Archive for giugno 2008

“Era mio padre” di Franz KRAUSPENHAAR

era mio padre

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    “Dopo anni quando ci ripensi capita che vorremmo proprio acchiapparle le parole che ha detto certa gente e la gente stessa per chiedergli quello che hanno voluto dirci… Ma se ne sono proprio andati!… […] Bisogna allora continuare  la strada da soli, nella notte. Abbiamo perso i veri compagni. Non gli abbiamo fatto la domanda giusta, quella vera, quando c’era tempo.”  (Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte).

    Ma se “quella gente”, metti caso, era nostro padre, altro sarà il sentimento, il rimpianto per la domanda non fatta, per il gesto incompiuto “quando c’era tempo.” (“Vago nella nebbia dei ricordi. Cerco una risposta, senza alcuna certezza che questa risposta arriverà.”)

    Non vorremmo semplificare il coacervo di ragioni e stati d’animo all’origine del romanzo, la necessità e urgenza di questo viaggio nelle profondità del vissuto, ma le domande ci stavano, sospese, coi loro nodi robusti e il dono, alla fine, di una o più risposte che si cercavano, come luce alla fine di un tunnel.

    Il titolo del libro non deve ingannare: questo lavoro di Franz Krauspenhaar non è solo la biografia del padre Carl – nato nel 1925 ad Aussig (cittadina cecoslovacca annessa poi al Terzo Reich) e morto in Svizzera nel 1988 – e del complesso rapporto col figlio. Certo, vi si narra la sua storia e quella della sua famiglia, a ritroso nel tempo; dell’esperienza dell’ultima guerra nell’esercito tedesco (guerra che maledirà al pari di Hitler e del nazismo), della formazione e delle vicende  della nuova famiglia e del lavoro, in Italia, a Milano. Il libro, però, è ben di più, è il viaggio di Franz nel proprio sangue: dai capillari ai grandi vasi senza interdizione di transiti ed approdi, e di zone – cerebrali, genitali, nervose, muscolari, gastriche – da scrittore viscerale qual è (“I libri fatti con le viscere e col sangue sono sempre utili: a chi li scrive e spesso, ancora di più, a chi li legge con la giusta partecipazione”). Ed è nello scorrere dei giorni, nel compiersi di azioni e nel formarsi di pensieri che lo s’interroga, il sangue; inseguendolo, vorticoso o blando, cercandolo incessantemente per ritrovarvisi; anche nei punti di possibile affinità somatica, caratteriale, col proprio padre e i propri avi.

    Due vite a confronto. L’una che richiama all’occorrenza l’altra, ad intervalli, con un gioco di flashback, di finestre dalle quali ricompare la figura paterna; per analizzarne i gesti e le parole di allora, come da una moviola, per rivederlo attore di un destino non ancora definitivo; forse, ancora recuperabile… Un legame unico, e simile, per alcuni aspetti. Ma sempre unico, e insostituibile. Erano state “carezze e schiaffi, al bisogno”, “un testimone scomodo” (il padre) dalla cui “liberazione” è iniziato per il figlio l’impegno serio nella scrittura. Ed anche, il “ricordo” del padre, “una delle poche cose dolci di tutta la mia vita che mi vengono in mente, nonostante tutto, nonostante me.” E “Io prego, caro lettore. Prego con foga e con ferocia. Questo padre che mi ha abbandonato troppo presto. Lo prego per tutto.”

    Ci si sente attraversare da questo romanzo perché intuiamo che è l’autore, per primo, ad essere stato attraversato dalla vita che descrive, il quale, con spietata e spesso dolorosa lucidità di sguardo, e  intensità ed onestà di sentimenti, poi, nulla ha lesinato alla pagina. “Non voglio fare di questo libro  un’agiografia. Voglio parlare chiaro, dire “le cose come stanno”. E non si può non riconoscere rispondenza piena tra intento e risultato finale.

    Dicevamo che “Era mio padre” non è solo la storia del padre Carl, ma più storie assieme, sullo sfondo epocale di circa un secolo; dove il fuoco descrittivo e il punto prospettico ci mostrano quadri di sicuro interesse, come quando si parla della seconda guerra mondiale, o del nostro tempo che ingloba eventi collettivi e privati; dell’autore innanzitutto, con le relazioni e le amicizie indicate con nome e cognome.

    Un romanzo, questo, che lascia il segno con la sua irriducibile ricerca di verità e autenticità, e dove l’uomo è nudo, in una solitudine cosmica ed epocale nella quale non è difficile riconoscersi, nell’inesausta ricerca di identità e di conferme. Se è vero che si scrive per essere amati, a maggior ragione si vive per essere amati, incondizionatamente, a prescindere dall’umana, inevitabile diversità. E se qualche conto rimane, in sospeso, in questa come in ogni altra vicenda umana, il conto prima o poi, in un modo o nell’altro, si pareggia; per dissolvenza della storia – la nostra, in primis – in quella più ampia che tutto riequilibra.

 

Giovanni Nuscis

 

 

Franz Krauspenhaar

Era mio padre

Fazi Editore, Roma 2008

 

 

 

Franz Krauspenhaar è nato a Milano nel 1960. Ha pubblicato i romanzi Avanzi di balera (Addictions, 2000), Le cose come stanno (Baldini & Castoldi, 2003), Cattivo sangue (Baldini &Castoldi Dalai, 2003). E’ presente nell’antologia Best Off 2006 curata da Giulio Mozzi (Minimum Fax, 2006) e nell’antologia di racconti I persecutori (Transeuropa, 2007). Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana, e ha creato e gestito assieme a Fabrizio Centofanti il blog collettivo La Poesia e lo spirito. Collabora con riviste e giornali scrivendo di letteratura.

 

 

La cruna dell’ago

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Quanta solerzia in materia di processi penali (qui) e sulle intercettazioni! Un’emergenza assoluta, altro che l’impoverimento crescente e la crisi economica, occupazionale, altro che rimozione delle vere cause di molte morti sul lavoro, altro che rivedere i privilegi della casta! Bisogna smetterla di spiare la gente (una parte di essa, in particolare), com’è avvenuto in passato (qui e qui), e tappare una volta per tutte i buchi delle serrature delle stanze del potere. Anzi, recintarne i palazzi. Queste, le vere priorità!
In nome dell’emergenza  di riordinare il sistema processuale penale, e di meglio tutelare il diritto alla privacy – chi può negare l’importanza dei temi e la doverosità degli interventi? – sta per essere assestata una storica rivincita del potere politico su quello giudiziario, sospendendo alcuni processi, limitando certe indagini e impedendo la pubblicizzazione (comunque deplorevole) dei contenuti delle intercettazioni sugli organi di stampa. Tutto ciò al fine di garantirsi la tanto agognata, quanto contrastata impunità. E cosa potrà fare l’opposizione, pur agguerrita, di fronte all’implacabile legge dei numeri?
Ma in questa atmosfera fetida e inquietante sovviene, leggendo l’articolo de
La Repubblica, un’altra perla di questo bel paese: e cioé che una delle responsabili della programmazione Rai era l’ex segretaria dell’attuale capo del governo, eletta ora deputato del PDL (questo, per chi avesse ancora qualche dubbio circa la casualità del mostruoso degrado culturale e sociale di questi ultimi decenni). Una presenza, si presume, prontamente e acconciamente rimpiazzata, vedendo i numerosi programmi spazzatura e quelle bombe deflagranti che sono i telegiornali: preordinati, oltre che ad occultare fatti e misfatti, a convincere la gente della necessità e ineluttabilità di certe scelte politiche. La tivù, i telegiornali, in particolare, sono la cruna di un ago dove passa solo il sottile della realtà, stabilito né dal rilievo della realtà né da chi la vive, ma da pochi e per nulla disinteressati signori.

GN

  

VITE IN BILICO

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DI LAVORO SI CONTINUA A MORIRE

11 giugno 2008, 10 morti sul lavoro

Sul blog La Poesia e lo Spirito

a cura di Giorgio Morale

poesie di Luigi Di Ruscio, Enrico Cerquiglini, Gianni D’Elia, Alda Merini,

Ferruccio Brugnaro, Giovanni Santacatterina

 

“Il giardino non esiste” di Alberto CAPITTA

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     Si sviluppa sulla traccia di una storia familiare l’ultimo romanzo di Alberto Capitta, Il giardino non esiste: quella di Romeo Scalas, titolare di un negozio di coloniali. Pur lontani dal realismo descrittivo, non è difficile riconoscere in Romeo un rappresentante di quella ricca e compiaciuta borghesia mercantile in auge fino a non molti anni fa, prima dell’arrivo della grande distribuzione. Una borghesia non dissimile – rispetto a Sassari, dov’è principalmente ambientato il romanzo – da quella di molte altre città italiane e straniere, come la Lubecca dei Buddenbrook di Thomas Mann. Anche qui dalla massima fortuna economica e familiare si passa alla sua parziale dissoluzione e decadenza, attraversando l’evento tragico della morte di Lorenzo e di Michele, i due figlioletti gemelli di Romeo, l’operazione alla testa di Carmen, la figlia più grande, per guarirla dall’epilessia, la pazzia di Flora, moglie di Romeo e madre dei gemellini, la grave depressione del capofamiglia, la fuga dei clienti del negozio per “quel lezzo di infelicità” che ormai vi si respirava.
     Dicevamo che si è lontani da quadri descrittivi reali, dall’affresco storico ed epocale. Il romanzo ne prende anzi le distanze, costruendo la propria vivida e commovente epopea dentro un tempo sospeso, dentro luoghi indefiniti come il giardino [”…un orticello incastonato tra le case e al di là di questo un passaggio che introduceva a un luogo di viva boscaglia. (…) C’erano querce secolari miste a olivi e roverelle e il sottobosco era tutto un pullulare di lumaconi e farfalle…”] nel cuore della città dove Carmen si rifugiava annotando di nascosto fatti e avvenimenti su un diario segreto. Alberto Capitta ha uno sguardo creaturale sulle cose, e la libertà e la forza inventiva della sua scrittura s’esprime in un equilibrio di tempi e di spazi che costituiscono, in un’opera artistica, la giusta prossemica: la distanza che attira e coinvolge il lettore pur senza volerlo retoricamente convincere. Le originali descrizioni, dove è spesso presente la natura, hanno la calma evocatività e bellezza, specie nella prima parte della storia, di sequenze cinematografiche: sovviene Fanny e Alexander di Bergman. Fatti ed eventi negativi presenti nel romanzo (malattie, limiti, difetti, deformità, povertà…) piuttosto che derive sconsolate o ciniche disvelano spesso, invece, da ultimo, un lato ludico, ilare e, comunque, positivo. Se non una fede nell’uomo, laica o religiosa che sia, si avverte talvolta quel barlume di speranza inscindibile dalla vita pulsante, dal suo incedere malgrado tutto. Come superamento, forse, dell’acuto quanto infecondo sentimento di disillusione sulla condizione umana.
     Eppure nell’ultima parte del libro, nella scena dove le tre donne superstiti (Flora, Carmen e Innocenza) si abbandonano al travestimento e alla confusione e inversione di ruoli (imitandosi a vicenda, e imitando persino i familiari defunti), viene da pensare alla crisi epocale che attraversa la nostra società e civiltà; a questo nostro tempo di smemoratezza, di perdita o mancanza di valori, e di bontà, in cui si è se si consuma, se si sta dentro modelli sociali e comportamentali definiti, ridotti, come Pasolini aveva intuito a suo tempo, a docili e inconsapevoli strumenti di strategie e di destini impostici da altri.

GN

Alberto Capitta
Il giardino non esiste
Il Maestrale (Nuoro 2008)

*

Alberto Capitta è nato a Sassari nel 1954, dove vive e lavora. Autore di testi teatrali (direttore artistico di Ariele Laboratorio), si afferma come romanziere con Creaturine (Il Maestrale 2004); il Maestrale/Frassinelli 2005; tradotto in Francia), opera che gli vale un posto di finalista al Premio Strega oltre ad un’accoglienza convinta presso la critica e i lettori più esigenti, nel 2006 gli viene assegnato il premio “Lo Straniero” per essere, fra l’altro, “uno dei più interessanti tra gli scrittori di una straordinaria fioritura sarda”. Nel 2007 per Il Maestrale ha ripubblicato una nuova versione del romanzo d’esordio Il cielo nevica (già Guaraldi 1999; in corso di pubblicazione in Francia).

Premio blog

Arte y Pico award

Un grazie a Roberto Del Piano che mi ha assegnato il premio Arte y Pico Award, ricevuto a sua volta per il suo blog http://bertop.splinder.com

Questo è il regolamento per chi lo riceve :

1) scegliere 5 blog che si considerano meritevoli di questo premio, per creatività, design e materiali particolari utilizzati, e che diano un contributo alla comunità dei blogger, indipendentemente dalla lingua!

2) ogni premio assegnato,deve avere il nome dell’autore e il collegamento al suo blog, così che tutti lo possano visitare;

3) ogni premiato deve esibire il premio e mettere il nome e il collegamento al blog di colui che ti ha premiato;

4) Il premiato deve mostrare il collegamento con il blog ARTE Y PICO  dove nasce l’iniziativa http://arteypico.blogspot.com

5)  pubblicare le regole.

Io segnalo quindi questi 5 blog:

1. Francesco Marotta http://rebstein.wordpress.com

2. Alessandro Melis http://www.ilteatrodisisifo.splinder.com

3. Matteo Fantuzzi http://www.universopoesia.splinder.com

4. Marco Diana http://www.paesedombre.org

5. Savina Dolores Massa http://www.savinadoloresmassa.splinder.com

“San Gennaro, chi ura è?” di Marco SCALABRINO. In ricordo di Massimo Troisi

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Fora scena
un doppupranzu
a quarant’anni
senza na smorfia
un cafè
‘n-applausu.

Tu cori pazzu e malatu
tu Capitan Fracassa
tu Splendor,
quali pusteri discretu
ti cunsignau ssa littra
l’ultima
tutta tua?

Chiù tardu
nna l’Hotel Colonial
poi ricuminciari di tri e menzu
siddu voi
poi pinzari zoccu ti piaci e pari
di l’amuri
di li strati finuti
di lu Signuri
poi …
senza mai addumannari scusa.

A nuatri
nna stu stolitu Sabatu di Giugnu
nun n’arresta chi chianciriti.

Fuori scena / un pomeriggio / a quarant’anni / senza una smorfia /
un caffé / un applauso. / Tu cuore pazzo e malato / tu Capitan
Fracassa / tu Splendor, / quale postino discreto / ti ha consegnato
quella lettera / l’ultima / tutta tua? / Più tardi / nell’Hotel Colonial /
potrai ricominciare da tre e mezzo / se vorrai / potrai pensare cosa
ti piace e pare / dell’amore / delle vie finite / del Signore / potrai … /
senza mai chiedere scusa. / A noi / in questo stolto Sabato di Giugno /
non ci resta che piangerti.

Osip MANDEL’STAM – Tre poesie

Osip Mandel

 

 

              Anche su la Poesia e lo spirito QUI

 

 

Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse,
e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita come vermi sono grasse
e sono esatte le sue parole come i pesi d’un ginnasta.
Se la ridono i suoi occhiacci da blatta
e i suoi gambali scoccano neri lampi.


Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile:
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone;
lui, lui solo, mazzapicchia e rifila spintoni.
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa:
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
cuccagna ed un ampio torace di osseta.

Novembre 1933,

*

Lo dico in brutta copia, a voce bassa,
ché non è ancora venuto il momento:
il gioco del cielo irresponsabile
si attinge col sudore e l’esperienza.

E sotto il cielo dimentichiamo spesso
– sotto un purgatoriale cielo effimero –
che il felice deposito celeste
è una mobile casa della vita.

9 marzo 1937

*

Io mi porto questo verde alle labbra
questo vischioso giurare di foglie –
questa terra che è spergiura: madre
di bucaneve, aceri, quercioli.

Mi piego alle umili radici, e guarda
come divento insieme cieco e forte;
non fa dono, il risonante parco
di una sontuosità eccessiva agli occhi?

E – palline di mercurio- le rane
con le voci s’agglomerano a palla;
i nudi stecchi si mutano in rami
e in lattea finzione il vapore dell’aria

30 aprile 1937

Osip Mandel’stam, Cinquanta poesie
Einaudi, 1998
A cura di Remo Faccani

“Gli incendi” di Filippo Davòli

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Nudo. E la nudità che ti distingue
dagli altri crocifissi della Terra
è il sublime ed altissimo vedere
di chi scolpendosi nel legno rinunciava
a ogni cosa di sé. Non hai nemmeno
ferite, solo silenzio
che copre la superficie liscia, opaca
di chi ascolta.
Sei nudo interamente, come la vita
che il mistero compatta
negli iniqui dolori, nei percorsi
labili della notte. Soltanto nudo
e totalmente altro. 

*

“Un anno fa sono partito da casa
e non posso chiamare se non ho soldi
da mandare a mia madre, che le direi?
Ma non ci torno, non ci tornerò più
a salutare i miei monti – lei, che pensava
che in tutto il mondo si parlasse persiano”.

(Ali)

*

“In questa stanza metteremo mio padre
e mia madre, litigheranno sempre,
e così saprò che nulla si è interrotto
da quando con mio fratello siamo partiti”.

(Almi)

*

“Se avessimo due mucche, io saprei
come tirarne il latte e i peperoni
crescere furibondi in mezzo al campo.
Non questo scuro piatto della fabbrica,
non questo mormorare della città”.

(Dashi)

*

I miei figli arroccati sul pennone
miracolo di un sogno ad occhi aperti
giù per il gorgo delle cupe, oppure
la distesa azzurrissima del grano
che ogni vento scompiglia, ma restando
aggrappati alle mura, in cima al cuore
che naviga il suo sogno. Tornare dentro
l’agitazione cosmica del microbo
che tocca nel suo minimo cammino
le molle universali, che scombina
gli ingranaggi del mondo.

E’ questo il meccanismo del randagio.
La notte chiede di essere percorsa
a piedi, con il corpo, dentro uno spazio.
La casa come l’auto
è un rimedio ingannevole che priva
del piacere di perdersi, guardando
con la testa all’insù, di lasciarsi
abbracciare dal freddo e dal caldo,
di ragionare a voce alta di tutt’altro
rispetto a quello che si congettura
quando il corpo è al sicuro.
Assassino il mestiere: la corteccia
entro cui muovermi senza molto rischio.
Guardo il ricordo
farsi mio memoriale nella luce
e sforo nella bella lontananza
che è ricongiungimento.

*

Filippo DAVOLI
GLI INCENDI
Casa Editrice L’Arcolaio, di Gian Franco Fabbri (Forlì 2008)
Introduzione alla lettura di Lucia Tancredi

*

Dalla introduzione alla lettura di Lucia Tancredi

[…]Penso con consolazione che forse è finita l’epoca dei padri che devono sorvegliare la discendenza dagli occhi, dalla linea del naso o dalla propensione per il vizio o per la matematica.
Forse è giusto che decadano i vecchi padri verticali come icone, quelli che lasciano ai figli i blasoni, le saghe, le patrie vere o presunte.
[…] Dio aveva promesso ad Abramo la discendenza, poi gli ordina di schiantare l’albero con la radice. È da quel momento che è cominciata l’orfanezza del mondo, forse.
[…] Eppure Dio deve onorare la promessa: tanti figli quanto un acquario di stelle.
Forse Filippo ha ascoltato la buona novella.
Un tempo anche lui è stato figlio di una generazione ossuta e stenta. Ora è padre di molti figli.
A cui ha assicurato, in un mondo di terrachiusa, la sua casa come l’approdo, l’asciutto a vista per ogni viandanza. Ma Filippo ha fatto di più.
Ad ognuno dei figli ha insegnato la sua lingua, la bella lingua italiana i cui suoni aperti sembrano risonanti come conchiglie. A chi ha affilato la parlata nel deserto scortecciandola di consonanti, o ai giovani contadini d’Asia che parlano piano e roco come i colombi.
Per questi figli che sono capitati in bocca all’Occidente, Filippo ha fatto sentire loro il sapore della nuova lingua con la quale devono vivere, chi conosce una lingua mette al mondo il mondo.[…]

“2 giugno…”

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La festa di chi è vivo nonostante.
La festa di chi è in carica alla faccia
bardato di nomi e di speranze d’altri.

Cambiare un dado a una macchina ferma
è roba di leggi e anni e molte mani
e convegni e scritti e sangue e rabbia.

Andremmo tutti volentieri a piedi
come infatti si va spesso pure se è lunga
la strada e piove e ci si bagna e affama.

Così guardiamo indietro e avanti. L’oggi
sfocato dalla corsa e dagli inganni
dai mille e mille modi di distrarci.

GN