Luca Ariano (inedito)
Un lungo viale di tigli accanto al Naviglio
-quando il Paesone non era un dormitorio-
profumava la primavera mentre passavi davanti la finestra
in attesa d’un cenno;
oggi solo una balaustra di metallo e odore di fogna,
d’hinterland e la Metropoli a due passi.
Sbocciano le torri dell’Innominato in quartieri
di plastica dove macchie verdi si seccano di calce:
si scavano resti di civiltà, una foto e poi ricoprire
di parcheggi e appartamenti vuoti.
Il professor Emilio prenderà una camera
in affitto “buongiorno
e buonasera” nel cigolio d’orgasmi a ore.
Se vai dall’architetto con le tre buste
e pesca quella giusta vinci il tuo appalto e lui ingrassa
sgasando il suo jeeppone e sbattendo sorrisi di vetro.
In quella piazza fanno il loro gioco:
abbassi gli occhi ma una stretta di mano non si nega
tu che cerchi un posto più forte del tuo verso.
I muratori pranzavano sulla rotonda all’ultimo sole
sognando una lampada
da tronista e ora il freddo un cicchino di Gazza.
-E’ arrivata la nebbia nei Borghi- dicevano
che non c’era più e non sai che regali fare per Natale,
come al povero Andrea che suo padre ogni anno
regala un cofanetto nuovo di Rino Gaetano.
*
Cristina Babino (Cuore di Tetrapak)
Volo plastica su ali di polimero
se rotta e abbandonata
mi svuoto d’ogni peso e gravità
degli avanzi della cena
e allora come vela gonfia
d’aria e niente sopra
megaliti urbani plano
invento traiettorie oblique
tra container clessidre
dall’alluminio senza
sabbia e senza tempo.
Poi mi poso m’impiglio
a un ramo secco tra
refusi industriali mi riposo.
Una volta qua era tutta campagna.
*
Enrico Cerquiglini (inedito)
Piangi, madre mia, di nascosto, anche quando sei primavera e t’inghirlandi
i crini, libellula di festa in festa. Hai ferite che nascondi, ulcere riaperte
dal vibrare di questo treno che dissimuli con sorrisi che a ben guardare
hanno la stessa radice dell’urlo. Cerchi di tenerci attorno a te, come pigolìo
di stelle e a volte sei fiera di noi figli che goffamente amiamo
o goffamente ci stupiamo di esserci. Sei bella madre, anche nel dolore
ed abilmente nascondi le ferite che ti hanno offesa, le sonde che ti penetrano
il ventre, i prelievi di sangue sempre più frequenti, le ustioni su tutto
il corpo. Sei bella e qualcuno ti crede eterna fanciulla, vergine ignuda,
giovane donna da possedere, da violare, da rendere schiava d’inammissibili
desideri… Sai sopportarci con quell’amore che tutto mosse, privandoti
della salute, mortificata nell’aspetto, pallida e febbricitante, hai mille
quotidiane gravidanze da portare a termine ed altrettanti figli da seguire
in funerale: riso e pianto, nascita e ritorno, affetto e angoscia
muovono il tuo seno in palpiti ritmati, ma non sai spiegarti
perché il tuo ventre s’è creato tanto male, né darti pace per dei figli,
allevati con sublime affetto, che armati di odio contro te, contro fratelli
infieriscono, quasi assoldati da un potere ascoso che asserve e nega.
Rubano le tue lacrime da vendere in bottiglie, succhiano il tuo sangue
per nutrirsene, scavano le tue viscere per un banchetto infame, depilano
il tuo pube, le tue ascelle, la tua testa per riti a te ignari, ti privano del sudore,
devastano i tuoi seni per avere latte in polvere di facile digeribilità,
incidono il tuo corpo con bulini dolorosi, scavano come scabbia
gallerie dolorose per giochi che stenti a capire… “E sono miei figli”
-sussurri al vento- “Lo ripeti spesso crollando un po’ il capo, tremando
per siringhe di prelievi diuturni che ti lasciano stremata e vuota
di forze. Senti che un liquido di fuoco ti percorre, che la tua fronte
scotta, che la tua pelle levigata si disquama, avverti continui brividi
e mille bisturi incidono neoplastiche formazioni e biopsie ripetute
scoprono insospettate malattie, senti che non potrai a lungo sostenere
l’assedio del male e la stanchezza ti predispone alla morte, a lasciarci
orfani col rimorso stampato in fronte, orfani in odore di matricidio.
*
Carmine De Falco (inedito)
Il caglio fresco non va ingerito.
Ci respiriamo addosso, sento,
un fiato che non è mio in aria
che non è dolce. Lasciano che i fiori
siano contaminati. Ci beviamo
brucellosi,ritardi, vuoti legislativi
e l’amore dei gatti di febbraio.
L’oro bianco s’è macchiato
Si cade sull’Appennino Centrale
da fermi, ci si rompe le ossa
a peso morto, fratture
scomposte, rotture di polsi,
fasce e poi ingessature
le Calle cominciano a sbocciare
in anticipo di due mesi e mezzo
dovrei retrodatare il compleanno?
Siamo nati tutti un po’ prima, qualcuno
non è nato. Ci saranno conseguenze
sul cielo della nostra pelle?
Ma a Pomigliano era il tempo
della spazzatura accumulata
dalle mattine super umide velate
da un leggero e distribuito
strato di fumo, decomposizione
e diossina.
La gente non vuole
gli inceneritori per poter incenerire?
*
Gianni D’Elia (E qui concluse)
“Ci stanno avvelenando, lentamente,
da decenni, per fretta d’incassare
produrre, distribuire, vendere, smerciare
ogni creatura vegetale e animale; bestie,
han fatto diventare cannibali gli erbivori,
dando lo da mangiare loro stessi;
le chiamano farine, ma sono ceneri, queste,
degli animali morti e sminuzzati,
che per mangiarsi si sono ammalati,
impazzendo di prioni nei cervelli;
sedici mila anni contadini, ecco,
non erano bastati; ci volevano i nati
nel secondo Novecento, per guastare
tutta la catena della vita naturale;
con tutta la nostra intelligenza artificiale,
questa Europa, questo mondo, fa vomitare…
Che la voce delle lotte li perseguiti,
come costoro i corpi infermi ed esili…
Pochi o nessuno dice in alto niente;
e tu, che poco fai, pure cuore-mente
no cedere loro; tieniti al presente
che dal passato sale al suo futuro,
per tutti i vivi oppressi dietro il muro
dei soldi ascosi nei caveaux del mondo…
Ricorda, solo un nuovo sentire-pensare
potrà cambiare davvero il vecchio fare,
e paria tra i paria è il poeta, nel fondo…
E tu ragiona con noi, tra storia e rima,
con la gioia a venire del diverso, spero,
che rivà incontro al vero della riva…
Ogni onda, amico, ogni riga, ogni deriva…”
*
Anna Maria Farabbi (inedito)
Le cose stanno così madre
abbiamo perso le stagioni incatramando gli orti
anche quelli interiori
i ghiacciai si sciolgono si scioglie
anche la pietra di Saint Victoire
Ii quadro giallo di Vincent lo specchio di alice
dentro cui non passa più io
Leggici nei polmoni cosa abbiamo fatto nell’aria
pesci ed ucceli improvvisamente scoppiano
si rovesciano tutti gli animali dell’arca quasi capovolta
manca noè manca un filo con cui tessere memoria e responsabilità
nell’eredità dei quattro elementi
manca un vaso femmina dentro cui immergersi e rinascersi
riconoscendoti
il vento svuota una tempia dopo l’altra e chiacchiera in ogni bocca
Anche in quella dei poeti
che illanguidiscono senza pane limpido e fuoco liquido
nel sangue nel canto nel vino
mentre creano tende di carta e tornei durante il loro esodo
Di questo non piango
perché attraverso e vivo ancora con insistenza e ancora impa-
rando dall’alba
l’alba in me permane tutto il giorno e nella notte ruota
i suoi chiarissimi rossi i suoi chiarissimi tuorli
Scrivo ormai solo sui palmi dei miei piedi mentre ti cammino
non insegno a nessuno il mio non verbale alfabeto
insisto ancora a leccare con la mia lingua il mio abisso
insisto ancora tramandando l’alba nel donare questa lingua
e questo mio abisso
*
Fabio Franzin (Muore il panorama)
Muore il panorama
e lo scorcio, e la veduta
perduta ne è ormai ogni eco
fra i crepacci della memoria
e se lo sguardo è costretto
a sgomitare col rumore
e la storia di ogni luogo urla
ai cieli i brandelli strappati
se la ruggine impana i cancelli
e il cemento copre i richiami.
Il poggio ci annuncia che l’asfalto
ha già raggiunti le radici dei faggi
all’ultimo tornante prima del rifugio.
Nessun possidente di antico stampo
potrà ancora sporgersi dal belvedere
col figlio primogenito, far vagare
un indice, laggiù, insieme alla consueta
e bella frase ereditaria
e sperare che ciò che il suo dito indica
dica all’epoca del poi di preservare.
*
Davide Nota (Il fiume)
Hai il corpo smangiato dagli olii, morto
fiume che penoso passi… a pezzi
la pelle del letto riarsa s’affaccia
coi peli di paglia stecchiti e la piaga
del sole nel petto; qualche brandello
di carne s’attanaglia. Sei, torrente,
dai rovi ricoperto e dalle pile
delle auto; su un masso
dove stente s’incagliano le rive
un grasso laureando scrive
le sue orribili poesie, stirando
le fibre smagliate del ventre… già,
l’estate è rovi, copertoni e batterie
sul bordo sfiancato del niente, Ivan.
E i sampietrini rialzati,i calcinacci
di questa ultima periferia
dove sei cumulo di resti e vanghe
tra presti lavori di muratura
e i cementizi tumuli… reale
è questo campo che tronco fecale
alla deriva trapassi, Tronto
che fosco gli abusi ritingono e vile
tra gli scarichi industriali e i rifiuti
ti vedo sotto i piloni fluire
dalle circonvallazioni, non fiume
ma rivolo di sangue, sterco, muco
che scende, non sorgente ma rifiuto,
scarico urbano che la vita abiura.
*
Luca Paci (inedito)
1.
Grandine, case & snodi tangenziali
curve apolidi bisecanti
parallele s’incrociano
nell’illusione della collusione.
Avamposti di paessaggio
discariche-passaggio
a manciate
scarti organici e tossici,
Nostalgia di capannoni dimessi al bordo […]
2.
Ove Calipso e i ciclopi ed un uomo
Chiamato nessuno
Percorreva l’inconscio della
Vela
Con la docilità d’un encomio
Un cartello pubblicizza il nuovo
Centro commerciale
Dalla collina terra d’occasione
Solo
S
venduta
S
mangiata
Passata di mano
In mano
Sotto il segno dell’irruzione merce
Le stigmate d’asfalto
Segnano fresca la pelle del Monte
Lucidi scudi d’auto
Accecano il lucore
Di pareti e
Palazzi
E
Casazze
Arginando
Il rollio
Del mare
*
Marco Saya (Lische)
Il bambino e la sua bolla,
scoppia a una certa altezza.
Schegge di sapone a nozze con polveri
sottili nevicano l’asfalto.
Il camino fuma ceneri
di lische consumate.
Balconi anneriti nero di seppia.
Gran fritto di olii nelle branchie ingurgitati.
Rigurgita l’atmosfera,
rigurgito della massa a terra:
“dove andiamo?”
Il fondotinta nasconde gli involucri,
“pioverà?”
Laviamoci ammollandoci nelle cicerchie.
*
VICINO ALLE NUBI
SULLA MONTAGNA CROLLATA
Campanotto Editore, 2008
Prefazione di Leonardo Mancino
A cura di Enrico Cerquiglini e Luca Ariano
*
Da “Una terra di canti e disincanti”
[…] Questa antologia è nata con spirito pasoliniano, mi spiego meglio. Il nostro obiettivo non è certo “scimmiottare” le battaglie politiche e culturali di Pasolini né osiamo considerarci suoi eredi o vediamo nella figura di Pasolini un profeta, solo vorremmo che quello spirito critico del poeta friulano e di tanti altri intellettuali della sua generazione come Volponi o legati a quella stagione come Fortini, Vittorini, Alfonso Gatto ed altri fosse presente in questo lavoro. In questa stagione post guerra fredda, post muro di Berlino, post ideologie, post-post-post non guardiamo a certa ideologia con nostalgia o dietrologia (certe logiche oggi sarebbero impensabili) ma vorremmo che un tipo di intellettuale civilmente (nel senso di ‘cives’) e politicamente (sempre nel senso etimologico del termine ‘Polis) si affacciasse nel panorama attuale. Non siamo certo così ingenui da pensare che un’antologia (che non ha nelle nostre intenzioni valenza critica, ma di sensibilità verso una certa situazione) possa modificare nell’immediato le cose, ma ci piace credere, pensare e tentare di fare in modo che attraverso una poesia, un semplice verso qualcuno possa accorgersi che i poeti non vivono nel loro mondo, ma sono parte attiva e con la loro voce cercano di migliorare, far riflettere e cambiare le cose, proprio in quest’ottica abbiamo inserito anche due nostre poesie, proprio perché non di lavoro critico si tratta, bensì di testimonianza di dissenso, e sofferenza verso la realtà contemporanea. (Luca Ariano e Enrico Cerquiglini)
(*) Le dieci poesie, tra gli ottimi testi antologizzati, sono state scelte per la loro particolare aderenza al tema dell’ambiente, e alla rubrica (“Ambiente”) di questo blog.