Archive for febbraio 2007

Magritte

 

Sono tornati i ragionieri
coi loro abiti neri.
Sono tornati di notte
a vegliare,
a riportare ordine
su scrivanie stracolme
di conti da quadrare.
Sono venuti come Magi
portando doni.

Il fare operoso e bonario
le loro maniere educate
sono la nostra pace:
serenità e fiducia
passano, dunque
per le mezze maniche,
e da un salario sicuro
una pensione adeguata.

In silenzio, con
calma imperturbabile,
dietro occhiali dorati,
aspettano che se ne vada
l’ultimo impiegato.
Invisibili
evitano il disprezzo
il sussiego: sono
lì per aiutare.

Quando giungono i colleghi
la mattina
loro
se ne sono andati.
Tutto è sistemato
sulle scrivanie;
le sedie ancora tiepide
e un biglietto dove
è scritto ogni volta:
“non c’è problema che
non si risolva.”

Giovanni Nuscis

condominio

 

La tivù è spenta.

Passata l’ora del massimo ascolto

verranno a notte fonda i briganti

e i lupi mannari,

senza bussare sul video;

saranno su di noi

come schizzo di colore

su grigia cartapesta.

 

Non prendono sonno i doveri.

Lettere e suoni, fuori posto

si ricompongono

nello studio ancora  illuminato;

vuota, una gabbia galleggia, per ore

fino a quando insorge la stanchezza.

 

Pesco sereno nel buio: lo sguardo

rivolto all’Asinara[1], redenta

le spalle a San Sebastiano[2],

oltre le nubi di bucato che il vento increspa;

e agli studi della Rai:

luce fioca e muta, sul cortile.

 

Un camion della spazzatura precede

un’interminabile fila che

pazienta ogni notte, senza suonare

senza svegliare chi dorme.

 

 

Giovanni Nuscis – (da: "In terza persona" – Manni, 2006)


[1] Isola situata a poche miglia da Porto Torres, sede, fino a pochi anni fa, dell’omonimo carcere di massima sicurezza.

[2] Il nome delle carceri di Sassari

Antonio FIORI – Monito(r)

gregor

 

                                                       METAMORFOSI

 

                                                             Monito(r)

                                                        di  Antonio Fiori

 

 

 

          Quando se ne accorse fu per il calore. Leo Rivalta, che amava trattenersi nel  dormiveglia, quel mattino aveva caldo ma, stranamente, non sudava. Inoltre non riusciva a girarsi. Cercò di farlo ma nessun arto rispondeva  al comando. E il calore aumentava e si diffondeva; capì che era stato quel caldo a svegliarlo. “Ma che cosa succede stamattina?” fu il primo pensiero, nient’altro. Provò a guardarsi intorno: vide gli oggetti molto più grandi,  disposti come sempre in disordine vicino alla tastiera. Si accorse di non riuscire a fare ruotare lo sguardo e d’avere voglia di rinfrescarsi. Non capiva perché non gli salisse il grido potente che aveva dentro. La voce era scomparsa, assieme al corpo. La prima idea fu di riaddormentarsi e abbandonare ogni indagine; si sarebbe risvegliato nel suo letto, come sempre. Ma la cosa si rivelò inattuabile: il sonno non arrivava. Costretto dagli eventi, si rimise a pensare a quel che poteva essere successo. Per prima cosa si convinse d’essere ben sveglio. Qualsiasi cosa poteva essere accaduta non era un sogno. Quindi tentò di capire dove si trovava esattamente; da quanto inquadrava con lo sguardo non c’erano dubbi: era dentro il proprio computer e vedeva la stanza dal monitor. La voglia di piangere nacque improvvisa ma non trovava sfogo.  Poco a poco riuscì a controllarsi e a proseguire la terribile indagine: come era potuto succedere? Forse l’alzarsi tardi fa diventare completamente pazzi; oppure il tic tac notturno della sveglia, nel corso degli anni, provoca deliri nei soggetti più fragili. Si, si, concluse, questo era stato: il tic tac, uno stress continuo nel sonno.

          Lui in realtà s’era ormai alzato, pensò,  ed era andato a lavarsi, con la voce, il corpo e un residuo di mente per tutti i gesti automatici. Forse Leo era addirittura già uscito ed aveva appena posteggiato davanti alla Motorway, dove lavorava. Iniziò allora a pensare a come riuscire a darsi malato. Decise che bisognava tentare a tutti i costi qualche contatto col suo corpo – magari telepatico. Bisognava fargli dire o scrivere qualcosa, anche se l’ideale sarebbe stato guidarlo dal medico curante (il sostituto, ricordò, il titolare era in vacanza). All’improvviso fu distratto dal trillo del campanello di casa. Riconobbe subito la voce di Dante e sua moglie che diceva: “Non c’è da nessuna parte. No, non m’ha detto niente, nemmeno l’ho visto. Ma la macchina è posteggiata”.  Se il collega era arrivato fin lì, significava che non si era presentato al robot  di fabbrica. Era strano come però la percezione del tempo fosse mutata: per essere arrivato Dante, dopo avere chiamato dalla fabbrica, quante ore dovevano esser trascorse? Almeno tre, tra una cosa e l’altra. A lui invece sembrava di essersi appena svegliato da dieci minuti soltanto.

          La porta si aprì lentamente; i due rimasero un poco a parlare lasciandola appena socchiusa. Entrò prima Franca che diede uno sguardo distratto alla stanza. Si ricordò allora di quando avevano insieme deciso di dormire in stanze diverse: lei così accondiscendente, per via del suo russare che la disturbava e lui ben lieto di potersi trattenere a navigare impunemente, a viversi le altre identità in rete. Ritornò ben presto al presente e si convinse che il contatto col corpo era l’unica possibilità di salvarsi. Aveva adesso la certezza che sarebbe stato cercato –  le ricerche erano anzi già iniziate –  ma capì che se non si fosse trovato il suo corpo, vivo e vegeto, la situazione sarebbe precipitata. Trascorse i due giorni successivi in tentativi continui di contatto telepatico. Inutilmente. Sentiva voci di amici e parenti dalle altre stanze, e i singhiozzi di Franca: non lo trovavano.

 

 

 

 

          Nello scorrere di quel tempo scompensato, Leo prendeva in considerazione di continuo ogni variante possibile del perché e del come. Pian piano si ricredette sul fatto d’avere un delirio in atto: i suoi ragionamenti infatti erano coerenti e controllati, non poteva trattarsi di una forma d’incoscienza. Inoltre cominciò a considerare la sua abitudine di lasciare il computer costantemente acceso, notte e giorno, perché proseguisse il download dei files e la ricerca automatica consentita da Touch&keep, il programma di ultima generazione; e poi l’altra pessima abitudine di tenere orientata la webcam sul letto. Non si poteva allora escludere che la sua psiche, il suo pensiero o l’anima stessa – comunque una qualche sede della sua coscienza – si fosse trasferita, durante il sonno, dentro il Pc, magari per l’azione, prevista o degenerata, dell’ennesimo virus. Se ne convinse lentamente ma in modo definitivo. Alla fine si disse: ecco almeno un punto da cui partire, una spiegazione in base alla quale prendere le contromisure.

          Doveva assolutamente comunicare con Franca. Ormai i tentativi di contattare il proprio corpo l’avevano estenuato ed anzi riteneva sempre più probabile che l’altro Leo avesse avuto qualche tragico incidente; non avendo più né raziocinio né coscienza gli sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa, prima fra tutte quella di perdere ogni memoria di se. Considerò anche  la probabilità d’essere rinvenuto cadavere in qualche scarpata, o sul ciglio della provinciale, dopo settimane trascorse vagando in campagna. Ma c’era un problema piuttosto grande, molto più grande del come contattare sua moglie: se qualcuno avesse spento il computer, per un mese o per sempre, sarebbe stata la morte – seppure una morte cristiana, con la  speranza delle riaccensione.

          Fortunatamente Franca non sapeva nemmeno spegnere il Pc e comunque nessuno sembrava pensarci, un po’ perché preso dalla sua ricerca un po’, forse, come forma scaramantica d’attesa. Leo aveva considerato quasi subito che non avere avuto figli si rivelava, nell’occasione, una piccola fortuna: meno rimpianti e meno dolori. Così come, non gli sembrava affatto un paradosso, avere perso i genitori da giovane: chissà come avrebbe affrontato oggi la sua morte la bellissima mamma. E poi Eraldo, suo padre, umile salumiere abituato a far quadrare a forza i conti di casa, avrebbe certamente già staccato il pc per non consumare energia inutilmente.

          Non seppe quantificare i giorni trascorsi da quella tragica mattina, quando vide Dante entrare nella sua stanza con il braccio alla vita di Franca, che sembrava sorridere dopo avere pianto, coi grandi occhi neri ancora gonfi e arrossati. Dante si sedette alla tastiera. Lo vedeva benissimo da dietro il monitor, spettinato come sempre, il viso tirato, il proverbiale magnetismo dello sguardo. Disse subito a Franca: “Non hai mai pensato che Leo potrebbe aver lasciato nel Pc qualche messaggio?…” – “No, e comunque non mi interessa più. So solo che se n’è andato senza dire  una parola, che importanza possono avere quelle scritte. E poi, sono passati quasi cinque mesi. Basta!”  – “Ehi, ma è acceso! E’ rimasto acceso cinque mesi!?” – “Penso di si. Io non l’ho spento. E non sono quasi mai entrata in questa stanza” – “Vieni, guarda qui Franca!” – “Che cosa c’è?” – “Incredibile, ma non vedi, s’è aperta una pagina, non capisco, qualche programma o qualcuno dalla rete, proprio adesso, sta scrivendo! Guarda, leggi, è incredibile!”. Sul monitor, dentro la pagina, stava scorrendo questo racconto, che Leo furiosamente digitava.

 

         

          

 

Daniele Franchini Farfalle

 

Sei mentre e mai più,

leggero

di sgranate molecole che sviano.

Aguglia in fuga a pelo d’acqua

papilio machaon

di fiore in fiore; 

il suo minuto inseguitore

sgusciato via da occhi

adulti, per catturare

scaglie del volo possibile.

Una rete di anni filtra

il burro

di soli liquefatti.

Lo scriba

nella càsula piagato

tra valige di attimi.

Molti gli abiti a scaldare

intorno a un fuoco;

un vento lieve ad agitarli

in qualche direzione.

 

Giovanni Nuscis