma Salvatore Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1989 di Arte e Folklore di Sicilia di Catania – fu Paolo Messina, ma bisognò aspettare almeno cinque anni prima che altri poeti maturassero quella rivoluzione, formale e strutturale che era in atto>. <Aldo Grienti – ribadisce nel MANIFESTO della Nuova Poesia Siciliana, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989 – fu il primo a leggere, nel 1947, le poesie di rottura di Paolo Messina, avendole pubblicate nella rubrica da lui curata.> E incalza: <Si pubblica a Catania nel 1947, diretto da Giovanni Formisano, Torcia a ventu, un settimanale con una rubrica di poesia siciliana curata da Aldo Grienti, dove appare la lirica Ura ca passa, di Paolo Messina, primo e reale esempio di poesia dialettale moderna.>

 

Ma cosa è stato il Rinnovamento? Chi ne costituì il movimento? Quale ne fu il programma? In sostanza, di che si tratta?

         In La nuova scuola poetica siciliana, proemio al suo volume Poesie Siciliane (Palermo 1985), Paolo Messina così ricorda: <Nel 1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, quel primo nucleo di poeti, che già comprendeva le voci più impegnate dell’Isola, prese il nome del Maestro e si denominò appunto Gruppo Alessio Di Giovanni. Occorre però dire che non ci fu un manifesto, né l’ausilio di un apparato critico, né un riscontro adeguato sulla stampa. I maestri preferimmo andarceli a cercare altrove e ricordo che si parlava molto della poesia francese, da Baudelaire a Valéry, e delle avanguardie europee. Circolava di mano in mano un vecchissimo volumetto delle  Fleurs du mal, che credo fosse di Pietro Tamburello (il più informato allora, fra noi, sulla poesia straniera) e circolavano ovviamente i testi della Scuola Poetica Siciliana, di quella grande “ouverture”, come fu detto, che preluse, tanti secoli prima, alla nascita della nostra civiltà letteraria.>

         Il numero di Settembre 1988 del giornale di poesia siciliana, ospita il pezzo dal titolo UNA OCCASIONE MANCATA. Da esso stralciamo: <Allorquando nel 1953 quel gruppo di poeti riunito da comuni idealità di rinnovamento letterario e culturale, constatata l’impossibilità di condurre in Sicilia un discorso di poesia nuova attraverso le pagine del Po’ t’ù cuntu!, pensò di darsi un proprio foglio di proposta e di battaglia letteraria, Pietro Tamburello volle chiamarlo Ariu di Sicilia. Fondato nel 1954 da Pietro Tamburello, che ne assunse la redazione, Ariu di Sicilia fu un foglio di quattro pagine, che usciva ogni mese e che durò esattamente da Marzo a Ottobre di quell’anno. Visse il suo breve tempo in povertà di mezzi finanziari e fu un semplice inserto del Po’ t’ù cuntu! I testi pubblicati furono in tutto 115 di 41 autori. Tra questi c’erano Ugo Ammannato, Miano Conti, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Pietro Tamburello e Gianni Varvaro. Meno costanti ma presenti: Ignazio Buttitta, Salvatore Di Pietro, Nino Orsini, Elvezio Petix.> 

         Nell’articolo titolato La civiltà dei caffè, pubblicato nel Febbraio 1988 a Palermo sempre sul numero ZERO del Po’ t’ù cuntu!, Salvatore Di Marco registra: <Negli anni Cinquanta c’era a Palermo, in via Roma quasi all’altezza dell’incrocio con il Corso Vittorio Emanuele, uno dei caffè Caflish. Al piano superiore, una saletta con sedie e tavolini. Ebbene, in quel luogo e per anni – sicuramente dal 1954 al 1958 – nella mattinata di tutte le domeniche si riunivano i poeti del Gruppo Alessio Di Giovanni. Frequentatori erano, oltre a chi scrive, Ugo Ammannato, Pietro Tamburello, Miano Conti, Gianni Varvaro e altri. Vi arrivavano spesso Ignazio Buttitta da Bagheria, Elvezio Petix da Casteldaccia, Antonino Cremona da Agrigento, e da Catania Carmelo Molino e Salvatore Di Pietro: insomma, i personaggi più significativi allora della nuova poesia siciliana. In quegli incontri si leggevano poesie, si parlava del dialetto siciliano, si discuteva di letteratura e di politica>. 

Museo Etnografico è un pezzo non firmato apparso il 31 Maggio 1954, ma, sostiene Salvatore Camilleri, sicuramente di Pietro Tamburello. Vi è detto fra l’altro: <Noi vagheggiamo un ideale museo ove riporre definitivamente i tardi epigoni del Meli e dello Scimonelli, i rapsodi d’un inverosimile mondo pastorale, i beati menestrelli di una Sicilia convenzionale e manierata e tante brave persone che professano critica letteraria e non sanno distinguere fra la melensa faciloneria dei loro compagni di museo e la consapevolezza di chi affida al linguaggio del focolare i propri sentimenti, il suo pensiero e le sue fantasie, solo per una esigenza spirituale che si può discutere ma non ignorare. In questo museo delle idee sbagliate non può mancare quella di chi considera il poeta siciliano un complemento del folklore locale, quasi una curiosità paesana da offrire ai visitatori insieme al carrettino, alla brocchetta e al paladino di Francia impennacchiato.>

         Nel 1957 Aldo Grienti e Carmelo Molino furono i curatori della Antologia POETI SICILIANI D’OGGI, Reina Editore in Catania. Con introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, essa raccoglie, in rigoroso ordine alfabetico, una esigua qualificata selezione dei testi di 17 autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino, Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando Patamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro.     

         Ma già prima, nel 1955, con la prefazione di Giovanni Vaccarella, aveva visto la luce a Palermo l’Antologia POESIA DIALETTALE DI SICILIA. Protagonisti il Gruppo Alessio Di Giovanni: U. Ammannato, I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C. Molino, N. Orsini e P. Tamburello.

         <Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro Giovanni Vaccarella nella prefazione a POESIA DIALETTALE DI SICILIA – è poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza. Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria patetica, guadagna in scavazione interiore quel che perde in effusione. Le parole mancano di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente miele e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei veri poeti la oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la sigla dei grandi.> 

         <I dialettali – osserva Antonio Corsaro, in prefazione a POETI SICILIANI D’OGGI – non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se, disuguale è il loro piano di risonanza. Nell’ambito di una lingua, per dire, ufficiale, che assorbe e trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, il dialetto si presenta come una fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella poesia ha versato gli stati d’animo, l’essenza umbratile e segreta dello spirito attraverso un linguaggio puro da ogni intenzione oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica situazione dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del mezzo espressivo costituisca ormai  una ragione valida di isolamento. Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono già arrivati a un tal segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non avere nulla da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono fare di una lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che l’usura letteraria suole meglio rispettare.>

         Nel 1959, nel saggio dal titolo Alla ricerca del linguaggio, Salvatore Camilleri considera: <Si cerca di restituire alla parola una sua originaria verginità fatta di senso e di suono, di colore e di disegno, ricca di polivalenze. E’ una continua ricerca di esperienze formali, in cui l’analogia gioca la parte principale nel creare situazioni liriche e contatti tra evidenze lontanissime. Qualcosa si è fatto veramente poesia, poesia siciliana, cioè sentita ed espressa sicilianamente, con immagini siciliane oltre che con parole. Il fatto strano, fuori dalla logica progressione delle cose, è che la rivolta è nata di colpo, sulle esperienze altrui (italiana, francese etc.) e non sull’esperienza siciliana.> E puntualizza: <La parola, nel contesto poetico, liberata dalle sue incrostazioni, ha perduto parte del suo significato semantico, acquistandone uno meno deciso, legato alla sua posizione, logica e fonica: quello analogico>, <l’immagine si è liberata dall’oggetto, risolvendosi nel simbolo, senza però mai sganciare la realtà dall’ordine oggettivo, l’aggettivazione ha subito una stretta e diviene ricerca e approfondimento del lessico.> Si tende ad <umanizzare gli oggetti, dando ad essi le emozioni degli uomini, a trasfigurare la realtà e trascenderla sempre.>   

         <A nostra puisia canciò strata – attesta Paolo Messina in Puisia Siciliana e Critica, del 1988 – picchì si livò u tistali d’i tradizioni pupulari>. E, nel menzionato La Nuova Scuola Poetica Siciliana, precisa: <Il dialetto era per noi un modo concreto di rompere la tradizione letteraria nazionale>. Ed enuncia tre di quelli che furono i capisaldi programmatici del Gruppo Alessio Di Giovanni:

1.      L’elaborazione e l’adozione di una koiné siciliana –

2.      La libertà metrica e sintattica a vantaggio della forza espressiva ma in una rigorosa compagine concettuale e musicale (di valori fonici, timbrici e ritmici) –

3.      L’unità di pensiero, linguaggio e realtà (che doveva o avrebbe dovuto garantirci una visone prospettica siciliana della vita e dell’arte).

         POETI SICILIANI D’OGGI <fu il libro – asserisce in seguito lo stesso Camilleri, in prefazione a POETI SICILIANI CONTEMPORANEI del 1979 – che mise definitivamente una pietra sul passato. Le idee si erano fatta strada, avevano raggiunto i poeti in ogni angolo della Sicilia, anche i più solitari, i meno propensi a mutar pelle, e li avevano costretti a ragionare; e così, nell’ansia polemica del rinnovamento, all’eccessivo sperimentalismo formale e al gusto funambolico dei più avanzati seguì l’abbandono dell’ottava e del sonetto, divenuti solo strumenti propedeutici; a un più deciso lavoro sulla parola e sulla metrica seguì, da parte anche dei più retrivi, il rifiuto dei moduli  tradizionali. Da questo travaglio, dai più avanzati che volevano romperla totalmente con il passato, ai moderati che volevano innestare le nuove idee nell’albero della tradizione, nacque la poesia siciliana moderna, anche grazie alla conoscenza che i più ebbero del  simbolismo francese e dell’ermetismo italiano.>

Le due sillogi, che ebbero al tempo eco nazionale (il poeta e critico romagnolo Giuseppe Valentini sulla rivista Il Belli – fascicolo n° 2, luglio 1955 – scrisse: <Il dialetto siciliano fa pensare, delicato e ricco com’è, al frusciar di una mano giovane su di un arcaico velluto> e una recensione a cura di Paolo Messina apparve in data 21 Maggio 1955 su Il Contemporaneo di Roma) e tuttora sono ben note agli appassionati, sono state antesignane del Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana.

         Il Rinnovamento della Poesia Siciliana – la stagione allora segnata dal movimento di giovani poeti dialettali palermitani e catanesi – fu rinnovamento fondato sui testi e non sugli oziosi proclami, sugli esiti artistici individuali e non su qualche manifesto; ha spazzato via la ridondanza dell’aggettivazione, l’oleografia dei vezzeggiativi, la sclerosi della tradizione.

 

         E – direte voi – Salvatore Camilleri?

         Egli, reo come del resto Mario Gori a quel tempo di non vivere più in Sicilia, non figura in nessuna delle due antologie: né la palermitana POESIA DIALETTALE DI SICILIA né la catanese POETI SICILIANI D’OGGI.

         Ma scorriamo gli avvenimenti più qualificanti di quegli anni, premettendo quanto egli ci rammenta:

1.      il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana;

2.      il Siciliano è stato lingua ufficiale per oltre due secoli (il XIII e il XIV);

3.      il Siciliano è stato strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di Giovanni, al Premio  Nobel Luigi Pirandello;

         e per inciso considerando che in Sicilia già dal Cinquecento operavano due Università: quella di Catania e quella di Messina; che nel 1543 il siracusano Claudio Mario Arezzo propose di istituire il siciliano come lingua nazionale; che a sostegno della dignità del dialetto sovvengono la presenza di Vocabolari, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera.

         Nel 1952 Salvatore Camilleri si trasferisce a Vicenza, per insegnarvi. Ma prima, nel 1948, pubblica una Antologia del sonetto siciliano (con una premessa rappresentata da un “Disegno storico della poesia siciliana”, di cui Paolo Messina in seguito dirà <prezioso, specie per chi si era spinto oltre i confini sorvegliatissimi della tradizione>) e inizia a tradurre i classici e pubblicare, sul quotidiano catanese Il corriere di Sicilia, articoli sui poeti siciliani del Cinquecento e del Seicento.

         Nel 1955 Carmelo Molino pubblica Curaddi e Giuseppe Mazzola Barreca Scuma di mari.

         Nel 1957 Antonino Cremona pubblica Occhi antichi.   

         Nel 1958 Salvatore Di Pietro pubblica Muddichi di suli.   

         Nel 1959 Gianni Varvaro pubblica Terra viva.

         Nel 1959 Salvatore Camilleri pubblica sul Po’ t’ù cuntu! svariati articoli sulla poesia siciliana dei secoli passati e recensisce una cinquantina di poeti contemporanei, fra i quali G. Mazzola Barreca, C. Molino e G. Varvaro.

         Nel 1962 Salvatore Camilleri rientra a Catania.

         Nel 1965 Salvatore Camilleri e Mario Gori, i cui contatti nel frattempo si erano rinsaldati, pubblicano la Rivista Sciara, cui collaborano, tra gli altri, Leonardo Sciascia, Giuseppe Zagarrio, Giorgio Piccitto, Nino Pino e Santo Calì.

         Nel 1966 Salvatore Camilleri pubblica, per conto dell’Editore Santo Calì, Ritornu e nel medesimo anno Sangu pazzu, ove la lingua <non è catanese, né palermitana, ma rappresenta la koiné regionale, determinata dalla sola legge del gusto; l’ortografia è quella tradizionale liberata dalle incoerenze, legata alla etimologia latina, ma non sorda al rinnovamento linguistico>.

         Nel 1971è la volta di La barunissa di Carini.

Il volume I di ANTIGRUPPO 73 (ispirato e realizzato da Nat Scammacca e Santo Calì, coadiuvati da Vincenzo Di Maria), riporta otto testi in dialetto di Salvatore Camilleri, tra i quali quattru còppuli, cudduredda, ragiuneri, e il suo commento: <Le otto poesie di questa antologia non sono che l’introduzione a un canto corale d’amore per la mia terra, una specie di canto generale il cui protagonista sarà l’anima siciliana espressa da tutti gli elementi che la compongono.>

         Nel 1975 Alfredo Danese decide di fondare e pubblicare il periodico Arte e Folklore di Sicilia, sulle cui pagine Salvatore Camilleri – che vi collabora sin dall’esordio – darà fondo alla sua vocazione di letterato con decine e decine di saggi e interventi critici.

         Nel 1976 Salvatore Camilleri pubblica Ortografia siciliana <di cui quest’opera vuole rappresentare la prima presa di coscienza. Scrivendola, ho pensato – dichiara nelle brevi note che corredano il volumetto – soprattutto ai poeti siciliani, i veri e interessati fruitori di essa.>   

         Nel 1979 Salvatore Camilleri dà alle stampe Luna Catanisa. <Non c’è risoluzione dei problemi formali senza risoluzione all’interno della coscienza, non c’è versante espressivo senza versante umano, non c’è arte senza vita. La poesia nasce sempre nell’ambito della sua dimensione storica, esistenziale e umana, non mai dall’esercizio fine a se stesso, dal nulla>.    

         Nel 1979 Salvatore Camilleri cura l’antologia “Poeti siciliani contemporanei”.

         Nel 1982 Pietro Tamburello pubblica Li me’ palori.

         Nel 1983 Enzo D’Agata pubblica Làcimi a focu lentu.

         Nel medesimo 1983 Salvatore Camilleri pubblica 70 POESIE, Federico Garcia Lorca nel siciliano di S. C. <Nessuno procede da solo né nella vita, né per i sentieri della poesia; né mai poeta ha percorso la sua strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo>.

         Nel 1985 Paolo Messina pubblica Rosa fresca aulentissima.

         Nel 1986 Carmelo Lauretta pubblica La casa di tutti.

         Nel 1989, a cura di Salvatore Camilleri, viene stampato il MANIFESTO della nuova poesia siciliana, che raccoglie i saggi e interventi critici pubblicati nel corso degli anni sul periodico Arte e Folklore di Sicilia. Tra essi assai intriganti: Il Simbolismo, Sentir Siciliano, Langue et Parole, L’Espansione Denotativa, Poesia e Magia, Non siamo dialettali!, Il correlativo oggettivo. <Questo libro, in fotocopie, di saggi e poesie che hanno visto la luce negli ultimi quarantacinque anni, vuole avere, pur nella modesta area di diffusione, molti destinatari, che si spera non siano soltanto fruitori, ma soprattutto diffusori di idee.> 

         Nel 1998 Salvatore Camilleri pubblica Il Ventaglio – Vocabolario Italiano-Siciliano. <Nel 1944, quando iniziai a scrivere in siciliano, sentii subito la mancanza di un vocabolario. Quelli che trovai, non più in commercio, ma in biblioteche pubbliche, erano vecchi di quasi un secolo, e praticamente inutili, in quanto si trattava di vocabolari siciliano-italiani. Mancava il vocabolario che mi occorreva, come mancava a coloro che scrivevano per il teatro, agli attori dialettali, agli studenti, ai moltissimi appassionati del dialetto: mancava un vocabolario italiano-siciliano, cioè uno strumento capace di aiutarmi concretamente tutte le volte che non mi veniva in mente il corrispondente siciliano di un vocabolo italiano.>

         Nel 2001 Salvatore Camilleri pubblica Lirici greci in versi siciliani (Archiloco, Mimnermo, Stesicoro, Alceo, Anacreonte, Simonide, Callimaco, Teocrito ed altri). <Traduco perché le mie traduzioni, come i miei versi, possano far parte della cultura siciliana. E’ stato un esercizio propedeutico fondamentale: mi ha aiutato a fare i conti, ancora una volta, con la versificazione, e ad averne ragione, e ciò nelle situazioni più difficili, quali sono quelle che si presentano a chi traduce; mi ha permesso di misurarmi con i poeti che traducevo, e che innalzavano, mettendomi in sintonia con la loro intelligenza poetica, i miei livelli di ispirazione; e infine ha favorito, dopo tante esperienze, la creazione di un mio linguaggio poetico, il linguaggio delle mie opere.>

         Ha peraltro tradotto e/o adattato in versi siciliani: L’Odissea di Omero ( Musa, pàrrami tu di dd’omu, mastru / di tutti li spirtizzi, chi gran tempu /…), L’Eneide di Virgilio, Le Argonautiche di Apollonio Rodio, De Rerum Natura di Lucrezio e ancora poeti lirici spagnoli e francesi, Ibn Hamdìs, Muhammad Iqbàl e gli Arabi di Sicilia.

Tra le ultime opere pubblicate: “Saffo e Catullo – poeti d’amore” e “La Grammatica siciliana”.

         Ragguardevole, inoltre, l’opera cui forse più egli tiene: la storia della poesia siciliana, in trenta volumi, di cui taluni già pubblicati.

Sul numero di Luglio-Agosto 2001 di Arte e Folklore di Sicilia, in memoria  di Pietro Tamburello, Salvatore Camilleri appunta: <Due volumi di poesie – Li me’ palori, del 1982 e in Rosi di ventu, del 1998 – nel complesso poco più di mille versi, pochi rispetto a quelli composti durante tutta una vita dedicata alla poesia siciliana. Non si può parlare, quindi, della produzione del poeta, ma di una scelta. Pietro Tamburello è un poeta ben degno di essere studiato, in profondità, lungo gli itinerari che l’hanno portato alla sue cose migliori. Dico per lui ciò che ho detto per Mario Gori e per Santo Calì: Approfondiamone l’opera con impegno e amore.>  

         Sulla stessa linea Paolo Messina, nella introduzione al volume DOVE PASSA IL SIMETO di Aldo Grienti, ribadisce: <Qualcuno (uno storico della nostra letteratura) prima o poi dovrà pure far piena luce anche su quella nuova ouverture siciliana.>

Mi sento di condividere appieno gli auspici appena espressi anche, evidentemente,   in relazione all’opera di Paolo Messina e di Salvatore Camilleri.

 

         Gnura Puisia, con le sue <piogge autunnali>, rappresenta oggi l’ultimo capitolo di questa grande storia, la summa di tutto il suo lavoro, il compimento di tutto il suo amore verso la poesia siciliana, il raggiungimento di un sogno che ha costituito tutta la sua vita. <Quasi un ventennio di riflessioni, soste, incontri, avanzamenti, in armonia con la condizione esistenziale di chi sa di non potersi abbandonare totalmente all’eresia, lo status ideale del poeta, creatore per eccellenza, quindi innovatore, trasgressore, ed anche – nei limiti – programmatore. Il cerchio non si chiude, ma tende a  chiudersi. Le conquiste formali precedenti, con pochi aggiustamenti, rimangono le conquiste di sempre, divengono le colonne del tempio; il contenuto, pure attraverso gli assalti della sofferenza, continua sulle tracce iniziali: ‘n-cerca di puisia, ‘n-cerca d’amuri pi canciari lu munnu a sumigghianza di lu me cori.>

 

 

Trazzeri stritti e sempri fora manu

li mei spiranzi, scarpi di camosciu

pari ca sungu fermu e nveci curru

mentri la vita mia si va scusennu.

Di tutti l’anni mei, patruna, amica,

lu ventu sona tutti li cianciani,

c’è na musica nova nta li cosi

e qualchi vota ci arrobbu un sicretu:

 

la luna avi l’occhi abbuscicati

li lacrimi si ficiru di vitru

nta lu cori li venti s’accapìddanu.

 

Cala la negghia supra li paroli

e s’allicca la lingua nta li scogghi.

Comu pozzu ju sulu libirarla? 

 

                                   

Poete che vivono in Sardegna

Poetesse di Jacqueline Robert

Rita BONOMO

Fiorella FERRUZZI

Savina Dolores MASSA

Angela PINNA

Luisella PISOTTU

Franca TRONCI

 

 

 

RITA BONOMO

 

 

Vive e lavora a Sassari. Diplomata in Scenografia all’Accademia di Belle Arti, collabora con alcune compagnie teatrali. Ha partecipato ad alcune mostre collettive e personali. Ha pubblicato poesie su riviste e antologie ed è uno degli autori di RIE, Magnum-Edizioni (2005). Per Liberodiscrivere ha pubblicato dìri dìri dànna (Giugno 2006). Di prossima pubblicazione, sempre per Magnum, un dramma in poesia dal titolo Grande Sproloquio Spartiacque.

 

 

 

Elegia del gene

Osanna,

Nell’aborigeno mio cielo
il mio cielo è tronco d’ ali e reti
eppure impigliata –resta- questa genia
un pesce gravido di uova incolumi
moltiplicate e moltiplicate e moltiplicate

Suo pungiglione ammorbante
quel piglio dissacrante l’appartenersi
che si fa -a puntate- buccia-buccia
a vestirmi gruccia inerme o fionda
Ah, ritornarti indietro! coltre erosa
dai cromosomi dentati da rammendare
ogni volta ogni volta ogni volta
-quali ricami ancestrali?-
se mi travesto crosta privata di me
-tua primizia sposa, e gemella- e poi crosta
si spoglia di me lasciandomi intera e morbida

e nuda

germoglio figliato in tua ombrellifera fronda

Ché poi nell’aborigeno tuo cielo
il tuo cielo è tronco d’ali e reti
eppure impigliata resta questa genia
un’ape regina che non può figliare fuchi
non collari per cuccioli,
né squame iridescenti per vestirli lucenti di luce
Suo pungiglione ammorbante è
il quanto che ci spiccica e poi ci rincolla
affini per qualità di fiati e bucce
e peccatucci similari sugli ucci ucci
di questo vivere sotto branco sciolto

Una palude in cui –tu- ti travesti anfibio
sbranchiato -e onicofago-
e io granchio -onicofago- spaiato ad evitarti laterale
sugli sgoccioli di questa vita a finire
in spicciolo squarciare l’aria sconsacrata
da più morsi di fame d’unghie
-surrogato, lenitivo d’affetto -ma- piccante-

e nudi

a germogliarci attonite statue dalle debolucce spalle spoglie d’abbracci

Ti ho nel mucchio, Signore, nel mio mazzo di geni
-a mucchi-
e negli ancora ancora candidi barlumi
d’onniscienze sante da amputarmi dal cuore
Così, sotto fiotti di coriandoli
separati per colorito e aspetto trascendo
-colorando- dal più tenue al più marcato segno
di distinzione marcata, divenendo
traccia tua indelebile

e Santa

 

 

(Da:"dìri dìri dànna -litania stolta del diritto e rovescio-" – Liberodiscrivere® Studio64 srl Edizioni – Genova, 2006)

 

 

 

Romantic – temporaneamente

E se ci si mimava
era per respirarci
in prologo-ludo

I
Specchio, specchio, specchio
Tu stai a me
come la guaina al mimo istrione
in solennità d’intenti

Una posa ad orologeria
sulle buone intenzioni sfitte

II
A.a.a. cercasi connubio
post-lunare
tra mimula meretrice
e tombarolo esperto

un formicolio in punta di dita
era l’applauso circostanziato
alla pantomima delle tue facce
sul mio ombreggiarti spiumato
la luce un orpello irregolare
in attesa di autorizzazione

III
Redenta
conclamo la rinascita
dei fiordi ammalianti
mio spettro amore
e del mio spazio-cosce
-un campo nomade d’equilibristi-

Ritenta
sui navigli scorrerti più acqua so

IV
Adultera
tra le tue ciglia di vinavil
io so della luce a memoria
e non posso incollarla
se il costumista mi veste
di piume nere, nere, nere
attorcigliandomi alle ombre

V
Opposta

Mi faccio nostalgica
su cassetti colmi
di lampadine ancora intatte
che si aprono tronfi

VI
Specchio, specchio, specchio

Mi licantropa l’immagine tua
questa luna tronfia
e bassa
e gonfia
di desideri ad esaudirsi
Una gestante
piena come l’uovo
di due pulcini gemelli rovesciati

VII
Specchio, specchio, specchio

A chiare lettere:
tu stai a me
come io al cartoccio
in cui ci abbrustoliamo esangui
unica buccia a mangiarci
in un buio a forma di buio

Impervio lo spazio
ha da accoglierci gemelli
monchi d’un ego specchio
A lustrarci i pomi
d’aperture di prossima fermata
la pallida

complice disincantata.

 

 

_____________________________

 

 

FIORELLA  FERRUZZI

 

 

E’ nata ad Ingurtosu (Arbus-Cagliari) e ha vissuto ad Arborea e in molti altri luoghi in Italia e all’estero. Giornalista professionista, ha pubblicato la raccolta poetica Prima che passi la poesia – Cuec (Cagliari, 2005). Ha vinto, nella sezione poesia, il Premio nazionale “Alghero Donna” edizione 2006

 

 

 

incarnazione

 

 

Voglio parole

Vestite di carne

Frasi che

Scovino l’amore

E lo portino fuori

Una punteggiatura che sia

Carezze e baci

E lunghi sguardi e lingua

Assetata di lingua

Nella lingua

Di una passione

Incarnata

Da odori e sapori

Tutti i sensi attenti

Assecondata e

Sbrigliata da parole

Che chiedano ragione

Solo nell’essere

Pura emozione

Facendosi beffe del rigore

Della sintassi

E provochino

Solo sguardi e

Travolgenti ammassi

Di parole sospiri e respiri

Di corpi ritrovati

 

 

 

ancora una giornata su questa terra

 

 

Ancora una giornata

Su questa terra

In questa avvisaglia di primavera

Il cielo come opale

Vale ogni pensiero

Che vola lassù

In quel creato

Che oggi ha guardato

La stupidità umana

Ancora una giornata

Su questa terra

Sprecata

Versando lacrime inutili

Inutili parole a chi non

Vuole capire

Mentre l’unico gesto davvero

Significante

In questa giornata

Sarebbe stato  solo

 un  abbraccio

E non sarebbe stata

Una giornata sprecata

 

 

 

un’altra luna piena in questa città

 

 

Un’altra luna piena

 in questa città

Godendo del cielo terso

Del gelo teso

Di un altro febbraio

Pensando alla stessa luna

in un’altra terra

Dove il cielo è ancora più terso

E intorno solo silenzio

E musica di vento

e belati di pecore e latrati di cani

e pietre su pietra

E uno stordimento di profumi

Di mare e terra e ombre

Improvvise

e improvvise vallate

e pianure e orizzonti di mare e monti

 invasi dalla luce

Di questa luna che mi fa essere

Così viva

Mentre la guardo con i tuoi occhi

Perché io so come tu la vedi

Adesso nell’isola

mentre tu non sai come io la vedo

 in questa città avvolta dal gelo

 e da un presentimento di primavera

 tra i rossi portici

I merli turriti le infinite chiese

E mi sento ancora viva

Lontana da te

Impostore

E sono felice senza te

Di respirare questa città

Solo per me

Tutta per me

E guardare

Un’altra luna piena

Stando qua

 e posso persino sentire

Un profumo che viene dal mare

 

 

_____________________________

 

 

SAVINA DOLORES MASSA

 

 

 

Savina Dolores Massa nasce e vive in Oristano. Scrittrice di romanzi, poesie, testi  teatrali e di canzoni. Presenza attiva in associazioni culturali che si prefiggono l’intento della valorizzazione della prosa e della poesia tramite eventi culturali. Ha pubblicato, nel 2006, i racconti brevi Semidio e La pietra. Selezionata in numerosi premi di poesia e di narrativa, tra i quali, Premio "A. Gramsci" edizione 2006, sezione narrativa (2° class.). E’ presente in molte antologie.  

 

Cattiva figlia

 

 

Ti ho scavato le feci

cercandoci sorrisi

induriti con il cibo

e parole

sperandole

sbiancate con le purghe.

 

Ti ho ascoltato il respiro

di rabbia che non dorme

ma sibila

peste in casa

a far marcire

i fiati altrui.

 

Ti ho cercato ragazza

e madre buona

ma

sulla pietà che non mi dona

e sui miei patetici sfaceli

son caduti solo

i tuoi occhi vescicali.

 

Ti ho pulita dal vomito

disgustandone l’aroma

di scarto di veleni

tua intristita compagnia

che non voglio ereditare.

 

Tu

sanguisuga di diritto

io

anemica di nascita.

 

 

 

 

Capolavoro notturno

 

 

Sul momento

mortificante

che ha spezzato

la linea bella

dell’orecchio

mi addormento

e resto

tra le braccia

generose

della lupa gravida d’acqua e cure.

 

Ha denti scoperti

la fiera

e una voce ninnante

ad ondate salate.

 

Culla di legno d’agrumi

senza rimprovero

e senza pretese

seni gonfi

in cui affogare

nel siero del nulla.

Pasto

senza veleno

da masticare.

 

Ha fiori di borragine

sul bordo delle iridi

vigili

sull’incoscienza

che mi dà da mangiare.

 

Capolavoro notturno

scappa

alla luna del giorno

lasciandomi sul letto

l’acqua

e il conto:

 i suoi figli nuovi

da accudire.

 

 

 

 

Parole da poco

 

 

Vi concedo le mie natiche impudìche

le cosce scarne

le posture maschili e

quelle di grazie ruffiane

di femmina che non è madre

e vale meno delle altre

io

mi umilio in libidini immacolate

dubbi fecondi

che tengo in grembo

feti

a morire di cancrena imporporata

e niente è indolore

non la mia disperata virilità

che celo sotto tre palmi di polvere

e la mediocrità

di quando mi accontento

e la superbia

di quando odio davvero

e il sangue

che sgrida le ossa per il chiasso

io

mostro il sesso

ai ciechi che hanno paura di toccarlo

ma accendo

labirinti di immaginazioni

senza uscite

e senza ansie d’amore

vendo i succhi del mio corpo

a creature simili ad un quarto di luna

come chi

ha una vecchiaia di vent’anni

o un’allegria di antica quercia

io

mangio pane e zucchero

accanto a morti di cirrosi

e che non mi si biasimino le passioni

io

sono una

che ama le parole barocche

con la crudezza giusta

per assassinarvi.

 

 

_____________________________

 

 

 

ANGELA PINNA

 

      

 

 Angela Pinna è nata a Olmedo (SS), dove vive e svolge la professione di insegnante di scuola primaria. Deve l’amore per la poesia al padre Antonio, autore di numerosi componimenti in lingua sarda. Ha pubblicato nel 2005 la raccolta di poesie “Come un monolito” –  La Maremmi Editori Firenze, collana L’autore Libri Firenze – Biblioteca 80/poeti,.

 

 

 

Alba

 

 

Da giacigli di strade

s’alza pigramente

risale

l’ombra per fusti umidi

alle chiome.

 

Sbianca

dalle facce delle case

dentro archi brevi

di tegole rosse

si riassorbe

 

l’ombra. Il sogno lento

si ritrae

a luce che incalza

dal corpo risale

e dalle membra torna

 

sogno

ombra di me

che in me reimplode.

 

 

 

 

 

Isole

 

 

Questo essere margini

questo accogliere strappi

di posidonia dai fondali.

 

Questo barricarci dietro argini

di frammenti fragili

dal tempo scheggiati.

 

Ammassare d’ora in ora

tutt’intorno barriere

di scogliere e dune.

 

Questo ergerci a tratti, sfidare

mareggiate e venti violenti,

lasciarci scavare.

 

Covare ampi antri

essere erosione

senza crollare.

 

Poi questo scoscendere

in disfacimenti

di sabbie, mutamenti

 

d’accozzaglie di conchiglie

e strappati morti coralli

e frantumi limati di bottiglie.

 

Questi distacchi continui e ritorni

di barche ai porti e onde alle battigie

che riportano cocci di rimescolati giorni.

 

Questo reggere all’ansia di soccombere

ad assalti ed approdi

che ogni volta ci lasciano più soli.

 

Questo sfa e rifà

isole di noi. 

 

 

 

 

Sopravvivenza virtuale

 

 

Nell’imminenza di una devastazione atomica

stavamo rannicchiati

dentro caselle di posta elettronica

con la difficoltà di tenere a bada

qualche sporgenza

delle nostra rotondità di chiocciola

sotto certe coperte malferme.

 

Vedevamo passare esodi di gente

tristemente avviata

a derive collettive quasi certe

noi sconsolati della loro inevitabile sorte

a sfidare la morte

(unici fortunati)

nei nostri angusti nascondigli.

 

E come accade in ogni catastrofe imminente

ci prese una smania di accelerazione

noi presumibili destinatari 

di una ipotetica sopravvivenza

incassettati in quella esistenza virtuale. 

 

 

_____________________________

 

 

 

                                                   

LUISELLA  PISOTTU

 

                                                   

 

E’ nata a Sassari nel 1967 dove vive e lavora svolgendo attività bancaria e sindacale.  Con poesie inedite, Premio Internazionale A.L.I. Penna d’Autore di Torino, semifinale nell’edizione 2004 e menzione d’onore in quella del 2005;  presente nei volumi “ Duecento” della collana “I Grandi Classici” di A.L.I. Penna d’Autore e sull’Antologia Poetica 2006 “diVersi nel vento”  del sito poesia- creativa. 

           

 

 

 

Autunno

 

 

Gocce si calano lente dal palcoscenico di nuvole,

ovattato biancore esangue attende stupore.

Televisori spenti, finestre d’eco lontane.

Terra che unisce in unico abbraccio,

momento

che in lande rugose arse dal sole,

sarà benvenuto e commiato di ricordi.

Noi isolani ascolteremo gabbiani

che, in volo prometteranno, accarezzandolo

un già prossimo inverno

 

 

 

 

Vita

 

 

La matassa si srotola all’infinito,

vi si offre.

 

Ogni fiore cade

si prepara a nuova vita

piegando il capo,

lentamente si distende,

si adagia.

 

Solo accettare, senza capire

perché il mistero è fitto,

è chiaro

 

la linea retta termina sul punto.

 

Da qui altra vita

compagno, fratello

si cuce un’esistenza.

 

Il potenziale è assoluto,

il reale giusto;

niente di più

se non l’ostacolo della ragione.

 

L’isolamento sulla pelle

ci fa tremare, senza campane.

Allunghiamo i passi, ma sono braccia

le sole a stringersi in un abbraccio.

 

Questo rimane:

calore di un corpo nudo

che nel suo altro scivola.

 

 

 

 

Il silenzio del cuore

 

 

Il silenzio del cuore

campanile senza campane,

 

stanza ovattata

di urla dolorose senza eco

 

Solitudine angosciosa,

bocca chiusa da un palmo,

occhi sgranati, a guardare il vuoto.

 

Filo spinato

all’estremità dello spazio

tra la tua pelle e la comprensione amorosa

di chi potrebbe, con uno sguardo

una parola, un tocco lieve

riportarti alla vita

 

 

 

 

 

 

FRANCA TRONCI

 


E’ nata a Cagliari nel 1946 e vive attualmente a Solarussa (Or). Diplomata nel 1966 come Ceramista, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze e in seguito quella di Sassari. Dal 1963 partecipa a mostre collettive e personali nazionali ed internazionali, con svariati riconoscimenti. Nel 2006 esce il suo primo libro di poesie "Il silenzio delle parole" – Edizioni Il Pittore D’Oro (Oristano, 2006).

 

 

 

     

Carovane

 

 

Labirinti di sabbia

avvolgono uomini in blu,

carovane dai fonemi di delirio

berberi da crepuscoli sahariani

che seguo nella deflazione

che frusta la terra,

inventando l’assurdo.

 

 

 

Karmis

 

 

Lunule d’oro

profumate

d’aromi fenicei

di mandorle e noci.

Ambrati fiumi

si riversano

su acquitrini melmosi

paludi coperte

di fango rosso.

Acini come grumi

di sangue rappreso

in terre dalle fragranze

di latte e caglio

dove agnelli sgozzati

colorano le vesti

di candidi artefici

dell’utopia.

 

 

 

Fordongianus

 

 

Immobili secolari ulivi

circondano una piazza

palcoscenico vuoto

di folle inesistenti

chiusa

da mattoni di trachite.

 

Colonne d’Aragona

imprigionano

guerrieri dagli schinieri

di rame

con facce di rane antropomorfe

uomini

come mosche dalle ali spezzate.

 

Tendono orecchi

a stonate note logudoresi

dopo aver sprangato

porte  e finestre all’Eros

mani

che cercano mani

nello spazio delimitato

della sapienza antica

piedi

che battono un tempo

assillante

che profuma di Greco di Tufo

di Nepente.

 

Poi…

nel crepuscolo

come Templari nel tempio di Salomone

moderni massoni

disseminati nel mondo

s’allontanano.

 

 

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