Archive for Maggio 2008

“Il sorriso di Dio” (2) di Luigi DI RUSCIO

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1

mi sentivo pieno

del sorriso d’iddio

nel pieno della smorfia di dio

che non avrà certo deciso di creare uomini

per empire un inferno

che dalla creazione era rimasto vuoto ed inutile

come tutte le stufe accese

in una casa destinata ad rimanere vuota per sempre

 

2

passare sulla neve nuova

dove nessuno è mai passato

bere l’acqua che mai è stata bevuta

un pensiero che ancora non è stato pensato

un verso che ancora non è stato scritto

le prime parole di un nuovo nato

l’ultimo respiro della nostra morte

 

3

"sta zitto scemo" e mi arriva all’improvviso

uno schiaffo di mai madre

però insisto con le buffonate

evito un ulteriore schiaffo

li ricordo tutti gli schiaffi sonanti

che mi somministrava mia madre

tutte le scempiangini erano inutilmente punite

tutto quello che facevo doveva essere punito

resistere ad ogni costo

spuzziamo tutto

reclamare con insistenza una borsa qualsiasi

affogare i cani!

nascondiamoci tutti!

 

4

incorro il tempo con le lettere

che precipitano sulla carta immacolata

alla velocità dei secondi

poi con calma mi rileggo

tutto il nostro imbecillismo

essendo mia madre morta da tanti anni

e alla fine dovrò prendermi

a schiaffi da solo

 

5

certe volte riuscivo ad evitare

gli schiaffi di mia madre

la mano di mamma volava

come volesse ghermire l’aria

 

6

fu solo il fanatico anticomunismo di Hitler

a far arrivare le armate rosse sino a Berlino

una fatica infinita per distruggere tutto

l’ansia non è sempre negativa

e per evitarla sconsiglio

di precipitare dalla finestra

rompiamo la nostra solitudine

abbracciamoci tutti!

 

7

tutto ad un tratto ho capito

che Iddio non è altro

che l’idealizzazione del padrone

anche i cani hanno un padrone

e il credere in Dio

non ci distinguerebbe dai cani

finiti i padroni

scompare anche Iddio dietro la curva

e ci distingueremo finalmente dai cani

 

8

notte difficile

la visibilità tanto scarsa

che si scorgono solo le fiamme dei forni crematori

per un certo tempo continuai a vivere come fossi morto

notai che potevo muovere le gambe

l’accendino riusciva ad accendersi

varcavo piazzette sovrapposte come fossero deserte

i natali divennero tutti mistici

e venne una estate

con il cielo diventato uno specchio ustorio

dove noi riflessi bruciavamo

 

9

mi accorgevo sempre di più

di parlare di me stesso

come se parlassi di un estraneo

non riuscivo a capire dove si fosse cacciata

l’identità sottoscritta

che sia annegata

in una pozzanghera di gioia?

 

11

come un angelo svolazzavo

incolume tra i traffici terrorizzati

i camionisti mi lasciano spazi sufficienti

per continuare a vivere tra voi

con l’atroce in agguato da tutte le parti

e mai mi sono sentito tanto vivo

come quando ero vicinissimo

alla morte

 

12

la poesia comunica e scomunica

tiene giudizio sopra di voi

i versi sono particelle mentali

che superando la velocità della luce

che si scaraventano sulla vostra immobilità

(non fare l’addormentata, svegliati!)

 

13

ha nevicato per tutta la notte

ora il sole

è a capofitto sulla neve nuova

le cime degli abeti

sembrano le punte di pietre preziose

tutto l’universo

diventa un diamante splendente

basta poco per cancellare tutto

 

14

i voli strani sconclusionati

degli uccelli ai primi voli

si gettano a precipizio dai nidi

appena sfiorano il suolo si rialzano

uno sale altissimo

e come colpito da improvvisa vertigine

di nuovo precipita

e il poeta dalla finestra scruta

i tuoi spasimi

 

15

per un inverno intero

una vespa

fu il nostro unico animale domestico

per nutrirla bastò

una goccia di acqua e zucchero alla settimana

con la primavera sparì per sempre

per abbeverarsi in uno zuccherificio infinito

ed oggi per passare dalla zona d’ombra

alla luce oggi è bastato

 un passo solo

 

16

l’universo spasimava

 per potersi vedere

alla fine è riuscito a creare l’occhio umano

ed è con il nostro occhio

che alla fine l’universo è riuscito

a guardarsi

 

17

vengono alla superfice pensieri neri tenebrosi

volare dalla finestra

 inabissarmi in quell’albero di ciliege

che nasce sotto casa

splendente

luminoso nelle primavere

improvvisamente senza un segnale fiorisce

grappoli di vita felice

inizia così la stagione dove nessuno immagina

di poter morire

 

18

con la fine degli umani i grattacieli

si copriranno improvvisamente di licheni spumosi

gli asfalti inizieranno fioriture

che richiameranno gli insetti più luminosi

nessun gatto

rischierà di venire castrato

e nell’universo rimarrà lo spendente ricordo

di essersi visto con l’occhio umano

 

19

senza l’irresponsabilità sottoscritta

la poesia muore

la tengo in vita sino a sfiatarmi con un bocca a bocca

agito gli ultimi disperatamente i brandelli

m’incollo l’ultima disperata fatica

 

20

essendo il tutto scaturito

dal ventre d’Iddio

alla fine dei tempi

il tutto ritornerà nel suo ventre

niente andrò perduto

tutto

sarà gioiosamente salvato

 

      Luigi Di Ruscio (poesie inedite)

Fabrizio CENTOFANTI “Guida pratica all’eternità”

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   (Il libro è acquistabile su IBS)

 

 

 

Vulcani

Turi era un ragazzo esile, ma con un sacco di idee. Nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande, come l’Etna, che torreggiava sulle strade del suo paesone. La montagna lo ispirava: si sentiva nelle viscere la stessa potenza, che poteva fare di lui un uomo fortunato, uno di quei ricchi con il Rolex d’oro che aveva visto nelle pagine dei giornali per femmine letti e riletti dalla madre e la sorella.
Passava le giornate a pensare al futuro: gli stavano stretti i banchi della scuola e anche i giochi con quei babbazzi dei suoi coetanei. Lui guardava i grandi, non quelli del paese: quelli visti in tivù, che entravano in banca, o avevano una segretaria, o dettavano legge nei cantieri.
Man mano che cresceva, lavorando tanto e lavorando bene, si accorse di avere un dono naturale: quello di rimettere in piedi le imprese agonizzanti: le portava in alto in poco tempo, dopo di che mollava tutto e ripartiva con un nuovo moribondo.
La sua vita era una corsa, aveva un amore sviscerato per le auto di lusso. Si sentiva inebriato quando accarezzava il volante di una Ferrari o di una Jaguar, ma non per esibizionismo da strapazzo; lui non era come i compaesani arricchiti che strombazzavano il clacson esibendo benessere e dentiere. Doveva solo dimostrare a se stesso che il ragazzo con un sacco di idee aveva davvero la potenza del vulcano. Entrò nel mondo del cinema. Tutto quello che toccava diventava oro.
Più lo conoscevo, Turi, più la sua esistenza mi sembrava l’opposto della mia. Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici. I miei sogni erano altri, facevano un percorso inverso, invisibile al mondo; non sapevo che avrei fatto la scelta di entrare in seminario, ma il mio desiderio aveva la stessa intensità di Turi, eravamo due vulcani contrapposti, lui con i lapilli lanciati verso il cielo, io con la lava che scendeva a valle con una marcia altrettanto irresistibile.
Turi era diabetico, ma cucinava da dio. La sua pasta alla Norma, con le melanzane siciliane, non aveva uguali. Alla faccia del diabete, non disdegnava nemmeno la granita e la brioche delle dieci del mattino. Ma era il pesce spada il suo capolavoro: nessuno ne conosceva il segreto, e il piatto gli usciva dalle mani come per miracolo.
A Taormina veniva incontro a me e don Mario in costume da bagno e ciabattine, col suo passo pesante e ondulatorio, la pancetta e gli occhiali da sole: sembrava un cineasta americano di quelli che mettono in mostra sui giornali, con il Rolex d’oro al polso.
Turi diceva che i preti erano egoisti, mentre lui rischiava tutto mettendo in gioco quello che aveva accumulato. “E perché, noi?” volevo dirgli. Ma a Turi, su questo punto, era inutile rispondere, stava già parlando d’altro.
A Roma si era fatto costruire una casa da uno degli architetti italiani più famosi: era in collina, e voleva forse riprodurre un sogno di potenza lavica e lapillica, un simbolo di vita che si espande, e non, diceva lui, come la vita dei preti che si conserva e preserva – e io volevo dirgli: “La nostra?”, perché già m’identificavo con don Mario – ma lui parlava d’altro.
Ne aveva fatta di strada, Turi. Ora correva sulla Taormina-Messina con la sua Jaguar fiammante che divorava i chilometri come Scilla e Cariddi i marinai. Curva dopo curva inseguiva il suo sogno di ragazzo esile con un sacco di idee, anche adesso che pesava cento chili e con gli occhiali da sole sembrava un cineasta americano.
Fu del tutto imprevisto il meccanismo inceppato del volante, l’imprecazione gli uscì naturalmente, come un sussulto del vulcano, e l’ultima immagine, prima dello schianto, fu quella della sua montagna. Rimase riverso sul volante, come un eroe morto in battaglia.
L’ambulanza arrivò dopo mezz’ora; nessuno ritrovò il suo Rolex d’oro, l’ultimo dono di una vita da grandi, vissuta sull’orlo del cratere.

Fabrizio Centofanti

Guida pratica all’eternità.

Racconti fra cielo e terra.

Effatà editrice, 2008
Prefazione di Remo Bassini
Postfazione di Riccardo Ferrazzi

 (Il libro è acquistabile su IBS)

***

“I libri che preferisco – dice l’editore, protagonista del primo testo della Guida – sono quelli di racconti: leggeri e discreti, passano quasi inosservati ma gettano semi di storie che qualcuno, passando, raccoglie e fa fruttare altrove, in una catena interminabile”. Fabrizio Centofanti, laureato in lettere moderne e sacerdote diocesano, è, per l’appunto, un “seminatore” o, meglio, un seminatore col sole che tramonta, secondo il titolo del quadro di Van Gogh scelto per la copertina del libro. A questa considerazione si perviene dopo aver letto i suoi diciannove racconti e, in particolare, Ventuno dicembre 2012, nel quale si può leggere, in filigrana, un drammatico tramonto di civiltà. Fabrizio Centofanti è un uomo che veglia: sul mondo letterario – di cui fa parte con le sue pubblicazioni di poesia, narrativa e saggistica e con la gestione di uno dei blog collettivi più attivi e visitati in Italia – e sulla comunità parrocchiale affidata alle sue cure. E non solo, crediamo. Ci siamo conosciuti in rete in occasione di un suo commento nel mio blog; l’intervento precedente era di un anonimo firmatosi 666; credo poco alla casualità degli incontri e degli eventi, penso che la capacità di ascolto e percezione sia un grande dono, chiaramente ravvisabile nelle pagine del libro: “Quando mi chiedono di leggere il futuro, mi trovo in imbarazzo. Non mi piace sentirmi un fenomeno perché so che non ho meriti […]” (Dialoghi fra la terra e il cielo); “la sacrestia è la pedana di lancio, con le sue pareti spoglie, le ragnatele che pendono dall’alto. Lì sei ancora uomo, con le incertezze e le paure. Dopo, quando superi l’archetto, non sei più tu a guidare il gioco.” (Levate la pietra); “Il 21 dicembre del 2012 ci sarà un cataclisma di proporzioni gigantesche che spazzerà via una parte dell’umanità: ne ho la certezza, non chiedetemi di svelarvi la serie di coincidenze che mi ha portato a sapere” (Ventuno dicembre 2012).
Un intervento critico non dovrebbe soffermarsi più di tanto sulla biografia di chi scrive, per parlare invece dell’opera, dei suoi contenuti e della forma; sento però che questo lavoro lo esige, poiché a raccontare non è solo un artista; e perché il libro non è soltanto un’opera letteraria, e il titolo, Guida pratica all’eternità, parrebbe confermarlo.
Dopo la lettura dei primi racconti ci sovvengono alcune voci note: “descrivi il tuo villaggio e sarai universale” (Tolstoi), “parla solo di ciò che conosci” (S. King), “descrivi e non fare il furbo” (Puskin). Ebbene, l’autore, queste voci – e non solo queste – sembra averle ascoltate tutte. Il villaggio è la parrocchia. Le persone che ci vivono o ci gravitano sono i protagonisti di queste storie spesso disperate. L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura.
Le storie sono percorse da pensieri, sentimenti ed esperienze di vita vissuta. La parrocchia è il luogo dove molte di esse si svolgono: nel rito di una messa (Levate la pietra) o nel porto/crocevia della canonica, approdo di ladri, vandali, incendiari, barboni, suore, tossicodipendenti, prostitute: umanità assai cara ai due Fabrizi (al Nostro e al De Andrè).
Nei racconti è spesso presente un personaggio che subito intuiamo significativo per l’autore, don Mario Torregrossa (“fondatore del Centro di formazione giovanile Madonna di Loreto-Casa della Pace, in Roma”); egli compare nelle storie come compagno di viaggio – pure lui in prima linea – e come interlocutore, e testimone; ma anche, drammaticamente, come protagonista di un atto di violenza per lui quasi fatale, quando gli dettero fuoco e stette per mesi in rianimazione, come si racconta ne La bestemmia soffocata. Un altro bel racconto, in forma epistolare, è dedicato a Sante Bernardi la cui vicenda umana, per i riflessi nel sistema sanitario, ha visto coinvolte le massime istituzioni nazionali (Lettera di Natale – a un amico malato di SLA).
Storie, sempre, comunque, emblematiche quelle che Fabrizio Centofanti ci racconta; talvolta assai toccanti, e capaci di lasciare un segno forte. Storie scritte con sapiente semplicità, affidandosi “alla maestra dei poveri, la vita, con le sue aule scalcinate, le lezioni elementari ma piene di una incontrovertibile saggezza.”

Giovanni Nuscis

 

 

“La solitudine e gli altri” di Giancarlo MAJORINO

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c’è una prigione degli attimi
nel vasto cullata
di un tempo senza orizzonte

la voce detta o stampata
suona da lontananze
come altoparlante

la legge ora è data
dalla scoscesa del trascorrere
e insieme dal suo trascinarsi pian piano

*

Anche Mario Rossi è un nome proprio
senza figli tiene la bocca chiusa
incatenato a sé ha vissuto tanto
o poco: non si sa.

A furia di remare
il pensiero dell’invecchiare e della morte
incontra il pensiero dei somiglianti.

*

Protrai un giorno ancora
l’alta architettura sulle case
del cielo grigio l’albero
sembrano salutare

non sono tanto lontani
gli avvenimenti che i giornali
piattamente porgono
concretamente erti
nel corpo come pali

un giorno ancora di respirazione,
scorrimento di sangue, sentimenti,
riflettere, mutare

come pali tra cui perdute ondeggiano
le ombre solitarie che nel buio cancellano
ogni altra realtà ogni mattina risorgente

*

tu che guardi
la purezza delle cose
la loro sicurezza
tu che guardi
alterata dall’ignoto
che fa da tuorlo al corpo
pure porgendo il profilo inviti a qualcosa
d’intensamente stabile e fluttuante
quindi con la voce battezzante
nomini dividi esponi l’ombra
sorella misteriosa
persona corporale più ricca di ogni cosa

*

Inizia dal cervello
il silenzio e si spande
si confonde coll’aria
che la camera pigia
dilatando molecole
le cerniere della notte
sono aperte o non sono state rotte
la piccola grotta del corpo
sta nella grande grotta della casa
luci d’aerei forano
il cielo della galassia
sorgendo da terra
o cadendo
piano nel rilento

*

Lavori sparsi coprono ninfee
l’acqua del passare quotidiano.
Ma è l’unica vita!
mobili testardi
costruiti da mani
interrompono il senso
religioso e noioso
di quell’affaccendarsi e transitare

*

se
leggi con cura
il discorso è complicato
se leggi in fretta
il discorso è semplice

*

Con quanti aiuti fingo
di realizzarmi, re della realtà
o piccolo signore di meno di metà
della vita che vivo!
perfidi sogni la notte
narrano mutilazioni, annichilimenti:
porzioni di scene irridenti
da muri accesi scandiscono la verità:
sono quasinulla, mi porta
una sconnettitrice schiena d’asino.
E se provassi a prendermi un po’ più in là?
un io, un corpo e molti corpi e io
numerosi, da sotto e da metà?
posando l’ansietà nel mucchio scuro
risorgente nella battaglia frastagliata

*

è solamente senso del dovere?
una pratica pasticciona
un vuoto calpestato
m’impediscono di provare piacere
semplicemente leggendo?
devo restituire restituire
attivamente scrivendo?
così qui
e per quale ragione
per quali mescolanze rogge nel corpo?
o lombarda abitudine
o voglia di non essere ancora morto
produttivo produttivo sempre

*

è perché ora puoi passare la mano
su due volti
quello attuale, screpolato e liso,
e quello, dietro e dentro l’acqua del ricordo
tremolante smangiato, dell’antica
età, sembiante liscio quasi incontaminato,
che parli anche da solo
e spesso ti accovacci
nell’ombra del gran letto?
pure, certi momenti, coordinato tiri
entrambi e molti volti, molte voci,
e il tavolo respira folto rianimato
e interi boschi nella mente fremono
e flessibilmente, sosia, scrivi

versando nelle tazze un affettuoso latte

*

Ora la mia esistenza è presso la finestra sbatte
sono nel perimetro dell’albero guardato
voci bollono
il nereggiare ha tracciato l’ingenuità di un presente.

*

Giancarlo Majorino
“La solitudine e gli altri”
Garzanti, 1990

Giancarlo Majorino è nato nel 1928 a Milano, dove vive. È autore di numerosi volumi di poesia.
Altri dati biobibliografici: http://it.wikipedia.org/wiki/Giancarlo_Majorino

Pablo Armando FERNANDEZ

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Mercoledì 21 maggio 2008 ore 19,00 – presso ‘Associazione Culturale INTREGU’ – Sassari – Via Maddalena 105, vicolo chiuso B

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Verba Manent

 

In collaborazione con:

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Presenta

Poesia, ritmi, riflessioni,testimonianze del grande poeta cubano…    

PABLO ARMANDO FERNANDEZ

QUI

Una sua poesia e notizie biobliografiche

“AMBIENTE. Vicino alle nubi sulla montagna crollata.”

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Luca Ariano (inedito)

Un lungo viale di tigli accanto al Naviglio
-quando il Paesone non era un dormitorio-
profumava la primavera mentre passavi davanti la finestra
in attesa d’un cenno;
oggi solo una balaustra di metallo e odore di fogna,
d’hinterland e la Metropoli a due passi.
Sbocciano le torri dell’Innominato in quartieri
di plastica dove macchie verdi si seccano di calce:
si scavano resti di civiltà, una foto e poi ricoprire
di parcheggi e appartamenti vuoti.
Il professor Emilio prenderà una camera
in affitto “buongiorno
e buonasera” nel cigolio d’orgasmi a ore.
Se vai dall’architetto con le tre buste
e pesca quella giusta vinci il tuo appalto e lui ingrassa
sgasando il suo jeeppone e sbattendo sorrisi di vetro.
In quella piazza fanno il loro gioco:
abbassi gli occhi ma una stretta di mano non si nega
tu che cerchi un posto più forte del tuo verso.
I muratori pranzavano sulla rotonda all’ultimo sole
sognando una lampada
da tronista e ora il freddo un cicchino di Gazza.
-E’ arrivata la nebbia nei Borghi- dicevano
che non c’era più e non sai che regali fare per Natale,
come al povero Andrea che suo padre ogni anno
regala un cofanetto nuovo di Rino Gaetano.

*

Cristina Babino (Cuore di Tetrapak)

Volo plastica su ali di polimero
se rotta e abbandonata
mi svuoto d’ogni peso e gravità
degli avanzi della cena

e allora come vela gonfia
d’aria e niente sopra
megaliti urbani plano
invento traiettorie oblique

tra container clessidre
dall’alluminio senza
sabbia e senza tempo.

Poi mi poso m’impiglio
a un ramo secco tra
refusi industriali mi riposo.

Una volta qua era tutta campagna.

*

Enrico Cerquiglini (inedito)

Piangi, madre mia, di nascosto, anche quando sei primavera e t’inghirlandi
i crini, libellula di festa in festa. Hai ferite che nascondi, ulcere riaperte
dal vibrare di questo treno che dissimuli con sorrisi che a ben guardare
hanno la stessa radice dell’urlo. Cerchi di tenerci attorno a te, come pigolìo
di stelle e a volte sei fiera di noi figli che goffamente amiamo
o goffamente ci stupiamo di esserci. Sei bella madre, anche nel dolore
ed abilmente nascondi le ferite che ti hanno offesa, le sonde che ti penetrano
il ventre, i prelievi di sangue sempre più frequenti, le ustioni su tutto
il corpo. Sei bella e qualcuno ti crede eterna fanciulla, vergine ignuda,
giovane donna da possedere, da violare, da rendere schiava d’inammissibili
desideri… Sai sopportarci con quell’amore che tutto mosse, privandoti
della salute, mortificata nell’aspetto, pallida e febbricitante, hai mille
quotidiane gravidanze da portare a termine ed altrettanti figli da seguire
in funerale: riso e pianto, nascita e ritorno, affetto e angoscia
muovono il tuo seno in palpiti ritmati, ma non sai spiegarti
perché il tuo ventre s’è creato tanto male, né darti pace per dei figli,
allevati con sublime affetto, che armati di odio contro te, contro fratelli
infieriscono, quasi assoldati da un potere ascoso che asserve e nega.
Rubano le tue lacrime da vendere in bottiglie, succhiano il tuo sangue
per nutrirsene, scavano le tue viscere per un banchetto infame, depilano
il tuo pube, le tue ascelle, la tua testa per riti a te ignari, ti privano del sudore,
devastano i tuoi seni per avere latte in polvere di facile digeribilità,
incidono il tuo corpo con bulini dolorosi, scavano come scabbia
gallerie dolorose per giochi che stenti a capire… “E sono miei figli”
-sussurri al vento- “Lo ripeti spesso crollando un po’ il capo, tremando
per siringhe di prelievi diuturni che ti lasciano stremata e vuota
di forze. Senti che un liquido di fuoco ti percorre, che la tua fronte
scotta, che la tua pelle levigata si disquama, avverti continui brividi
e mille bisturi incidono neoplastiche formazioni e biopsie ripetute
scoprono insospettate malattie, senti che non potrai a lungo sostenere
l’assedio del male e la stanchezza ti predispone alla morte, a lasciarci
orfani col rimorso stampato in fronte, orfani in odore di matricidio.

*

Carmine De Falco (inedito)

Il caglio fresco non va ingerito.
Ci respiriamo addosso, sento,
un fiato che non è mio in aria
che non è dolce. Lasciano che i fiori
siano contaminati. Ci beviamo
brucellosi,ritardi, vuoti legislativi
e l’amore dei gatti di febbraio.
L’oro bianco s’è macchiato

Si cade sull’Appennino Centrale
da fermi, ci si rompe le ossa
a peso morto, fratture
scomposte, rotture di polsi,
fasce e poi ingessature

le Calle cominciano a sbocciare
in anticipo di due mesi e mezzo
dovrei retrodatare il compleanno?
Siamo nati tutti un po’ prima, qualcuno
non è nato. Ci saranno conseguenze
sul cielo della nostra pelle?

Ma a Pomigliano era il tempo
della spazzatura accumulata
dalle mattine super umide velate
da un leggero e distribuito
strato di fumo, decomposizione
e diossina.
La gente non vuole
gli inceneritori per poter incenerire?

*

Gianni D’Elia (E qui concluse)

“Ci stanno avvelenando, lentamente,
da decenni, per fretta d’incassare
produrre, distribuire, vendere, smerciare

ogni creatura vegetale e animale; bestie,
han fatto diventare cannibali gli erbivori,
dando lo da mangiare loro stessi;

le chiamano farine, ma sono ceneri, queste,
degli animali morti e sminuzzati,
che per mangiarsi si sono ammalati,

impazzendo di prioni nei cervelli;
sedici mila anni contadini, ecco,
non erano bastati; ci volevano i nati

nel secondo Novecento, per guastare
tutta la catena della vita naturale;
con tutta la nostra intelligenza artificiale,

questa Europa, questo mondo, fa vomitare…
Che la voce delle lotte li perseguiti,
come costoro i corpi infermi ed esili…

Pochi o nessuno dice in alto niente;
e tu, che poco fai, pure cuore-mente
no cedere loro; tieniti al presente

che dal passato sale al suo futuro,
per tutti i vivi oppressi dietro il muro
dei soldi ascosi nei caveaux del mondo…

Ricorda, solo un nuovo sentire-pensare
potrà cambiare davvero il vecchio fare,
e paria tra i paria è il poeta, nel fondo…

E tu ragiona con noi, tra storia e rima,
con la gioia a venire del diverso, spero,
che rivà incontro al vero della riva…

Ogni onda, amico, ogni riga, ogni deriva…”

*

Anna Maria Farabbi (inedito)

Le cose stanno così madre

abbiamo perso le stagioni incatramando gli orti
anche quelli interiori
i ghiacciai si sciolgono si scioglie
anche la pietra di Saint Victoire
Ii quadro giallo di Vincent lo specchio di alice
dentro cui non passa più io

Leggici nei polmoni cosa abbiamo fatto nell’aria
pesci ed ucceli improvvisamente scoppiano
si rovesciano tutti gli animali dell’arca quasi capovolta

manca noè manca un filo con cui tessere memoria e responsabilità
nell’eredità dei quattro elementi
manca un vaso femmina dentro cui immergersi e rinascersi
riconoscendoti

il vento svuota una tempia dopo l’altra e chiacchiera in ogni bocca

Anche in quella dei poeti
che illanguidiscono senza pane limpido e fuoco liquido
nel sangue nel canto nel vino
mentre creano tende di carta e tornei durante il loro esodo

Di questo non piango
perché attraverso e vivo ancora con insistenza e ancora impa-
rando dall’alba
l’alba in me permane tutto il giorno e nella notte ruota
i suoi chiarissimi rossi i suoi chiarissimi tuorli

Scrivo ormai solo sui palmi dei miei piedi mentre ti cammino
non insegno a nessuno il mio non verbale alfabeto
insisto ancora a leccare con la mia lingua il mio abisso
insisto ancora tramandando l’alba nel donare questa lingua
e questo mio abisso

*

Fabio Franzin (Muore il panorama)

Muore il panorama
e lo scorcio, e la veduta

perduta ne è ormai ogni eco
fra i crepacci della memoria
e se lo sguardo è costretto
a sgomitare col rumore
e la storia di ogni luogo urla
ai cieli i brandelli strappati

se la ruggine impana i cancelli
e il cemento copre i richiami.

Il poggio ci annuncia che l’asfalto
ha già raggiunti le radici dei faggi

all’ultimo tornante prima del rifugio.

Nessun possidente di antico stampo
potrà ancora sporgersi dal belvedere
col figlio primogenito, far vagare
un indice, laggiù, insieme alla consueta
e bella frase ereditaria

e sperare che ciò che il suo dito indica
dica all’epoca del poi di preservare.

*

Davide Nota (Il fiume)

Hai il corpo smangiato dagli olii, morto
fiume che penoso passi… a pezzi
la pelle del letto riarsa s’affaccia
coi peli di paglia stecchiti e la piaga
del sole nel petto; qualche brandello
di carne s’attanaglia. Sei, torrente,
dai rovi ricoperto e dalle pile
delle auto; su un masso
dove stente s’incagliano le rive
un grasso laureando scrive
le sue orribili poesie, stirando
le fibre smagliate del ventre… già,
l’estate è rovi, copertoni e batterie
sul bordo sfiancato del niente, Ivan.

E i sampietrini rialzati,i calcinacci
di questa ultima periferia
dove sei cumulo di resti e vanghe
tra presti lavori di muratura
e i cementizi tumuli… reale
è questo campo che tronco fecale
alla deriva trapassi, Tronto
che fosco gli abusi ritingono e vile
tra gli scarichi industriali e i rifiuti
ti vedo sotto i piloni fluire
dalle circonvallazioni, non fiume
ma rivolo di sangue, sterco, muco
che scende, non sorgente ma rifiuto,
scarico urbano che la vita abiura.

*

Luca Paci (inedito)

1.
Grandine, case & snodi tangenziali
curve apolidi bisecanti

parallele s’incrociano
nell’illusione della collusione.

Avamposti di paessaggio
discariche-passaggio
a manciate
scarti organici e tossici,

Nostalgia di capannoni dimessi al bordo […]

2.
Ove Calipso e i ciclopi ed un uomo
Chiamato nessuno
Percorreva l’inconscio della
Vela
Con la docilità d’un encomio
Un cartello pubblicizza il nuovo
Centro commerciale
Dalla collina terra d’occasione
Solo
S
venduta
S
mangiata
Passata di mano
In mano

Sotto il segno dell’irruzione merce
Le stigmate d’asfalto
Segnano fresca la pelle del Monte
Lucidi scudi d’auto
Accecano il lucore
Di pareti e
Palazzi
E
Casazze
Arginando
Il rollio
Del mare

*

Marco Saya (Lische)

Il bambino e la sua bolla,
scoppia a una certa altezza.
Schegge di sapone a nozze con polveri
sottili nevicano l’asfalto.
Il camino fuma ceneri
di lische consumate.
Balconi anneriti nero di seppia.
Gran fritto di olii nelle branchie ingurgitati.
Rigurgita l’atmosfera,
rigurgito della massa a terra:
“dove andiamo?”
Il fondotinta nasconde gli involucri,
“pioverà?”
Laviamoci ammollandoci nelle cicerchie.

*

VICINO ALLE NUBI
SULLA MONTAGNA CROLLATA
Campanotto Editore, 2008
Prefazione di Leonardo Mancino
A cura di Enrico Cerquiglini e Luca Ariano

*

Da Una terra di canti e disincanti

[…] Questa antologia è nata con spirito pasoliniano, mi spiego meglio. Il nostro obiettivo non è certo “scimmiottare” le battaglie politiche e culturali di Pasolini né osiamo considerarci suoi eredi o vediamo nella figura di Pasolini un profeta, solo vorremmo che quello spirito critico del poeta friulano e di tanti altri intellettuali della sua generazione come Volponi o legati a quella stagione come Fortini, Vittorini, Alfonso Gatto ed altri fosse presente in questo lavoro. In questa stagione post guerra fredda, post muro di Berlino, post ideologie, post-post-post non guardiamo a certa ideologia con nostalgia o dietrologia (certe logiche oggi sarebbero impensabili) ma vorremmo che un tipo di intellettuale civilmente (nel senso di ‘cives’) e politicamente (sempre nel senso etimologico del termine ‘Polis) si affacciasse nel panorama attuale. Non siamo certo così ingenui da pensare che un’antologia (che non ha nelle nostre intenzioni valenza critica, ma di sensibilità verso una certa situazione) possa modificare nell’immediato le cose, ma ci piace credere, pensare e tentare di fare in modo che attraverso una poesia, un semplice verso qualcuno possa accorgersi che i poeti non vivono nel loro mondo, ma sono parte attiva e con la loro voce cercano di migliorare, far riflettere e cambiare le cose, proprio in quest’ottica abbiamo inserito anche due nostre poesie, proprio perché non di lavoro critico si tratta, bensì di testimonianza di dissenso, e sofferenza verso la realtà contemporanea. (Luca Ariano e Enrico Cerquiglini)

(*) Le dieci poesie, tra gli ottimi testi antologizzati, sono state scelte per la loro particolare aderenza al tema dell’ambiente, e alla rubrica (“Ambiente”) di questo blog.

BUONE FESTE!

Ritorni a poco a poco al maggio

lontano che annulla i seguenti.

Sei rimasto piccolo, le ossa dolci

a resistere a comandi impazziti.

Il lieve sforbiciare dei giorni

sui ciuffi del granturco 

sulle ali rosse dei papaveri.

Le cetonie cadute a pancia in su

portate via dalle formiche in processione.

Sempre più piccolo  

nei Natali giunti dopo

quel primo

che non sai ricordare

in bilico tra il nulla ed il respiro.

 

gn

Forestieri

san-teodoro

 

 

 

 

 

    Molto tempo fa un turista prese alloggio in un paesino della costa, a poche centinaia di metri da una spiaggia straordinariamente bella, con sabbia finissima e acqua turchese. Pagava in anticipo, il turista, giorno per giorno, avendo preferito non mettere limiti alla sua permanenza. Ogni mattina si recava in spiaggia indossando abiti leggeri e colorati, tra i sorrisi dei paesani che vestivano tutti, più  o meno, con le stesse cose scure. Era la prima volta che qualcuno piantava un ombrellone su quella spiaggia ritenuta da molti un dono scontato. C’era chi ogni tanto osservava l’ospite di nascosto, con discrezione, sembrandogli assurdo, ridicolo che uno potesse starsene lì buttato per ore; l’avevano fermato più volte per scambiarci qualche parola, ma il fatto di parlare lingue diverse aveva impedito il dialogo, con imbarazzo per entrambi.

    Col passare dei giorni, però, considerarono i paesani, avere in mezzo a loro uno con cui non s’intendevano, che abitava in una loro casa, passava sulle loro strade sfiorando le loro donne e i loro bambini, iniziava a dare un certo fastidio. Cominciarono così a porsi delle domande: perché era venuto a soggiornare lì e non, invece, in qualche altro paese più grande e più accogliente del loro? E come mai era venuto solo? Perché se ne stava tutto il giorno in spiaggia e non frequentava la piazza e l’osteria del paese? Perché piantava quella specie di ombrello ridicolo in quel punto preciso della spiaggia e non in altri? E molte domande ancora.

    Dopo circa un mese, il turista si congedò dalla pensione che lo ospitava togliendo l’incomodo della sua presenza. Difficile dire se si fosse accorto di non essere più gradito. Al suo posto, giunse dalla non lontana città un avvocato con moglie e due bambini vivaci e chiassosi, soprattutto nelle ore del riposo pomeridiano. L’avvocato aveva modi padronali e sbrigativi ma, a suo modo, cordiali, e tutti l’ossequiavano, anche se non dava alcuna confidenza.

    L’anno seguente l’avvocato acquistò la casa dove era stato ospite; gli fu proposta la carica di sindaco, e intanto il fratello acquistò un terreno dove nacque presto un albergo.
    La pessima gestione della struttura, dovuta in parte all’apatia e all’incompetenza del personale del posto, indusse dopo anni a cedere albergo e gestione ad una multinazionale che s’avvalse di maestranze straniere. La società, di lì a poco, acquistò tutti i terreni edificabili nel raggio di decine di chilometri. Dietro quegli investimenti dicevano che ci fosse un unico proprietario, un miliardario austriaco che aveva soggiornato in quei posti innamorandosene.

    Dopo pochi anni il litorale era gremito di turisti di ogni provenienza. I paesani, per necessità o perché così facevano tutti, avevano dunque ceduto terreni e molte delle loro case. Del vecchio paese, con le sue caratteristiche e abitudini, in breve tempo era rimasto poco. Erano nati negozi, bar ristoranti e strutture turistiche affollati fino a tarda notte. I gestori, curiosamente, sembrava lo facessero apposta a non farsi capire dalle persone del luogo, divenute elemento di folclore coi loro balli e costumi in occasione di feste e di presenze importanti; essi si trovarono costretti ad imparare un po’ di tedesco e di inglese anche per acquistare, a buon prezzo, un chilo di patate, o per raggiungere direttamente il mare tagliando per un residence, ringraziando intimoriti, ogni volta, bagnini e vigilantes.

 

GN

 

Sul blog "La Poesia e lo spirito"

un post da non perdere:-)

di Giorgio Morale 

“Poesia non poesia” di Alfonso Berardinelli

Copia di ScannedImage-2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I poeti impossibili

 

    Come si può parlare criticamente, usando il linguaggio della critica letteraria, voglio dire, con il suo carico di cognizioni storiche e tecniche, occupandosi di tanti nuovi poeti? Me lo chiedo da tre decenni, ma ogni volta è come se fosse la prima volta. La produttività poetica dilaga. Negli ultimi due tre anni devo essermi distratto (me ne accorgo ora) perché apprendo che sono nate nuove scuole, nuove tendenze, di tonalità prevalentemente sadico-ilare o depresso-sadica. Ci sono in giro e in piena attività almeno venti trenta poeti di cui so ben poco. Provo a leggere, a informarmi. Ma noto che la cosa più difficile è proprio questa. Già dire leggere è un eufemismo, perché leggere la maggior parte di queste poesie è difficile. Non meno difficile è quindi informarsi perché dai testi antologizzati si ricava poco, non bastano a farsi un’idea degli autori, mentre i libri interi sono ridondanti e fuori misura, perché dopo le prime pagine si sa già tutto. È un problema di consistenza? Il testo singolo non regge, sembra rimandare ad altro. Ma non regge neppure  il libro, che si aggrappa, per esistere, a non più di tre o quattro poesie riuscite. Leggere poeti italiani contemporanei è quasi sempre esasperante. Non si capisce perché quella parola sta lì, non si capisce perché dopo quella frase c’è quell’altra, non si capisce perché si va a capo (ma questo è un vecchio problema della modernità), non si capisce perché il testo finisce a quel punto, non prima, non dopo.  È veramente strano che con tante scuole di scrittura creativa, nessuno sia riuscito, in questi ultimi dieci anni, a insegnare il minimo di tecnica utile.

    Dunque potrebbe essere vero quello che dice il titolo di un libro di Alessandro Carrera: I poeti sono impossibili. Carrera sembra aver trovato l’analgesico, l’eccitante, il sedativo, o meglio il disintossicante per chi abbia passato anche solo un’ora a cercare una poesia buona dentro antologie e almanacchi appena arrivati.

    Il suo libro possiede un’importante qualità letteraria: la capacità davvero molto poetica di far vedere che oggi come ieri la poesia la fanno i poeti e che quindi finisce inevitabilmente per somigliare a loro.

    All’inizio del quarto capitolo, intitolato Siamo tutti grandissimi poeti, Carrera ci ricorda una cosa: Robert Musil “osservò che la decadenza della modernità era iniziata il giorno in cui nella cronaca sportiva di un quotidiano viennese si poté leggere che un certo  cavallo, gran vincitore di corse, era geniale.”

    Oggi però, dato che siamo più spregiudicati, più corretti e più intelligentemente animalisti di Musil, si può dire che Carrera con questo libro ci ha dato un ottimo antidoto contro quella particolare forma di inconsapevolezza che sembra accompagnare la decisione di “essere poeti” e che alimenta la produttività creativa dei poeti attuali.

    Sì, attuali. Ma Carrera ci ricorda un’altra cosa importante: Orazio, Francisco de Quevedo, Pietro Giordani, Osip Mandel’stam e Montale si erano espressi in proposito con analogo pessimismo.

    Orazio lamentava che i poeti fossero innumerevoli. Quevedo scriveva che “Dio aveva mandato un’epidemia di poeti in Spagna per punirci dei nostri peccati; due secoli dopo Pietro Giordani si lamentava con Leopardi che ormai chiunque sapesse leggere e scrivere si riteneva in grado di impugnare carta e penna e gettar giù versi a profusione; Osip Mandel’stam constatava con scoramento l’esistenza di un miserabile esercito di poeti che aveva invaso la Mosca rivoluzionaria”. Montale scrisse che “se Guglielmo Giannini, invece di fondare il movimento dell’Uomo Qualunque, avesse fondato il partito del Poeta Qualunque, con obbligo dello Stato di stampare a proprie spese i versi di ogni cittadino, avrebbe mandato almeno un centinaio di deputati in Parlamento”.

    È già molto. Ma Carrera aggiunge: “Dopo la rivoluzione sandinista in Nicaragua, per testimonianza di chi c’era, mentre il paese aveva un disperato bisogno di ingegneri, capimastri e idraulici, ogni volta che si annunciava  una lettura pubblica centinaia di aspiranti poeti si mettevano in fila  dal mattino, determinatissimi a leggere le loro invettive contro los gringos, mentre intorno non c’era una strada che non fosse piena di buche”.

    Il capitolo da cui sono tratte queste parole porta un titolo definitivo per chiarire subito di che si tratta: Un popolo di poeti preme alle porte dell’oblio. L’autore comunque, per essere ancora più chiaro (tutto il suo libro è insopportabilmente chiaro per i poeti di oggi) sente il bisogno di precisare: “nella seconda metà dell’Ottocento, quando Lautréamont lanciò la profezia che un giorno la poesia sarebbe stata fatta “da tutti” forse non si aspettava che il tempo gli avrebbe dato ragione al di là delle sue aspettative. E certamente non si aspettava che, come effetto collaterale, una poesia “fatta da tutti” avrebbe ridotto la poesia stessa all’insignificanza. Perché se tutti, in un cabaret dadaista di dimensioni planetarie, scrivono, pubblicano, recitano e urlano i propri versi, per una legge di conversione di cui nessuno vuole assumersi la paternità, proprio quei versi hanno una forte probabilità di risultare irrilevanti”.

    Si può pensare questo. Ma anche qualcosa di diverso. Su una quantità di testi poetici senza capo né coda né ragioni di esistenza, si possono scrivere puntuali piccoli saggi in punta di penna, che puntualmente mancano l’oggetto di cui dovrebbero parlare e quindi parlano di quell’utopia del linguaggio poetico mai realizzata che giustifica tutto. Esistono tuttavia, in questa nebbia di parole poetiche che avvolge il pianeta e intasa Internet, delle vere poesie, che liberano per qualche minuto la mente di chi  le legge e che quindi fanno venire la voglia di essere rilette.

    Ma individuare e riconoscere queste poesie non è né facile né ovvio. Se lo fosse, il fenomeno della “poesia scritta da tutti” non si darebbe. Il primo servizio che i critici dovrebbero rendere agli altri e a se stessi  è dire quali poesie esistono e quali hanno solo tentato di esistere, anche senza parlare degli autori che ne sono responsabili. Facendo questo, potrebbe capitare loro di non sembrare gentili. Ma essere gentili con tutti i poeti e con i poeti qualunque, manda allo sbaraglio molte brave persone, che non riescono né a leggere né a farsi leggere. È il cattivo pubblico, o il nessun pubblico, che rende la poesia cattiva o nulla.

 

 

Alfonso Berardinelli

Poesia non poesia

Einaudi, 2008

 

Un modello…

Modello unico

 

              Anche sul blog "La poesia e lo spirito"

 

Peccato. Mi era sembrata una buona idea quella di mettere in rete i redditi degli italiani. Non per suscitare invidia, curiosità o commiserazione, ma per iniziare a far chiarezza sulla condizione economica reale dei cittadini, in modo equanime e oggettivo. Trasparenza su un dato che, a ben vedere, non è più “sensibile” dei milioni di contribuenti onesti comprensibilmente dubbiosi del comportamento altrettanto virtuoso di molti altri. Non si vede del resto la ragione per cui alcuni redditi – e non soltanto di vip – siano stati pubblicati sui quotidiani mentre tutti gli altri ne sono esclusi (non considerando gli elenchi pubblicati in rete e dichiarati fuori legge). Si ha l’impressione, in questo modo, che solo il vojeurismo legittimi una deroga al principio della privacy.

La politica non può tutto, e i cittadini mi chiedo se non sarebbe giusto che iniziassero a fare la loro parte, smettendola di lamentarsi e segnalando, invece, le furberie grandi e piccole di cui sono stati diretti testimoni. Non per scatenare la lotta degli uni contro gli altri, ma per la prima enucleazione di un tabù che induca i contribuenti, nel tempo, a pagare il giusto (concetto per sua natura opinabile, e da chiarire…) e a dichiarare il vero. Mi chiedo anche, a questo punto, se non sarebbe opportuno rendere pubblica anche l’entità delle tasse pagate allo Stato che, a sua volta, dovrebbe farsi carico di informare meglio – vale a dire in modo preciso ed esaustivo – sulla destinazione ultima dei suoi introiti. Così le regioni, e i comuni.

gn