Gianmario Lucini
da: "Una pazzia razionale – 99 ottave"
Lettere dal vuoto
Ti scrivo un biglietto per posta elettronica,
ma poi cosa resta del nostro dialogo
rubato, senza corpo e senza voce,
al caos informe dei fili del telefono?
Già cambia la tua pelle come il ramarro
a primavera, gia vedo la seta
del tuo bel viso tingersi di lettere
scure, di segni indecifrabili…
Poter viaggiare nel prima e nel dopo
senza che nulla accada, muovere
stando fermi grattare il cielo ruvido
dell’inverno con sorriso di piuma
piombare come barbari a cavallo
nell’infinitesimo mondo che rinsecca
all’estremità della galassia – lui che esiste
non sapendo d’essere o sapendolo, forse…
Era un’altra vita quando ti amavo
era il tempo d’un altro ch’è volato
in un altro tempo. Il resoconto esiste
di questo amore in deviazioni minime
dei passi, nel gesto come trattenuto
in una lievissima dimenticanza
come se un altro da un’altra esistenza
dicesse qualcosa che non ho mai saputo.
Mi sazio di quest’aria pura e la risputo
bruciando il premio di una sigaretta
dopo la salita su per l’oro della vetta
nel tiepido novembre: si staglia nel cupo
merlato delle rocce il vuoto del silenzio,
il vuoto che cerco per svuotarmi dentro
– ne scruto l’assenza, calmo, senza fretta,
rassicurato dal fumo della sigaretta.
Ci sono armenti, che brucano quel poco
che il novembre lascia alla montagna e un laghetto
ghiacciato nell’azzurro – occhio del niente
volto al cielo, lo vedi dall’alto del monte –
sprofonda nel suo sonno e si fa immobile.
Viene l’inverno nell’alito del vento
mi taglia dentro, mi fruga come l’erba
secca, tradisce all’oro questo mio niente.
Sono disperso
nell’universo
proteso in bilico
su immensi abissi
mi trattiene un sogno buio che viene dal fondo
d’una gola bagnata dall’ultimo sole
vorrei disciogliermi nel vento ma il mondo
mi insegue, m’ingabbia, m’invana nei sogni.
A volte mi muovo come in un delirio
fra paesaggi che più non riconosco,
mi porto a fatica, mi districo a stento
nel rovo di voci e volti che mi corrispondono
forse – o forse mi osservano con meraviglia
morto che cammina fra i vivi nella veglia
perenne dell’eterno, per errore,
vagolando da un’altra dimensione.
Il sentiero che salgo viene dal passato;
altri occhi amarono questo acciottolato
come tu lo ami – che s’addentra discreto
nel silenzio di abeti e si perde nel vuoto
del cielo –e qui videro gli ultimi colori
(qui morì nel giugno del quarantaquattro
ucciso dai barbari fascisti un partigiano
pastore), e abitano ancora la montagna.
Cammino sulla china nell’alito di fiati
antichi, di umili fatiche contadine;
ne riconosco le vestigia nelle pietre
ordinate, nei muri silenziosi
che nereggiano ancora nella brina,
in certi segni incisi su porte e travature
divelte dalla neve – sembrano carezze
sapienza antica d’umili certezze.
Visto da quassù il mondo non esiste
è solo il guizzo di un dubbio cartesiano
questo è l’immenso che origina la vita
angusta che pure viviamo
seriosamente occupati a divenire
pur emulando l’eterno, a gridare
il nostro Io alla volta del cielo
che indifferente dorme nel suo nero.
Energia pulita e colate di cemento
dighe e canali e stupore di stambecchi
cogitabondi per questi dirupi
con la grazia lenta dell’eternità
ritorno all’industria che brucia la neve
per arrivare all’appuntamento col progresso
con l’energia pulita che perfora anche la notte
colata dopo colata fino alle stelle.
Vorrei morire addormentato sotto un masso
perché la vita è più lieve di un soffio
di vento e mentre passa è già altrove nel niente
e tutto da dove veniamo
vorrei starmene per sempre sulle alture
ascoltare la neve levitare nell’inverno
l’urlo ferito della tormenta
che ci rammenta la voce dell’eterno.
Dialogo col Doktor Adler (epilogo)
La sua poesia aggredisce ma non uccide
direi a spanne che ha fallito il suo compito
– ne conviene? – ha rovinato il suo umore
ha spruzzato veleno, indisposto il lettore
oltraggiato la maestà delle istituzioni
senza ragione alcuna che sia chiara
esauriente, lei insulta la scienza
e la ragione: lei è proprio un coglione
suicida anomico, perdente in via
di totale perdizione. Lei ha bisogno
di riscattarsi e vincere per superare
quel senso d’inferiorità che la comprime
in una visione distorta della realtà
fra burn-out e paranoia, isteria
e irragionevole sindrome da utopia
che le impedisce la visione della verità
Tenerezza, altruismo, amicizia, amore
sono le chiavi di volta della convivenza:
lei le ripudia tutte, fomenta intolleranza
incita al disprezzo, si sente portatore
di una frigida giustizia interplanetaria
da inferiore vuole dominare
con arroganza e ressentiment nicciano
e intanto la vita le sfugge di mano.
Di sotto in su osservo il professore
veramente scazzato da fare paura:
ce l’ha con me, anche se è solo un sogno
ma nel sogno mi sfugge questo particolare;
me ne sto in silenzio, aspetto che si calmi
rientri nella sua dignità professorale
– preoccupato che la prova del mio delirio
sia questo dialogo che sta venendo male.
Osservi: ha scritto quasi quattrocento versi
e in nessuno trovo la parola “amore”
– a parte la precedente citazione
dei principali assunti della mia psicologia –
lei addita i mostri perché non trova al mondo
bellezza alcuna, non sente l’eros vibrare
nel creato, non sa volere quel che vuole,
volerlo davvero, al di là del desiderio.
Considera una cagna la politica
assassini i militari di carriera
la guerra una faccenda di maiali
scannati per via come fosse uno spasso
premere il grilletto e non un peso
enorme da sopportare per il vantaggio
collettivo, lei non è punto saggio:
la morte è – si sa – un accidente della vita…
Ignoro se queste siano parole
sacrosante sue o soltanto il mio delirio
che si avvita su se stesso e s’inabissa
nei meandri più foschi dell’incoscio
vorrei rispondere ma non so cosa dire
non ne capisco molto di psicologia
o psichiatria: io mi fermo all’anamnesi
all’historya: se mi va scrivo – e così sia.
Il segreto del poeta vincente – dia ascolto
al mio consiglio – è vedere la bellezza
dove altri non la vedono, spargere amore
e sentimento giocando per il sottile
sul filo delle emozioni, forbire la lingua,
che suoni, che schiocchi e s’innalzi
al di sopra del tedio oggidiano: il poeta
sa creare mondi nuovi chiavi in mano.
Mi guarda intensamente, accigliato
dietro i cerchi d’osso degli occhiali
aspetta una risposta, una conferma
il raschiamento del barile, la disfatta
della mia assurda pervicacia – ma taccio
non so che dire, non sono allenato
a rispondere se non rifletto a lungo:
mi comporto da poeta maleducato.
Potrei simulare un malinteso ed evitare
la filippica del Doktor Adler, scusarmi,
dire che non è farina del mio sacco
io non so scrivere, non so pensare,
sono anche un po’ miope e afflitto da sciatica,
quelle cose le ho trascritte da siti Internet
così, per passare il tempo – tanto il guadagno
non è diverso da poeta a perdigiorno.
Mi accorgo che nel sogno comincio a divagare
divento una bolla di sapone o massa informe
che comincia pian piano a levitare
ed osserva dall’alto l’assetto verticale
di tutte le cose, dai libri nel soggiorno
al quadri del salotto e poi fuori:
tutto è verticale, gli alberi, le case
– la guerra è orizzontale: è vero: non esiste.
Rientro dunque nella normalità sociale
di tenerezza, altruismo, amicizia, amore,
mi sento meglio, ho quasi le traveggole
vedo la poesia lontano fluttuare
come una nube rosa che appare nel mattino
di un giorno di festa, non mi resta
che cantare a squarciagola con fervore
la mia normalità e il pericolo scampato.
Tutto questo invero ha i suoi vantaggi
ritrovo un codice sociale condiviso
ormai dimenticato, ritrovo amici
poeti coi quali un tempo ho litigato,
facciamo pace, beviamo una birra
anche se non mi piace, mi sento magnanimo
e tollerante verso la letteratura
tirem innanz, – che è già abbastanza dura…
Parteciperò ai premi letterari
raccomandato alla giuria dagli amici
degli amici – una fitta ragnatela –
sarò incoronato poeta, citato
nelle riviste di letteratura
e punterò a sconfiggere la morte
scrivendo libri e pagando per editare
coi soldi dei premi letterari.
Mi sento bene, Doktor Adler ora
anche lei se ne può andare dal sogno
lasciarmi sguazzare in questa dimensione
almeno fin che non spunti il giorno
e la radiosveglia mi reciti notizie
riportandomi a visioni da ripudiare
– ma questo è facile: giro la manopola
ascolto canzonette e la verità riappare.
Poeta, critico, direttore della rivista Poiein (www.poiein.it), Gianmario Lucini è nato a Sondrio il 18/09/1953. Ha frequentato le scuole dell’obbligo a Sondrio, Roma, Como e l’Università a Brescia, laureandosi in Scienze dell’Educazione (indirizzo Formazione Aziendale) e conseguendo un master in critica. Ha vissuto come emigrante in Svizzera per alcuni anni in giovinezza, si è trasferito per 10 anni circa a Bolzano e dal 1989 di nuovo a Sondrio.
Attualmente lavora a part time presso un ente pubblico, si occupa di formazione e animazione culturale organizzando o partecipando come docente a corsi, dibattiti, incontri. Ama la fotografia, la musica e di dedica alle video riprese realizzando filmati semi professionali di carattere documentario, culturale, atti di convegni, seminari, ecc.