Archive for agosto 2011

Maria Grazia CALANDRONE – “Sulla bocca di tutti”

Quando non eravamo

 

 

La terra era bellissima, conoscevo ogni appezzamento d’er-

   ba, l’area dei formicai come un soglia

di solitudine prima

del bosco e serpentine di calore terrestre e venti in rota-  

   zione.

Camminavo col passo e col pensiero quando comincia a

   scendere

dalle montagne e avvicina la cronaca domestica ed era alta

la probabilità che avrei ucciso, ora non dubitavo che avrei

   ucciso

per venire da te, nascondendo nel petto un lago sistematico

   di pianto.

 

Qui niente è lieve, siamo larve

dolorose – eppure

alla sventagliata di schegge

segue l’istinto verso la salvezza

della testa. Altrimenti osserviamo che la vita ricolma gli

   abissi

che si sono aperti

nel corpo con filamenti rossi

e con la colla della granulazione:

le proteine fondono e si sdoppiano

in mute cuciture prenatali

tra i bordi di lesioni provocate

da uno sgomento

sproporzionato alla fragilità del corpo.

Ma la natura conserva per noi

tanta dolcezza e tanta

lungimiranza da non avere occhi per il dolore e quasi

pazza d’amore perdutamente incatena

cellula a cellula sopra la circostanza, ogni volta il suo ago

ci ricrea mentre ci trafigge. La vita cresce contro l’imme-

   diata

volontà. Dico dell’anima

e del corpo dico

che quasi niente

uccide e ciascuno comprende la sua soglia.

 

Uomini e donne sono alberi degni di innalzarsi nei boschi

   colpiti da immortali

raggi di sole, ponti d’argento con cifre rosse inclinati in tut-

    te le direzioni e nonostante

l’epidemia delle trincee, sale al colmo calcinato della Viola

   Magna

celeste una lauda

su lontananza, amore e tradimento

perché ognuno porta nel petto la torcia bianca di un nome,

   la meta.

 

Le fiamme consumavano il sottobosco e i simulacri in pie-

   tra. Nessuno

-prima-

aveva nel cuore una parola

per significare guerra, eppure la violenza era l’alfabeto

di tutte le mani: pietra

focaia-acciarino-miccia-gusci di mine.

Depongo stanotte nelle tue mani l’insieme delle mie ossa

come una candela che rimane accesa

sotto la direzione del tuo amore.

 

Alcune venivano per identificare

corpi ai quali avevano consegnato il respiro

dell’unica notte

d’amore e con esso

la bocca da fuoco di tutte le armi.

Sei caduto e cospargi la terra

del bruno che è colato dalle semine

e dalle stimme

addominali. Solo tu

sai che sfioravo il cuore con la bocca, tanto

era fragile il costato sotto la percussione delle parole:

senza neanche essere vicini eravamo il solco

e la frana – il tremito

e la scossa inumana della struttura

sotto un urto che non si può ripetere e adesso

tu non sei più

circonfuso di luce sei freddo

e la macerazione del tuo corpo

ha il suo corrispettivo nel mio cuore che si va spegnendo e

   non

dà quasi più sole e porterà fino alla fine del mondo

la cicatrice immatura del tuo nome

poi che avrò conosciuto con la vita intera

quello che insieme sapevamo.

 

La contrazione e il biancore degli scomparsi, il loro corpo

coperto di lacune con lo sguardo che termina

a valle nella terra vangata. L’ultimo della fila

innalza i muri della casa con un’occhiata

che è quasi terra e sulla soglia

ricorda lei già quasi inginocchiata

per il dolore – e per l’acuto e per il profondo

e a causa dell’altezza

del suo dolore, lei si è avviluppata

come un tralcio a un cuore lontanissimo

dal sedimento molle nel loro petto d’angeli, lontanissima

dai pilastri centrali delle loro ossa

rivolte come assi

verso il centro perfetto

del cielo. Niente andava perduto, nemmeno un petalo ca-

   deva

inosservato, eravamo

Attenzione-e il mondo era bellissimo

e chiaro. E la mia larva adesso

non sa morire, è già terra

e non muore, la carcassa non schianta per lo scherno i suoi

   lombi

sotto i piedi del bosco fatto sangue, nel bosco

azzurro che abbiamo versato dal petto mentre ci chiama-

   vamo.

 

Le armate degli scomparsi hanno passato la frontiera

a est, grattano le pareti delle celle-diseredati

e lievi

con un cuore caldissimo: ora

vediamo con i nostri occhi le nostre case

abitate da altri, vediamo l’arroganza di altre mani

sopra quello  che per eccesso d’amore non osammo nem-

   meno

sfiorare e vi seguiamo, vi seguiamo sempre

sotto forma di un niente senza voce. I nostri corpi

sono evaporazioni del superfluo

dalla cella del mondo e crediamo di essere evidenti

e siamo inafferrabili e invisibili

come un cielo velato che per amore porta le sue lacrime.

 

Roma, 13 febbraio 2008

 

*

cover_sulla_bocca_di_tutti

 

Maria Grazia CALANDRONE

SULLA BOCCA DI TUTTI

Crocetti Editore (Milano, 2010)

 

 

15 agosto 2011

rogo

Continuiamo pure a scrivere

i nostri versi le nostre storie

ogni nostro pensiero

e di corsa a diffonderli su carta

e sulla rete.

Saranno altri per noi

ad arginare la melma

che ci sommerge

a chiedere indietro

la ricchezza accumulata

in eccesso

a ripulire il paesaggio

da un bestiario mai visto.

E’ breve la vita

ed esporsi non conviene.

Meglio attendere

alla cura quotidiana

della nostra gloria futura

-mentre le città bruciano

gli abitanti in lotta spazientiti-:

la partecipazione ai reading

i contatti con la critica

e le riviste che contano

la pubblicazione gratuita

e (per noi) dovuta.

Ma le nostre parole

cosa valgono

in questo rogo ferragostano

che il vento propaga

rapido

e tutto trasforma in cenere?

Flora RESTIVO – DUDICI (DODICI) Racconti in siciliano

RESTIVO

Flora Restivo, siciliana di Trapani, è poeta dialettale autrice delle raccolte poetiche Ciatu (Sfamemi, 2004) e Po Essiri (Samperi Editore, 2008). Non deve sorprendere questo suo primo libro di racconti che richiama qualità importanti già presenti nella sua poesia: l’essenzialità del dettato, lo sguardo acuminato ed ironico sul mondo e una forte sensibilità. La misura del racconto breve riesce dunque a riproporle, dette qualità, con nuovo equilibrio e tensione narrativa. Proprio riguardo all’essenzialità del dettato, scrive Marco Scalabrino nel suo saggio introduttivo (Flora Restivo – Dda notti chi spariu la luna & autri cunti): “Edgar Allan Poe ha individuato nella short story gli elementi della essenzialità, della densità, della unicità; Henry James ha affermato che il racconto bisognerebbe “farlo tremendamente conciso, con la più stringata scelta di particolari”; Evelyn Waugh ha sostenuto che “lo stile non è un attraente ornamento applicato, ma parte dell’essenza stessa”. Questi, dunque, gli elementi che caratterizzerebbero il genere; e si viene realmente inghiottiti nella lettura di questi racconti che spiazzano, sorprendono, a cominciare dal primo racconto “La notte in cui sparì la luna”, che principia inquadrando un insonne trentottenne insegnante di greco e latino. Una bella donna “statuaria”, “al culmine del suo fascino” a cui nulla mancava se non la capacità di avere una relazione duratura con un uomo, perché “ogni volta che una storia aveva inizio, sembrava quella giusta, ma dopo un po’ di tempo, si stufava, la persona la disgustava, così lasciava perdere tutto.” Un racconto che procede come un film “che la vede spettatrice e protagonista nello stesso tempo.” E torna all’infanzia e alla sua storia familiare personale, segnata dall’azione più riprovevole che si possa compiere nei confronti di un figlio – l’incesto – ripetutosi negli anni fino al gesto estremo di liberazione da parte della vittima, con l’uccisione del padre progettata nei dettagli. Una storia che al pari delle altre di cui nulla diremo, però, per non privare il lettore del piacere di farsi trasportare da esse, riga dopo riga, viene raccontata in modo davvero avvincente, con una forza descrittiva che rende vividi e plastici i luoghi, i personaggi e le azioni. Tra i racconti più belli vanno segnalati ”Mano pelosa”, rielaborazione della favola di Barbablu, “Storia di Maria soprannome “l’orba” professione …puttana”, lo splendido e commovente “Le ali di Angelo”, “Nozze d’argento” e “Franco”. Un libro, dunque, che, se si fa apprezzare nella traduzione in lingua, nella versione in dialetto si suppone ancora più dilettevole, per il senso e l’evocatività di parole e suoni e colori e allusioni propri della lingua e d’una comunità.

Flora RESTIVO

DUDICI (DODICI) – Racconti in siciliano

Edizioni del Calatino (Castel di Judica, 2011)

Prefazione di Marco Scalabrino

Traduzioni a cura dell’autrice

Odi et amo

berlusconi-in-giro-troppo-odio-ritrovare-coesione-nazionale-1

Amare molto comporta, a volte, l’odiare. Penso a quei valori che abbiamo eletto a nucleo irrinunciabile di noi stessi e che siamo disposti a difendere con tutte le nostre forze. Valori che sono – o dovrebbero essere – il fondamento anche della nostra società civile: conoscenza, bellezza, spirito critico, rigore, generosità, onestà, condivisione, sobrietà, equità, giustizia. Valori che sono tali perché mettono distanza dalla bestialità – nel superamento dell’egoismo individuale e della sopraffazione dell’altro con la violenza o l’astuzia, e della volgarità e dell’abbrutimento. Ma quando le democrazie come quella italiana, private dei connotati fondanti, divengono cabine di regia e cassa corrente ad uso di un singolo e di alcune caste di intoccabili, noi non possiamo non odiare questo singolo e coloro che opportunisticamente lo sostengono (politici, portavoce, giornalisti che nascondono strategicamente la verità dei fatti); caste finanziarie, burocratiche, imprenditoriali e professionali da sempre col vento in poppa, pur cambiando i governi: la crisi è dovuta soprattutto all’aggressione speculativa che distrugge le economie, gonfiando e annientando il valore di aziende, di beni e di titoli (pensiamo al mercato immobiliare, al costo attuale di una casa), e dalla forte e diffusa evasione fiscale che impedisce di sanare il debito pubblico e di investire (vicini di casa, amici, parenti e conoscenti che non rilasciano fatture e scontrini, e che bisognerebbe iniziare a segnalare). Non possiamo non odiare chi, con somma iniquità, opera scelte politiche ed economiche che gravano quasi esclusivamente su alcuni ceti sociali lasciandone fuori degli altri. Nessuno accetta di fare sacrifici economici “per il bene del Paese” se non sono anche gli altri a farne in maniera proporzionale alle proprie risorse. Ricordiamo che un milione di persone, in Italia, ha più di 500.000 euro depositati in banca: s’inizierà davvero ad intaccare fiscalmente i patrimoni di una data consistenza, e i redditi più alti? Non possiamo non odiare chi, in questi anni, ha occupato le istituzioni piegandole ai propri interessi personali. Non possiamo non odiare chi ha fatto andare in malora pezzi dello Stato come la scuola e la giustizia (colpevole di perseguire chi si sente al di sopra della legge), ignorando o denigrando volgarmente organi come il Parlamento, la magistratura, il Capo dello Stato, la Pubblica amministrazione). Non possiamo non odiare chi vuole dividere e smembrare una comunità compattata con guerre e sacrifici enormi, chi ha una condotta di vita incompatibile col ruolo pubblico che riveste, incurante del discredito che suscita sul piano nazionale e internazionale. Non possiamo che augurare una rapida dipartita (politica e istituzionale) a chi ha contribuito a produrre questo sfascio di proporzioni immani, la sua scomparsa definitiva da ogni contesto decisionale pubblico. Non potremmo infatti amare noi stessi e questo Paese, la sua storia migliore e la sua bellezza, senza odiare fortemente chi lo ha reso pieno di ingiustizie ed invivibile, ostacolandone il sogno di rinascita.