Archive for gennaio 2008

Francesco MAROTTA – “Da un’eternità passeggera” (1998 – 2003)

Giorgio Fersini    Alba magica

 I. L’arte che ci perdona del sapere

più chiare nascite
senza memoria di parole
nella voce,
profili
in trame di muschi
cresciuti nel grembo caldo
della luce –
dove
la pelle è un paesaggio
che si apre
a mani da semina
e consiste, limpido,
nell’oblio di polvere
del futuro

(viste dall’alto,
da un prima di distanze,
versando dentro i calici
l’arte che ci perdona
del sapere)

(continua) 

tratta dal blog di Francesco Marotta "La memoria del tempo sospeso"

Savina Dolores MASSA – “Poesie”

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Anche sul blog "La poesia e lo spirito"

Nome proprio: Nubenda

Nel vespro
carezza la carne
sfiorando il riflesso
sullo specchio
scalfito
da unghie laccate
di vergini umori
e cronici
pudìchi tremori.
Domani ti sposi:
glielo mente una vita
quel perfido specchio
ammuffito
in cornice tarlata.
Eterna ingannata
lei
sorride sdentata
e ballano allegri
i seni di pera bacata
dai vermi del velo
in attesa
sul letto
a una piazza.

Nonna

Deu mi croccu in su lettu miu
con un angelu froriu
con un angelu cantèndi
Gesù Cristu è predichendi

e ho paura dei muri bagnati
di schizzi d’urina e pianti di bambini morti bambini
ricordàti stampati in veste di battesimo
e copertina d’innocenza di gigli
occhi spenti prima di vedere niente
la voce ancora non formata
quattro volte inchiodata.

Le piccole mani obbligate giunte.

Nonna chiede perdono dei suoi peccati
ai grassi gechi del soffitto
io sveglia le annuso la carne
che di tutto sa
meno che di inferno e fiamme.
Invece santa è la carne del drago
di Giorgio assassino incorniciato,
cappello al mio cuscino di crine e scapolario
dal troppo baciarlo consumato.
Nonna scricchiola nel letto bacia rosari
e ogni grano è un nome di figlio
già morto
o già grande e sbagliato
o trafitto non nato
da un ferro da calza mal purificato.
E se piove
Barbara la santa obbligata a bestemmiare
più forte del suono del tuono
beve pioggia lasciandola in gola a gorgogliare
il suo terrore per ogni temporale.

Prega mi dice nonna
prega la piccola madonna che non si spegne nella notte
e arriva dalla Francia
ma io non so dov’è la Francia con un’acqua di fiume
che lascia accese solo al buio le madonne.
Le civette occhi rotondi
mi mostrano i denti dal lucernaio
ad ogni lampo e schianto
nonna russa come i treni che in giovinezza
l’hanno attratta non per fuggire
ma per farla in mille pezzi finire.

Il letto è alto per salirvi e per scendervi
sotto sul pavimento di fango battuto
sonnecchiano le anime degli scampati alla vita:
figli di nonna e
con beneficio di dubbio
quelli che io non avrei avuto.

Da un’antica preghiera in lingua sarda: Mi corico nel mio letto/con un angelo fiorito/con un angelo che canta/ Gesù Cristo sta predicando.

Ritorno alla madre

Allattami ancora
madre
ora che sto morendo
e sento dietro la porta
l’amarume dell’acqua santa.
Illudimi
che siano ancora belli
i miei occhi d’albume
e dolce
l’agrore dell’alito
che provo a risparmiare ai sordi
di questo gerocomio.
Lavami di latte
le radici cariate
la lingua di muffa
lo stantìo del già detto.
Misto
a schegge di marmo
fallo giungere
e attecchire
con l’albume fatto glassa
nel concime solido
delle mie frattaglie
e fiorire
attorno a me
come insperato
sperma di ragazzo.

Parole da poco

Vi concedo le mie natiche impudìche
le cosce scarne
le posture maschili e
quelle di grazie ruffiane
di femmina che non è madre
e vale meno delle altre
io
mi umilio in libidini immacolate
dubbi fecondi
che tengo in grembo
feti
a morire di cancrena imporporata
e niente è indolore
non la mia disperata virilità
che celo sotto tre palmi di polvere
e la mediocrità
di quando mi accontento
e la superbia
di quando odio davvero
e il sangue
che sgrida le ossa per il chiasso
io
mostro il sesso
ai ciechi che hanno paura di toccarlo
ma accendo
labirinti di immaginazioni
senza uscite
e senza ansie d’amore
vendo i succhi del mio corpo
a creature simili ad un quarto di luna
come chi
ha una vecchiaia di vent’anni
o un’allegria di antica quercia
io
mangio pane e zucchero
accanto a morti di cirrosi
e che non mi si biasimino le passioni
io
sono una
che ama le parole barocche
con la crudezza giusta
per assassinarvi.

L’inizio dei commiati

Di mestruo in mestruo mi accomiato dalla carne
preziosa quanto quella macellata
appesa per costati tra ghiacci mortuari
e poi prezzata.
Nell’accavallare le gambe muro la vergogna
di una memoria spurgata puntualmente,
ammirata per gusto di commiserazione
nel tamponato dondolio rosso, passione?
Si gettano alle fogne le memorie
si lasciano sull’ombra
della schiena
collezioni accumulate
di acquasantiere
cavalli legnosi
o copule di buone annate.
Inizio a tacere
il desiderio di peccare in gola,

bruciarla in olio fritto e piccante
ubriacarla di novello di novembre,

arrochirmi ogni pensiero
abituandomi al fiato dell’inverno.
Nebbie in cornice sui mobili
polvere sulla scala dei libri
penne senza inchiostro
bianco eterno di pagina.
Non è virtù impavida la resa
ma può essere
una degna conclusione.

Savina Dolores Massa è nata e risiede in Oristano. Autrice di romanzi, racconti, poesie, testi di canzoni e adattamenti teatrali.
Si è classificata al secondo posto al Premio Letterario Antonio Gramsci, edizione 2006, organizzato dal comune di Ales, con la silloge di racconti Isolamatara; analogo piazzamento, nella sezione poesia tema libero al Concorso nazionale La città dei sassi organizzato dal Comune di Matera, edizione 2006, con la silloge Piccoli tuoni dietro la ginestra bianca.
Nel 2007, si è posizionata tra i primi otto finalisti nella ventesima edizione del Premio Letterario Italo Calvino dedicato alle opere di narrativa inedita, con il romanzo Undici (in fase di pubblicazione con la casa editrice Il Maestrale). E’ tra le promotrici, nella sua città, di eventi culturali che, tra le altre cose, la vedono protagonista in letture di poesie e brani letterari in collaborazione con il musicista jazz Gianfranco Fedele e con lo scrittore attore Alessandro Melis, con i quali ha recentemente fondato la compagnia di spettacolo Hanife Ana.

“Iridescenze” di Matteo BONSANTE. Con una nota di Antonio Fiori

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E son pur terre anche nostre

queste;

         l’angolo della strada

è nostro,

         la Tosca che si offre

dolente dalla persiana

e colma del suo fluente canto

tutta la strada,

         questo mio seguirla nella

Roma dei papi e degli sbirri,

         e il sole che s’inebria

dei gerani nel mio cuore,

ecco, queste sono terre

anche nostre,

e tu puoi ben affacciarti e guardarci

così come siamo effimeri

e perenni, come tu stessa sei, eternità,

e contemplarci.

 

 

*

 

Il mio altrove è proprio qui, adesso.

Nell’attimo che vira in simmetria

d’amore con l’eterno.

 

*

 

Incurante dei proiettili,

anche quest’anno la primavera

ci riporta i fiori.

 

*

 

Nel tuo sguardo penetra e riluce

tutto il sangue festoso della terra.

 

*

 

La carne, ecco la carne,

è il termine fondo

della tua alta brama.

In me riluce e preme

e s’incendia e s’espande.

E stride e geme e canta.

Come un’ostia vanto.

Un’ostia umana.

 

*

 

Attraversare il muro di silenzio

in punta d’ansia / il varco sempre aperto.

 

*

 

Sul ramato della mattina

         campata germinata altrove,

torni il rintocco della parola

tra le spore sciamanti dell’eterno. 

 

*

Nota di lettura di Antonio FIORI

 

Devo dire che un po’ commuove lo sguardo poetico di Matteo Bonsante. Iridescenze è una raccolta ‘fiduciosa’, nella quale le potenzialità della parola non sono mai messe in discussione, preesistono e presiedono la ricerca del poeta (“Madre, sposa, brezza, neve…/ogni parola che volge in trepida carezza/ è atta a cogliere un nimbo del tuo/ grembo”). Giò Ferri, nella approfondita lettura compiuta in prefazione, ci ricorda, richiamando il Fedone platonico, che “il primato della poesia è nella verità della domanda che non aspetta risposta, in quanto ha la risposta in sé.” Ma qual è  la domanda? Quale l’oggetto di questa poesia? La domanda è quella fondamentale di Socrate: che cosa ci manca, che tanto desideriamo, se non quel che c’è ma ci è assente. La poesia è la ricerca stessa, è il desiderio di cercarsi; così il poeta inizia un percorso arduo e durevole ma l’affronta con grande convinzione, fiducioso in un ‘diverso possibile sguardo su se stesso e sul mondo.

 

“A volte l’ala intorpidisce,/ lo specchio si opacizza./ Più cigolante, raschiante è vivere.” Nondimeno il poeta è vigile, le parole sembrano illuminate: “Dove svettano i giorni, gli zefiri, le armi.” “Dal campanile, ebbro di cieli/ di venti e di preghiere,/ si affaccia un senso dell’attesa./ E una grande nube bianca.”

 

Non mancano i sapori e le  forme dell’haiku: “Seduto sulla soglia,/ mi si è avvicinato il sole.// – Una manciata di rondini dell’eterno.” “Incurante dei proiettili,/ anche quest’anno la primavera/ ci riporta i fiori.” Prevale comunque la forma epigrammatica, la sentenziosa sicurezza di chi è in viaggio esistenziale, quasi sorridente pellegrino:“L’infinità esulta e geme/ nel sentiero angusto dei viventi.” C’è un dialogo continuo con l’eternità, scorta nel presente, e la percezione di una immanente solitudine: “…e sentirti in me – eternità,/ mentre ti contemplo dalle pendici aspre/ del domani.” “Un cammino che volge all’eterno:/ – orme tra le palme che s’interrompono.” “L’eternità/ la vedo scorrere laggiù…/nell’agitarsi degli ulivi nel vento.” “Sulle rovine e sulle discariche/ sull’errare inquieto e violento dei viventi/ sull’orrore della guerra,// – alta e solenne posa l’eternità.”

 

“Tra tonfi, lacrime e sospiri, ululati/ nella notte/ e foglie colme d’attesa,/ si perfeziona il volo della terra.// Nella solitudine.”

 

Ma vorrei ancora segnalare le poesie “E son pur terre anche nostre” e “La carne, ecco la carne” oltre il bel distico sull’omega umano: “Attraversare il muro del silenzio/ in punta d’ansia/ il varco sempre aperto.” L’incontro con Matteo Bonsante insomma si rivela alla fine fruttuoso, intenso e coinvolgente, come di rado capita in poesia.

 

 

 

Nota biobibliografica

 

 

Matteo Bonsante, nato a Polignano a Mare il 1° settembre 1935, vive dal 1976 a Bari, dove ha insegnato nella scuola secondaria superiore; ha iniziato giovanissimo a comporre versi e non ha mai cessato di scrivere poesie, pubblicando complessivamente, dal 1986 al 1998, tre raccolte – Bilico, Zìqqurat e Sigizie –, cui sono da aggiungere, per ottenere un quadro completo della sua produzione, tre drammi – Caldarroste (atto unico, registrato per RadioRai da Vito Signorile e Tina Tempesta ed edito, con presentazione di Antonio Coppola, da Lo Faro, Roma 1981, quale quinto volume della collana ‘Premio-Teatro Italiano’), Dietro la porta (dramma in due atti, edito, con prefazione di Egidio Pani, da Tusculum, Frascati s.d., ma 1984, quale primo volume della collana ‘Commediografi d’oggi’, diretta da Lucio De Felici) e ancora un atto unico Per solo donna (Aliante Edizioni, Polignano a Mare, 2004) Per la narrativa ha pubblicato due romanzi brevi – Una linea di fuga (Adriatica, Bari 2001) e Sperduto. Uno scolaro alla ricerca del padre disperso in Russia (stampa in proprio, Bari 2003; racconto ispirato a una lirica in dialetto polignanese di Tonino De Filippis, Desperse, pubblicata in Vernacolando, AGA, Alberobello 2002). Alcuni altri testi teatrali, narrativi e autobiografici risultano attualmente inediti. Del 2004 è la pubblicazione della raccolta Poesie 1954-2004 (Aliante Edizioni, Polignano a Mare), volume che raggruppa la produzione significativa di 50 anni di poesia

 

(profilo biobibliografico pubblicato nel blog LiberInVersi il 16 febbraio 2006, cui si rinvia:

http://liberinversi.splinder.com/post/7190921#more-7190921)

 

 

 

Michele RANCHETTI – Poesie

Senza nome

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da La mente musicale (1988)

 

Non abbiate un amico sulla terra
che dovete lasciare, sulla soglia
non trattenetevi oltre, la partenza
sia violenta ed irata.

Alla resa dei conti tu solo
parlerai per te stesso ed in tuo nome
ti loderai scusando le occasioni
che ti hanno vinto: tutti
ti parleranno contro a voci alterne
e tanto ostili quanto più ne temi
l’intelligenza della tua natura.

Giobbe paziente e ostile
vinto ti è accanto.
Non l’hai lodato, solo in te riposa
vinto, l’assalto.
le membra ricongiunte
nel tuo corpo intatto
vive diviso e indifferente.

Il suicidio in me vive
e nella calma innaturale e lenta
si è ridestato
alzandosi sui gomiti
sorgendomi alla spalle:
ecco io assisto alla lotta
fra morte giusta e ingiusta
ed è la prima un letto,
dopo la mente e il corpo a lungo vivi,
dove supino calco il mio cadavere;
l’altra, morte illegittima,
è una frode violenta.

Nacqui felice e subito mi tolsi
all’affetto dei cari
con arroganza. Disperati li vidi
non chiamati, distinti dai viventi
per una traccia di pietà dolente,
avviarsi alla morte.

Mai ho vissuto felice nell’infanzia
già conoscendo il male di conoscere
prima del tempo. Me per me, in me stesso
dentro di me.

*

Prima di morire una creatura vive
differente. I cari prendono il largo
come navi create dal mare
da cui sta per salpare. I cari
hanno un destino, chi muore
non ha presente. Che dire, a chi
rivolgere lo sguardo, quale
certezza aggiungere a quel soffio
che viene meno e somiglia
tutta la vita?

Tutta la vita adulta
ho vissuto tra voi, prima ho spiato
da madre il figlio, poi
cresciuta entro di voi,
libera vi ho fatto grandi,
mentre senile all’apparenza,
vivo infantile innamorati cieli
da cui piombo come falco del lago
sopra di voi entro le vostre case
e conduco
a morte i grandi, a gioventù i bambini.

Sono nel letto di dolore per voi, sorrido
e fingo di morire: voi siete inginocchiati
come a un presepio e sono io il bambino
su cui me stessa veglio.

Non crede di morire e si allontana
il suo corpo dai cari, distrae
ora il suo tempo gradualmente
acquistando altro tempo per se stessa.

Vi rivedo di nuovo, eccomi a voi,
che mi guardate mentre sono sottile
filo di trama che mi avvolge.

Luce porgo al mio occhio per vedermi,
porgo forza al mio dire
verso a me stessa la vita
con sapiente prudenza: e paura: accanto alla mia morte
tutti avete l’età che fu già mia
oltre la quale io mi accingo
con prudenza e paura: sulla soglia
della vita di voi s’apre la mia.

Ciglia socchiuse, palpebre abbassate,
ecco il respiro che si fa lieve, un soffio
tutto è pronto a morire, il piede,
la mia mano… Benedetto mio corpo.

*

Da Verbale (2001)

La fine del confronto: una
verità libera: era
necessaria la fine per compiere
e conoscere fuori dal luogo
dell’origine:
la figure della madre e del padre
impedivano il vero.

*

Muoiono le figure dell’assenso
vite non più parallele s’interrompono
d’essere presente è il compito, non più la sorte.
Tu non sei
più vicino alla fine che al principio
e il dove è inesistente: ora precipita
o sale e si sottrae: si avverte
come presenza oltre l’assenza eterna.

*

Vivo in una cassa
da vivo: morto
sarò risorto.

*

Curo, come vedi, un giardino
piccolo, su misura
del bambino che in me
vive da adulto: figura
del mio premio terrestre.
Alberi senza rami, recisi
dal gelo dell’eterno, frutti
su tronchi inesistenti
uccisi dai silenzi.
Terra senza colore, lutti
aridi, spoglie, muore.

*

Dove credevi di trovare accolto
il tuo dare ottieni non il rifiuto ma
la volontà contraria in contrappunto
non conoscibile, diverso, maledetto:
la tua pietà distrugge l’universo
se lo assume a conferma, ma è l’odio
che ti fa libero e tu non vuoi che sorga
dalla cenere spenta della vita vivente.

*

Di chiesa in chiesa verso la reliquia
l’itinerario è dove sei, è in te, non ha
segni apparenti: dove era
una strada e attorno vi si apriva
un accorrere, è fisso
sbarrato un presente.
Rimane un abside, un portale
figure di dannati in fughe
apocalittiche a formare
un intrico di fede
murata nelle anime credenti:
i corpi vanno al riscontro.

*

Se cerco di distruggermi
è per non essere raggiunto
dalla sua morte, cedere prima,
non essere presente, già fuori
dal recinto di vita.

 

Michele Ranchetti, nato a Milano nel 1925, vive a Firenze. Storico della chiesa e attento commentatore della recente evoluzione del cattolicesimo, studioso di storia delle religioni, di Wittgenstein, Heidegger e Freud, ha tra l’altro pubblicato Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi 1963), Gli ultimi preti. Figure del cattolicesimo contemporaneo (Cultura della pace, 1997); per La Edizioni di Storia e di Letteratura ha pubblicato in tre volumi un’ampia raccolta dei suoi saggi: L’etica del testo (1999), Chiesa cattolica ed esperienza religiosa (2000), Lo spettro della psicoanalisi (2000); più di recente, Non c’è più religione (Garzanti 2003), ha curato l’edizione della Bibbia di Diodati per i “Meridiani” (Mondadori 1999) e gli Scritti di metapsicologia di Freud (Bollati Boringhieri 2005). Consulente editoriale, pittore e poeta, ha scritto anche le raccolte poetiche La mente musicale (Garzanti 1988) e Verbale (Garzanti 2001) e ha tradotto tra l’altro due testi di Paul Celan, Conseguito silenzio (Einaudi 1998) e Sotto il tiro di presagi (Einaudi 2001). Per Feltrinelli ha curato inoltre l’edizione di Uwe Johnson, I giorni e gli anni.

Avrei gridato anch’io 

all’attracco delle navi piene d’aliga[1];

ma il calcagno sarebbe finito

sulla testa del naufrago.

Si ragiona dall’interno

di cortili puliti

che l’ovest è ombra lunga

    e pencola

come cipresso davanti alla luna.

La mano buona,

    ma tra uragani

    e ghiaccio sciolto su per le caviglie.

La gente prende fiato, ora 

    ma è paese di bastardi

    e fessi e babbi natale, 

e il bene sta in un pozzo

sempre più profondo.

Bastava la cura

    di un buon padre di famiglia

    e poi magari il sonno, di nuovo.

La notte, al molo

pulsava un cuore nero

    squadrista;

inutile tentare di convincerli  

a sollevare il piede

    dalla pompa calda d’un aiuto:

una schiena se è dritta non piega

    se è curva non vede.

 

gn


[1] Nella lingua sarda, variante campidanese, il termine “aliga” significa “immondezza”.

La poesia è riferita al fatto di cronaca sull’arrivo al porto di Cagliari di  navi cariche di decine di tonnellate di immondizia provenienti dalla Campania. Un gesto di solidarietà per la tragedia di una popolazione ritrovatasi nei giorni scorsi sommersa dai rifiuti, a causa della scellerata gestione del servizio da parte di politici e amministratori locali. L’arrivo delle navi, il cui carico è stato smaltito in poche ore, ha creato una violenta reazione da parte di rappresentanti politici dell’opposizione e di centinaia di cittadini, oltre che una spaccatura all’interno della stessa coalizione di centro sinistra. 

ARTISTA - RIFIUTI

“Psicofantaossessioni” di Faraòn Meteosès

faraon

 

 

 

 

 

 

 

Anche sul blog "La Poesia e lo spirito" 

KM 1999

Esserci stati, quando ci dovevamo essere,
dietro le barricate, entro le scuole a studiare il Maoismo
contro i conservatori, a fianco i progressisti,
lungo i corsi centrali, nelle piazze,
durante le marce autogestite,
alle manifestazioni non violente
per i diritti civili, per le lotte sindacali
accanto agli ultimi partigiani, agli antifascisti;
senza essere stati brigatisti rossi,
dei N.A.P., del Potere Operaio,
perché mio padre avrebbe potuto viaggiare
su quell’Italicus, sulla Stella del Sud,
mio zio sostare a piazza Fontana,
mia madre fare la spesa al Mercato Trionfale
… ma eravamo troppo giovani per sapere, per capire
ciò che era successo, quanto era accaduto.
Esserci stati, quando ci dovevamo essere,
essere stati sessantottini anche solo in settanta,
aver commentato sulla sconfitta
della Nazionale in Messico,
sul viaggio interstellare di Gagarin,
sul primo allunaggio di Neil e di Armstrong,
aver assistito al concerto di Jimi Hendrix al Brancaccio,
alle prime dei film di Luis Bunuel,
ballato i Bee Gees al Piper con Renato Zero,
aver visitato il museo di Dalì,
giunti ad Amsterdam con l’Interail,
a Cristiania dei tempi d’oro,
scappati in Nepal a ritrovare sé stessi,
fumato la marijuana a Benares,
allucinati di moderno induismo
o tatuati col segno del Tao,
augurandoci di non essere stati vietnamiti, afgani,
non nati per caso in Indocina,
per uno scherzo del destino nella Steppa dei Chirghisci
… ma noi siamo stati sorpassati dagli anni ottanta,
dai capi firmati Valentino, dall’edonismo Reaganiano,
dai PC, dai 7e30, poi dai 7e40,
alle otto meno venti tutti a cena, più tardi ad un party,
a un dopo-cena con tanto di olivette
e cosi non abbiamo avuto l’opportunità,
il piacere, la stravaganza
di terrorizzare, attaccare il potere politico,
stupefare, ridicolizzare la società,
ma guardato nel monitor in tempo reale
yugoslavi, albanesi, zairesi uccisi come le mosche,
cadere nella tela delle multinazionali
e a chi a loro ha svenduto arsenali di seconda mano
è lo stesso che ha inviato aiuti umanitari,
educato alla dittatura i vassalli come Said Barre
e gli sforzi di Troskij, di Ghandi, di Malcom X
a che cosa sono serviti? A che pro, il loro martirio?
Esserci stati nelle praterie del Tennessee
tutti nudi ma dignitosi del proprio corpo,
abbracciati agli alberi come fratelli,
nel tripudio con ghirlande di fiori sulla testa,
danzando in cerchio come a Stonehenge, in posizione yoga
respirando coi diaframma nel momento dello zenit,
sovrastati dal volo dell’Aquila
e invece noi abbiamo addentato l’Agnello Pasquale,
la Colomba della Pace,
sentito il sapore di Dio attraverso il cibo,
abbiamo trangugiato, masticato le ostie,
stracolmi dello Spirito Santo,
immersi nel benessere apparente,
tornati per il prossimo millennio già mangiati,
detersi, immacolati, già confessati
per nulla cresimati solo al matrimonio e cristocentrici,
catto-mafiosi ed italioti per nulla europeisti,
per nulla cosmopolitici ma turistico-pedofili,
autorizzati a deflorare le bambine tailandesi,
a fare stragi d’innocenti in Brasile
per conto del Capitalismo, in nome di quello stesso Dio
che ha permesso tutto questo!
Esserci stati nelle accademie,
nei conservatori sperimentali,
nei campi-studio e lavoro
col metodo Montessori,
con nozioni di psicologia bioenergetica,
attori in psico-drammi,
come figuranti della Metro-Goldwyn-Mayer
in un grande ruggito-conato di vomito,
espulso tutti “i direttori artistici, gli addetti alla cultura”,
buttato giù da una rupe-discarica
la più “fetosissima” immondizia commerciale
… ma che da quelle buste-placente di plastica
non nascano i nostri figli insicuri, paurosi,
senza valori precisi, senza uno scopo,
seppur minimo nella vita
e le nuovissime generazioni ci si ritorcono contro,
perché questo è ciò che hanno ereditato:
una libertà a caro prezzo che dovranno essi stessi pagare,
mentre i nonni ogni giorno muoiono
per l’estrema vecchiezza abbandonati in cronicari
dopo terribili terapie geriatriche,
intanto ad alcuni non è concessa la Morte,
ad altri è permessa la Vita per la Madre-provetta
e pochi altri più longevi resistono
e lasciano medaglie ai nipoti,
loro, ultimi eroi di una patria che non c’è più,
se non sulla carta di un mondo
che esiste soltanto nella sigla dei programmi satellitari.
E noi che abbiamo più di trent’anni suonati,
abbiamo piantato un fiore sopra il cavalcavia
dell’autostrada del Sole al Km. 1999,
mentre lassù sfreccia un concorde,
là transita il treno per Lourdes
tu mi consigli di contrarre una pensione integrativa,
d’installare un impianto a GPL
… di comprarmi la casa a riscatto.

Da: “Psicofantaossessioni” di Faraòn Meteosès
Lietocolle, 2007
Prefazione di Claudio Comandini

     Libertà e rottura, rivelano queste poesie di Stefano Amorese (alias Faraòn Meteosès) che prende chiaramente le distanze da accademismi e poetiche prevalenti attuali e passate; ma non dalla storia e dalla vita reale, attraverso le infinite voci che le raccontano e l’hanno raccontata. Una volontà, parrebbe, di raccordo diretto delle proprie esperienze e percezioni ad una propria formanda lingua, che batte libera con empito teatrale attraversando e metabolizzando paesaggi su paesaggi, rompendo gli argini di un dire “stitico”, per dirla col prefatore, che “spesso scambia per poesia sfoghi incolori”. Qui, invece, i versi pulsano ed esondano – con un affollarsi di nomi, oggetti, sigle, richiami, espressioni di gergo comune o tecnico-settoriale, o in latino e in inglese – senza nulla omettere, offrendo quadri di vita finanche sporchi ed enfi di tutte le scorie. Ed è proprio questa deliberata ipertrofia che rivela l’intento dissacratorio dei componimenti, i fianchi adiposi d’una civiltà incastrata e sempre più soffocata, ormai, nel tunnel di una modernità o post modernità spesso desolante.
     I testi si compongono di versi lunghi carichi di una forza che radica su un ritmo e una musicalità giocata su assonanze e su scelte e accostamenti lessicali, il tutto preordinato – al di là della sostanza del discorso – a un’efficacia dicitoria.
Talvolta, come per la poesia KM 1999, l’affollamento polimorfico di elementi dirada per assumere l’ordine di un discorso articolato e logico.

Giovanni Nuscis

Faraòn Meteosès è l’anagramma e lo pseudonimo di Stefano Amorese (Roma 1965). Già militante in diversi gruppi di poeti ed artisti dell’underground romano, conquista la celebrità per le sue letture poetiche nelle pubbliche piazze della capitale e per la realizzazione di rigorose autoproduzioni editoriali. Al suo attivo “Per ludum dicere”, rappresentazione di teatro di poesia, altre performances,  pubblicazioni su riviste e in rete.

 

“Trovatori” – Gianni D’ELIA

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“Se varie voci parlano in un sogno,
o nelle stanze del reale mondo,
io non so, ma so che dentro ogni sogno

ci sono stanze che sembrano le nostre,
e con persone che sembriamo noi
dialoghiamo, delusi da batoste,

dal prima in cui riandiamo al nostro poi,
sbigottendo delle vie posposte,
di tutto quanto è andato via con noi…”

“Come Rodolfi, dentro una mansarda,
parliamo in rima con gli amici e basta,
mentre Mimì cucina giù per noi,

perché di cibi e vini si riarda,
un’altra sera, e di quegli ideali,
che questo tempo fesso ha reso nani…”

“Sì, ognuno muore, il popolo, rimane,
e più d’alcuni in molti resta il canto,
se le voci dei bardi sono il palpito

di quel cuore indiviso e popolare!…”
“Le cene se ne vanno avanti, in presto,
così che molte voci fanno cori,

e ognuno si riprova al dire onesto…”
“Noi, trovatori di pace e d’amore…”
“Noi, trovatori di noi cercatori…”

“Per quel lontano e bello nostro mare…”

*

“Increduli d’esistere, mortali,
i piedi e queste mani svaniranno,
questo volto, che fu dei nostri avi,

tra miliardi di vite che verranno
e miliardi di volti sparsi e vani,
sarà stato nostro doppio e nostro affanno!…”

“Saremo stati vivi esseri umani!…”
“Pietà, per gli scorretti e gli anormali,
che vissero sepolti nelle case,

le cavie di normalità bestiali
consegnate dal padre e dalla madre,
per chi sciupa i mattini nelle brame

segrete, celebrate nelle tane…”
“Voi, come il gran Villon degli impiccati,
per il Dioniso dei disadattati,

pietà per voi e gli altri ossessi abbiate…”
“Ecco l’augurio, a tutti i dissociati,
che vivono l’azione come un’asma,

lavoro e pigrizia vinca il fantasma!…”
“Voi, perdonate il rito di chi langue,
corpi, che senza amore vi restate,

come colui che senza voi si piange…”
“Amore, tu più puro d’ogni amore,
perdona il peccato di questo cuore…”

*

“Ora, anche mio padre è storia, se il modo
che ha di mutarsi in storia natura, è morire…”
“Questa, è la prima estate che non vive…”

“Ogni sera, non gode dell’aria, del verde
giardino, non sta più curvo o accoccolato
nelle aiuole dell’orto di confine,

non annaffia più i solchi dei pomodori,
le docili e dritte schiere degli ortaggi,
non rimanda più la sua voce il saluto

alla meridionale, l’offerta dei doni
vegetali, dei frutti dolci di stagione,
coronati dalla più bella rosa…”

“In questa arsura di lunga afa, corrosa,
ma dove finalmente, a singhiozzi, piove,
il vetro, bagnato dalla luce finale dei raggi,

trema dei tuoni rotolanti e sparsi,
e già alle sette ormai va via il giorno,
più malinconico alla fine dell’estate… ritorno

là, dove è ora, e dove è scritto: “e Gesù disse:
-Passiamo all’altra riva” – la parola
ultima, che non leggevo, mi ha inchiodato,

scostando i fiori, il senso arrivato
fin qui, oltre ogni storia e ogni costa,
in postuma e cristiana risposta, a questa via,

che il mistero non rifiuta e non declina…”
“Padre di poesia e d’esperienza,
se ti ha portato via questa tempesta,

è voler dirti ancora sulla tomba
che sei la stessa e viva mia coscienza,
ammonendo col lavoro e la pazienza…

E sempre sul sentiero di montagna,
lì, tra gli abeti trafitti dall’alba,
la tua figura chiara m’accompagna…”

“Erano quelle gite il paradiso
terrestre, dei villeggianti per funghi,
e si sentiva il respiro condiviso…”

“Sempre ritorna questa mente ai lunghi
giorni dell’infanzia, in cui si viveva
senza saper di viver la mancanza

della vita, nella bella speranza…”

*

“Oh, tu lo sai che c’è, da qualche parte,
un corto molo di legno, sul mare,
e lì sei vecchio, e fumi, alle tue carte…”

“Scrivi, su una sediola, e stai a guardare
la lastra incandescente del Mar d’Arte,
che nel bagliore del tramonto appare…”

“Dal sole a te, una spada d’oro riarde,
come quel giorno che la morte, in parte,
si fece calda di ciò che rinasce…”

“E siamo noi, in quel barbaglio, e chi parte,
l’acqua, sorella della luce in fasce,
che nel finire brucia più del sole…”

“Il tempo riparte dal nostro cuore…”
“In una ballerina, poi, si sfalda
la spada d’oro fuso, che si muove…”

“Negli occhi chiusi rimane la danza…”
“Noi ce ne andiamo verso un oltremare…”
“Non aver come dio solo il linguaggio…”

“Il libro resta qua, salpa il cantare…”
“Scribi, la religione del linguaggio è niente,
se Ignoto e Nuovo più nega alla mente,

se Ignoto e Nuovo più cela alla gente…”
“IN FONDO ALL’IGNOTO, PER TROVARE
IL NUOVO!…”
“per quel lontano, che sarà sempre in te…”

“Trovatori” – Gianni D’ELIA
Einaudi, 2007

Un venditore di bolle di sapone in strada a Kathmandu

Dammilli a mia

 

 

 

Zoccu n’accanzi chiù

di l’occhi toi rifardi

lu jornu chi di bottu

sgabbillisci e attranti?

 

Vittiru li stiddi

lu mari li muntagni

sappiru la strata

la puisia la scienza

pottiru lu chiantu

la fantasia l’amuri …

ma tannu su’ scucivuli

vasci ntamati nugghi.

 

Avissiru statu virdi

azzoli o niurincioli

dammilli a mia ssi brinnuli

avanti chi s’astutanu;

a mia pasciutu a l’ummira

a mia chi campu scuru.

Dammilli!

Chì ancora ponnu cerniri

strucchiuliari, ridiri.

Dammilli; p’un miraculu.

 

 

 

Che ne farai più / degli occhi tuoi malandrini / il giorno che d’un tratto / la morte, ti coglierà? /  Avranno visto le stelle / il mare, le montagne / conosciuto la strada / la poesia, la scienza / potuto il pianto / la fantasia, l’amore / … ma quel giorno saranno inespressivi / bassi, allampanati, spenti. / Siano essi verdi / azzurri o neri /  regalali a me i tuoi cristalli / prima che si spengano; / a me cresciuto nell’ombra / a me vissuto nel buio. / Regalameli! / Perché  ancora  possano  scegliere  /  adoperarsi,  ridere. /  Regalameli;  per  un  miracolo. 

  

 

Marco Scalabrino

marco.scalabrino@alice.it

 

 

“La macchina responsabile” di Maria Grazia CALANDRONE

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Dal mondo esposto

L’amore è la salute della scimmia.
Gli occhi dell’asino santo imbrattati dal vedere
la ruggine quieta delle cisterne..

Vento che arrota l’erba, l’ultravioletto calice
della sera come una latitudine radiante.

O il mare e i pomeriggi
composti dall’involucro ninfale della cicala.

Dammi le prove della tua gioia
nella carcassa del quotidiano
                                       che rodi fin che è luce, luce…

Anche sul blog "La poesia e lo spirito"

Specialmente i bambini

Spesso i sopravvissuti si lasciavano morire
perché volevano tornare
a casa e Casa è dove tra i lampioni gironzola un profumo
di caffetteria, zagare e gesso di lavagna
e non volevano vedere il vento
chiudere sopra i fratelli la sua bocca fervente.

Che cosa è mai la mia solitudine rispetto a quella di lei che
veniva
trascinata per le mani dentro il rigore della legge e lo sterno
le batteva sul marcio della terra
e l’area sacrale, la camicia con i segni geometrici dell’amore,
il ronzìo
elettrico di finestrini e il crocicchio orografico del volto
che insiste nell’area inferiore
della nostra memoria
perché lei era timo – pane nero, canto
aromatico del giorno che sgorga
del più alto degli organi come da un’arteria
e lascia il mondo coperto
dall’artificio del suo canto
e delle sue figure
e del suo sangue
di farfalla gemmante
da poche centinaia di tramonti.

Siamo un errore di trascrizione degli angeli sulla terra:
questo corpo ridotto a ramo
onirico e bianco
o cavi elettrici, nervi perduti
dalle braccia di Dio
la sutura del petto più vicino alla luce – e con le mani
sporche piegate fin che corrispondono
a grandi sempreverdi.
L’udito è tra i sensi del bosco il più tremendo e comincia
dalla cedevolezza corticale del capo sul letto
di ortica del fiume nel mite rumore
di officina prenatale.
L’inizio è sempre nello stesso chiaro
di latte e varechina.

La dolcezza del corpo tra le rocce
il suo pallore di scagliola e rotula come una spaccatura del-
-la terra un magazzino
d’amore – come a fianco dell’incombusto nulla
il giacinto animale.

Apocalisse dell’animale grande

V

Si va all’assalto correndo
dal fronte delle campagne con la grappa che infetta
il fiato e il coraggio dei fanti passa sui morti
sulle armi composte come mosche acquatiche – e pensare
che uno ha nel cuore
il grido soffocato della donna
che aspettava senza un lamento nel mondo bianco delle so-
glie
invernali, sul vialetto tra i lecci e la madreselva
nei capelli confusi
alla fragile arca di fieno
e il suo profumo insiste alle campagne insieme
alle campane in quell’altra domenica di giugno che allargava
il ponte
della feria: quello
che sta correndo
verso l’arco di gioia delle sue braccia
con la collana di vetrini azzurri della fiera, alla fossa di sale
dei suoi denti, dei seni aperti
nel sentore di oro marino dentro l’anello oscuro
della sottana: quello!
sono io, io
finalmente – e ho i pidocchi nel corpo
che sfiatava il suo nome nella fretta mariana della ruota del
sole mai fermo
tra carrubi e metano e pareva destino
l’impressione del paradiso che stava uscendo intatto dal suo
fiato
decompresso di cosa che daccapo finisce
e mi rivolge qui con tutto il corpo a questa intensa
distruzione della materia.

Fiori che sono fiori esemplari
del lutto. Domani
saremo cielo domestico
sorretto con il corpo che è una mandria inumana, domani
come quello
il cui nome trasvola tra i gabbiani e la calotta aperta dei bi-
plani e i gas
nella spunta dell’acqua, come quello
saremo, che è partito
con la zappa in spalla, l’occhio grande dei bufali nel mu-
schio
tuscolano e nel fondo del petto il miglio d’acqua
che già fermenta alla nullità del sole.

Nel fronte interno srotolano i dispacci sotto le lampade da mi-
niera
e l’ignoto attraversa il paese come filo spinato che sente
battere la pala dei fanti, lo smalto
delle gamelle contro la latta
e metri d’aglio. Maria, abbiamo
del gran danno nella testa
sporca di bestia che scappa
sottoterra, abbiamo nella groppa il crollo dei muli
sotto il peso plebeo dei materiali. Dammi il cuore
Maria, perché il tuo cuore
pesi come la terra tra le mani
mentre io ti raggiungo sotto il pericolo, Maria, con i pensieri
che non smettono mai di pensarmi, anche dopo
tienimi a te, al mio posto
sulla terra de nomi. Solo tu
sai il mio nome Maria, perché il mio nome è all’orlo
della tua gola, bianco
come un affogato nel canale
sepolto nel tuo bianco che rinviene. Anche dopo,
stanotte, quando io sarò cenere, pronunciami Maria con il
tuo corpo.

VIII
Dio faccia con me come tu hai detto

Io sono la spora che rimane – ecco
sono la serva
e la costanza.
Ma niente a che vedere con il volto l’amore
su quel camminamento non asfaltato:
la crescita incontrollata di una sagoma espulsa dalla ghiaia
un insieme di corpi caldi aspiranti: come un magnete
in fondo al buio
l’altro caldo di lei, pacchetti di proiettili sepolti, tacche di
artiglieria
il silenzio compatto delle ossa turbini bianchi e senza vento,
l’organismo infantile
incagliato al centro come l’ultima luce del mio giorno d’a-
more, della mia vita.
passano come ombre anche bellissime le vedove bambine
colme di grazia, le incestuose sorelle
come bufale rallegrando il mattino, gonfie
melogranate di San Martino con il riso e il pianto
nel luccichìo degli occhi – lamine
della roccia primordiale – affioranti fascicoli
di parole scappate dagli anfratti ai garzoni
che non credevano di saperne tanto
della ricrescita
di quegli iris lasciati in sterpose distanze suburbane
dato lo scontro di rapaci in mare che fu quel pomeriggio di
fienagione ruberia di millimetri senza responsabilità.

Lei ha messo il suo morto sotto l’albero – nella
sua vigna catarifrangente
fidando che si veda
come un sole
o traslucido vischio
di uccellatore o almeno in quanto albero veda esso
il suo frutto
l’osso lacrimale
la cartilagine
dell’ulna maturare sull’unto degli attrezzi, il suo tempo
ripartire
dalla toppa di un volto
simile al suo, più piccolo. Ave
Maria, declinazione
plurale del nome
che sale
dalle trincee, io ti saluto
in ogni donna, io
ti benedico, faccio di te
mia madre, questo è il figlio dell’uomo
che non si tocca, sei anche tu
Maria l’immacolata.

2 aprile 2005

Da: “La macchina responsabile” di Maria Grazia CALANDRONE
Crocetti Editore, 2007