“La poesia è di per sé scandalosa, di per sé rivoluzionaria, la poesia è “di per sé”. Quando è vera poesia, di per sé può cambiare le cose”.
Stefano Giovanardi
*La funzione del poeta impegnato è quella di “avvelenare i pozzi”
*La distanza tra la realtà e il linguaggio poetico
*La poesia di guerra
*Il poeta e la politica
*L’esilio del poeta
*Rimbaud e la modernità21 marzo 2000
Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Scientifico “Elio Vittorini” di Milano
GIOVANARDI: Mi chiamo Stefano Giovanardi. Sono docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Pavia, e “critico letterario” presso il quotidiano “La Repubblica” e il settimanale “L’Espresso”. La puntata odierna è dedicata al tema “Poesia e impegno civile”. Prima della discussione osserviamo una scheda filmata.
Poesia e impegno civile non trovano facilmente un accordo, poiché ciò che vi è di autentico nell’espressione poetica sembra parlare una verità dell’uomo e del mondo, che trascende sempre la visione a una sua particolare verità storica. La poesia vive della possibilità di trasfigurare in ogni momento un modo di dire e una visione delle cose in un evento completamente nuovo. Perciò, molte volte, nella storia della cultura occidentale, qualcuno si è arrogato il compito di mettere in riga i poeti, bandendoli dalla Repubblica o predisponendo per loro uno spazio legittimo di espressione. La poesia e la letteratura vivono, quindi, nella lotta contro la loro degenerazione nel moralismo e nella falsificazione della realtà. Ma questa battaglia per la sincerità dei gesti e degli sguardi, per l’autenticità per ciò che ci attrae e riempie la nostra vita, oppure che la svuota e la rende vuota, questa battaglia ha un’importanza capitale per la difesa degli esseri umani. La poesia ci racconta della dimensione contingente e particolare degli interessi umani, della molteplicità e la diversità degli orizzonti di vita. Da essa, come dalla buona arte, apprendiamo come distinguere tra ciò che è profondo e ciò che è banale, tra il sentimento autentico e il sentimentale, tra l’equanime e il tendenzioso. Apprendiamo lo sforzo di superare le fantasie personali per descrivere la realtà nella sua varietà, che nessuna ideologia o religione può mai racchiudere in una formula. Ma questo insegnamento trae la sua forza dall’indipendenza della poesia dalla politica e dalla morale, dalla sua libertà. Come apprendere tale insegnamento senza mai rovesciarlo nel suo opposto, nell’arte per l’arte, nella chiusura dell’estetica alla vita?
STUDENTESSA: Che cosa si intende per “impegno civile” e quali forme assume nella poesia?
GIOVANARDI: Qualsiasi poesia ha una ricaduta sulla società a cui viene diretta. La funzione sociale della poesia è pertanto una funzione naturale, connessa proprio con il suo essere nella storia. Si sono dati momenti storici in cui si riteneva che la poesia dovesse aprirsi ad alcuni argomenti e non ad altri: ai problemi della società, della storia e della cronaca, piuttosto che ai problemi dell’individuo, dell’emotività e dello stare al mondo privato. In questi momenti si suole individuare come movente della poesia quello che attualmente si preferisce definire “impegno civile”. Tuttavia l’impegno civile nella poesia è sempre esistito. Basti pensare a La Divina Commedia di Dante.
STUDENTESSA: È più il contenuto o la forma utilizzata che rende un componimento poetico o una poesia di “impegno civile”?
GIOVANARDI: L’uno e l’altro. Potete notare che vi sono accanto a me due oggetti molto significativi: una carrucola e una bottiglia di veleno. Questi oggetti si riferiscono a una frase del poeta e critico fiorentino Franco Fortini, scomparso sei anni fa, il quale, nel suo libro di narrativa Verifica dei poteri, scrive che funzione del poeta impegnato è quella di “avvelenare i pozzi”. L’avvelenamento dei pozzi sostanzia un’operazione subdola, in quanto non comporta uno scontro diretto. Funzione del poeta è pertanto quella di instillare segni all’interno degli organismi sociali e culturali, al fine ultimo di scardinare gli equilibri costituiti. A questo fine rivestono una estrema importanza sia il momento della scrittura, noi diremmo il “momento formale”, quanto quello del contenuto. Possono esservi poesie contenutisticamente violente, dal punto di vista della denuncia, ma che adottano una lingua oramai logora e ossificata, che rende di per sé il messaggio inefficace, perché è una lingua che è stata forgiata proprio dalla classe contro la quale si rivolge. D’altra parte si danno poesie il cui contenuto è perlomeno ambiguo, o comunque non raggiunge i toni di una denuncia, ma che sono scritte in una lingua atta a scardinare gli equilibri costituiti. L’impegno della poesia, proprio perché riguarda la natura della poesia, va verificato nell’interezza della stessa, nella sua totalità, in cui entrano inevitabilmente e, in eguale misura, gli esperimenti formali e i messaggi contenutistici.
STUDENTESSA: Perché un poeta dovrebbe scegliere proprio la poesia come mezzo di trasmissione dei valori sociali?
GIOVANARDI: L’essere poeti significa entrare comunque nella sfera dell’estetica, entrare comunque nella produzione artistica. Non credo che si decida di essere poeti. La poesia non deve subire una decisione, ma una forza interiore. Considerate la forza interiore e la decisione del poeta di assumere un ruolo sociale, e pertanto di entrare nel circuito comunicazionale, l’espressione artistica viene caricata di una serie di valori, scelti, di volta in volta, in base alle contingenze storiche o alle esigenze psicologiche dell’autore. Non ritengo che si diventi poeti per essere “impegnati”. Si è poeti anzitutto, e, in determinate circostanze della propria vita, si è anche poeti “impegnati”.
STUDENTESSA: La poesia moderna sembra diventare sempre più incomprensibile. Ciò non rischia di vanificare a priori ogni tentativo di impegno civile? Se si tratta di un impegno civile, la poesia dovrebbe utilizzare un linguaggio accessibile a tutti. Oppure si può concepire un impegno civile riferito solo a pochi, una poesia di impegno civile ma “elitaria”?
GIOVANARDI: Si suole far decorrere la poesia moderna dal “simbolismo”, ossia da quel particolare movimento poetico nato in Francia negli ultimi decenni dell’Ottocento e il cui testo-base era Il pomeriggio di un fauno di Stéphane Mallarmé. Detta poesia constatava la distanza incolmabile tra la realtà e il linguaggio poetico. È una poesia che, attraverso il linguaggio poetico, vuole arrivare all’inesprimibile, vuole essere rivelatrice dell’infinito, e, per questo, necessariamente infinita. La poesia simbolista appartiene comunque alla sfera dell’universale, in quanto esprime l’universale emotivo, rappresentato dall’universale del simbolo. È difficile definire la poesia simbolista civilmente impegnata, significando con ciò l’apertura, la denuncia o la conoscenza del mondo o della realtà. È vero anche che spesso la poesia fa dell’indecifrabilità il suo obiettivo. Non è detto che queste forme non abbiano una ricaduta sull’immaginario collettivo, in un senso o nell’altro. Quando Eugenio Montale scrive: “Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, non sta redigendo un manifesto politico, né facendo una denuncia, ma sta parlando di una condizione individuale, ossia di una condizione di cui l’uomo si trova a potere esprimere soltanto la negatività. Si ravvisa in ciò la constatazione di una condizione umana riferibile a una società, riferibile a una storia, riferibile a un momento storico, che è quello che il poeta sta vivendo. La poetica del negativo risulta pertanto molto più eversiva e molto più efficace di qualsiasi denuncia aperta in cui si diano ricette in positivo per il cambiamento della società. Messaggi che apparentemente od esclusivamente riguardano la soggettività del poeta possono sortire un impatto sulla società dagli effetti imprevedibili. È vero che la poesia moderna è spesso ambigua e incomprensibile, ma è anche vero che l’incomprensibilità può diventare un grimaldello che consente di smascherare talune realtà.
STUDENTESSA: Noi abbiamo deciso di portare una cartolina di richiamo alle armi e la poesia di Giuseppe Ungaretti: Soldati
si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie”
(Bosco di Courton luglio 1918)
Non è forse Ungaretti colui che meglio esprime l’impegno civile in una poesia? La poesia di guerra ungarettiana non è già un modo per dimostrare l’impegno civile?
GIOVANARDI: La poesia può sicuramente essere patriottica. Del resto, la poesia del Romanticismo Italiano è una poesia patriottica per elezione. Sull’impegno civile di un poeta come Ungaretti io avrei francamente qualche dubbio. Con ciò non intendo svalutare la poesia ungarettiana. “Soldati, si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” si riferisce alle condizioni della trincea e alla precarietà delle vite umane in guerra, ma in un alone di soggettività del poeta fortemente imperante. L’io del poeta domina la scena. Sono atomi di una emozione fortemente soggettiva, sensazioni di un attaccamento alla vita dell’io che emergono in primo piano. In tutte le poesie di trincea di Ungaretti, raccolte ne Il porto sepolto, è presente il protagonismo del soggetto, il protagonismo dell’io, che inevitabilmente relega in secondo piano il dramma collettivo della guerra. Un effetto di “impegno” può scaturire da qualsiasi cosa. Si può recepire un messaggio “impegnato” anche da Il porto sepolto. Tuttavia, avendo a mente la volontà di partenza dell’autore e la destinazione che l’autore ha inteso dare a queste poesie, ho più l’impressione che siamo sul piano dello sfogo privato e dell’esaltazione della soggettività, che su quello della denuncia degli orrori bellici.
STUDENTESSA: Italo Calvino ne Le lezioni americane scrive che la letteratura deve trattare fin quello che ci circonda con uno “stile leggero”. Secondo Lei, è possibile associare lo stile leggero all’impegno civile? Non si cadrebbe in questo modo nel superficiale?
GIOVANARDI: Credo che sia possibile associare lo stile leggero all’impegno civile. D’altra parte non credo e non deve esistere una ricetta di poesia, o di letteratura, “impegnata”. La letteratura può trarre valenze sociali da qualsiasi cifra espressiva. Si può sicuramente evincere tutta una serie di messaggi tanto da un discorso leggero quanto da uno stile più solenne e più retorico. Il Novecento annovera svariati esempi di una letteratura di denuncia, di una letteratura realista, che tuttavia, per il modo assolutamente falso in cui si poneva, finiva per ottenere l’effetto opposto a quello che si era prefisso. La letteratura di impegno può facilmente diventare una letteratura di propaganda a favore di un partito o di un regime. Le storture della letteratura realista, durante lo stalinismo, sono sotto gli occhi di tutti. Ben vengano la leggerezza di Calvino e il modo, anche apparentemente disimpegnato, di porsi di fronte a determinati problemi, perché possono avere un’efficacia maggiore ai fini di un dibattito culturale sempre più ampio.
STUDENTESSA: La trasmissione dei valori sociali, che nel passato era affidata soprattutto ai poemi lirici, può essere oggi confluita in altri mezzi di comunicazione, come, per esempio, la musica o la pubblicità?
GIOVANARDI: Non credo che nel passato la comunicazione sociale fosse affidata essenzialmente ai poemi lirici. La lirica ha sempre avuto un ruolo abbastanza marginale, da questo punto di vista. Dal Settecento in poi, se c’è una forma letteraria destinata a veicolare messaggi di comunicazione sociale, questa è il romanzo. Se Lei si riferisce all’Eneide, è più opportuno parlare di “poesia epica”. Il “poema didascalico allegorico”, di cui La divina commedia dantesca è un esempio, ha invece una forte impronta narrativa, e si propone di impartire precetti morali e religiosi o di diffondere teorie filosofiche, estetiche e scientifiche. La lirica è un genere poetico maggiormente legato all’espressione della soggettività, all’espressione dell’io. Con ciò si definisce la poesia lirica. Trovo estremamente difficile che si possano nascondere messaggi forti, di comunicazione sociale, dietro la poesia lirica. La poesia lirica di per sé è l’espressione dell’io, dei sentimenti, delle emozioni, dei dolori. La poesia lirica comunque riguarda la soggettività, non la collettività. Quanto alla sostituzione della pubblicità o di altre forme alla letteratura, come promotori di una comunicazione sociale, credo che il ruolo della letteratura in tal senso si sia molto ridimensionato. Il cinema, per esempio, è un mezzo infinitamente più diretto e più eclatante, sotto il profilo del rapporto con il pubblico. La collocazione della letteratura nella società attuale tende a essere alquanto marginale rispetto a quella della televisione, del cinema, della pubblicità, o di altre forme di comunicazione. Questo non vuole essere un de profundis alla letteratura. Io sono convinto che la letteratura è una forma d’arte e, come tale, praticamente eterna. A proposito della specificità della letteratura e del ruolo dello scrittore rispetto al sociale, vediamo questa breve dichiarazione filmata di Pier Paolo Pasolini.
PIER PAOLO PASOLINI: Io credo nel progresso. Non credo nello sviluppo e, nella fattispecie, in questo sviluppo. Ed è questo sviluppo, semmai, che dà alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste, quasi tragica, perché, appunto, non sono un sociologo, un professore, ma faccio un mestiere molto strano, che è quello dello scrittore. Sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici, cioè io tutte le sere, tutte le notti, la mia vita consiste nell’avere rapporti diretti, immediati, con tutta questa gente che io vedo che sta cambiando.
GIOVANARDI: Contrapponendo lo scrittore al sociologo e al professore, Pier Paolo Pasolini allude a un rapporto, quello della letteratura con la realtà, maggiormente diretto e immediato. Il rapporto del sociologo o di qualsiasi altro ricercatore con la realtà parte da una serie di presupposti, culturali, disciplinari, storici, che necessariamente lo condizionano. Pasolini coltiva l’idea di una letteratura svincolata da qualsiasi parola d’ordine, e di tipo ideologico, e di tipo politico. Nel mondo a cui lo scrittore si rivolge si può cogliere l’originalità della poetica pasoliniana.
STUDENTESSA: Il poeta che milita in un partito politico, e che decide di trasmettere le proprie idee e i propri valori attraverso le proprie poesie, non rischia di fare di quest’arte uno “slogan”?
GIOVANARDI: L’avvelenare i pozzi di Fortini dice proprio questo, che la letteratura, anche la più reazionaria e la più disimpegnata possibile, è da preferire a qualsiasi altra forma letteraria fortemente ideologizzata. Fortini esprime il suo dissenso sulla dialettica politica che si manifesta all’interno del sistema borghese, perché, nella società neocapitalistica, la prima non può che soddisfare gli interessi della classe al potere. La polemica di Fortini tocca punte decisamente estremistiche, ma sottende una misura di verità. Quanto più la poesia vuole farsi cassa di risonanza di parole d’ordine che non le appartengono, e che appartengono ad altri universi di discorso, tanto più perde efficacia, sia sotto il profilo del valore letterario, sia dal punto di vista del fine sociale che si propone.
STUDENTESSA: Posto che l’autore è libero di esprimere ciò che desidera, se la poesia si fa espressione delle idee, per quale ragione questa deve essere interpretata come un asservimento al potere?
GIOVANARDI: Non si tratta infatti di un asservimento al potere puro e semplice. Il poeta mantiene una sua libertà di espressione. Nel corso del Novecento sono emerse parole d’ordine piuttosto invasive, di stampo politico e ideologico. È sempre esistito un margine tra le autentiche volontà dell’individuo-poeta e quanto effettivamente delegato al poeta da forze che con la poesia non sono rapportabili. Il Brecht “lirico” è l’esempio che si può fare della grande poesia con dei contenuti squisitamente politici. Il problema non sussiste quando la scelta del poeta è perfettamente libera, perché concerne il proprio modo di stare al mondo e di confrontarsi con una volontà che può diventare imperativa, quale è quella di cambiare lo stato delle cose. Le cose cambiano quando la poesia deve rendersi espressione di parole d’ordine precostituite. In questo caso si riduce il valore complessivo del lavoro letterario.
STUDENTESSA: La poesia è penalizzata da una diffusione alquanto limitata. Non è paradossale una poesia di impegno, proprio per il fatto che i suoi temi sociali non possono essere portati alla conoscenza di tutti?
GIOVANARDI: Non credo che sussista un problema di maggiore o minore diffusione, per quanto riguarda l’arte. È vero che l’arte novecentesca trova nel rapporto con il pubblico una carica sicuramente superiore a quella di altri secoli. Viviamo in una società di massa, in cui l’universo del sociale incombe molto più che in altre epoche. Occorre non confondere il problema legato alla diffusione con la marginalità del ruolo ricoperto dalla poesia. L’idea della inutilità della poesia attraversa tutto il Novecento. Basti pensare al Lasciatemi divertire di Aldo Palazzeschi. Paradossalmente proprio la dichiarazione di inutilità può avere una ricaduta sociale positiva. Ci si porta a chiedere perché questo mondo non chiede più nulla ai poeti, perché la poesia è diventata inutile, perché essa non ha più un ruolo. Benché lo straordinario valore artistico dei suoi dialoghi lo ponga tra i più grandi scrittori di ogni tempo. Nella La Repubblica Platone bandisce l’arte, e quindi la poesia, dal suo Stato ideale in quanto meramente sensibile e imitativa. Nel momento in cui un poeta dichiara la sua inutilità egli sta lanciando un messaggio sociale. Che lo colgano venti persone o che lo leggano in duecentomila è un problema assolutamente secondario.
STUDENTE: In passato molti poeti, come Pablo Neruda, sono stati esiliati perché svolgevano attività contrarie al regime e perché militavano in un partito. Attualmente in che modo si attua la censura e come si può distinguere da reati come l’apologia di reato?
GIOVANARDI: Pablo Neruda è stato esiliato da un regime fascista, dunque totalitario. La censura evidente consegue sempre a regimi totalitari, di un segno o dell’altro. È fin troppo chiaro che non è necessario esiliare un poeta o ucciderlo. Basta non parlarne. Nelle società democratiche in cui però la comunicazione di massa ricopre un ruolo fondamentale alcune forme di censura, implicita, strisciante, fatta attraverso il silenzio, possono risultare molto dannose. Non si tratta di censurare questo o quel poeta. L’ultimo caso di ostracismo violento nei confronti di un poeta in Italia è stato quello occorso ai danni di Pier Paolo Pasolini, il “poeta scandaloso”. Da una parte v’è la censura della poesia, ossia di quel tipo di forma e di espressione, dall’altra la censura di tutto quello che non ha una immediata ricaduta massmediologica. Viviamo nella società dello spettacolo. La poesia è indubbiamente poco spettacolare. Dalla società dello spettacolo può venire una forma di censura persino più insidiosa di quelle violente dei vari dittatori, o dittatorelli, che si sono susseguiti nel corso della storia.
STUDENTESSA: Lei prima ha affermato che l’impegno civile è sempre stato presente nella poesia. A me sembra che l’impegno civile della poesia antica fosse un po’ diverso da quello della poesia moderna. Questo perché l’impegno civile della poesia antica era meno programmato di quello attuale. Lei condivide questa argomentazione?
GIOVANARDI: Occorre anzitutto chiarire che cosa si intende per poesia antica. Un frammento del poeta greco Alceo, del VI secolo avanti Cristo, dice: “Ubriachiamoci, perché è morto Mirsilo, e siamo tutti contenti”. Mirsilo era un tiranno dell’isola di Lesbo in cui nacque e visse Alceo. I modelli sociali dell’epoca erano meno articolati e complessi di quelli attuali. L’impegno e le conseguenti forme di denuncia erano inevitabilmente diverse. Alcuni aspetti non venivano presi in considerazione. Il livello e la natura dell’impegno varia e si evolve a seconda dell’evolversi dei modelli sociali nei quali la poesia si colloca, benché l’intenzione sia sempre la stessa. La volontà del poeta impegnato verte sempre sul conoscere, sul denunciare e sul cambiare.
STUDENTESSA: Quali limiti deve osservare la poesia legata all’impegno civile per non cadere nella retorica e nel moralismo?
GIOVANARDI: A mio avviso il limite principe è l’autenticità. È l’autenticità dell’autore, del poeta. Per autenticità non si intende un modo di esprimersi “diretto” e senza riflessione. La poesia è comunque artificio. L’uomo non parla in versi. Occorre sicuramente un intervento a freddo da parte del poeta. Qui si parla dell’autenticità del sentire che in seguito assume i propri strumenti linguistici. Gli strumenti linguistici non sono neutri. Tanto meno si è autentici, tanto più si sarà retorici, e tanto più si affiderà l’intera costruzione poetica alla forma dell’espressione. La maggiore autenticità, a parità di artificiosità nelle forme espressive, renderà sicuramente inferiori i tassi di gioco retorico e di fredda sperimentazione. Non esistono ricette a questo proposito. L’uomo può soltanto recepire dei prodotti finiti. In base al prodotto finito l’uomo potrà accorgersi o stabilire se si tratta di una poesia morale o di una poesia moralistica, di una poesia impegnata o di una poesia che fa della mera retorica. Quel che conta è che dietro l’artificio poetico ci sia l’autenticità del sentire.
STUDENTESSA: Riguardo alle facoltà di denuncia e di cambiamento proprie della poesia di fronte alle contingenze storiche difficili, volevo chiederLe se l’unica funzione rimasta alla poesia sia quella di alleggerire l’animo, vista la complessità della realtà nella quale viviamo. Uno scrittore e poeta recente, anche abbastanza famoso, Vazquez Montalban, rimprovera a Arthur Rimbaud il fatto di aver voluto cambiare il mondo con la poesia, e dice: “Nessun labirinto può alterare il risultato”.
GIOVANARDI: Della poesia di Rimbaud ricordo l’impegno profuso nel “cambiare la vita”, “changer la vie”, non il mondo. La poesia può aiutare a cambiare la vita, ma non è detto che la vita si debba cambiare in un senso o nell’altro. La poesia è un’esperienza intellettuale che veicola una serie di valori emotivi e psichici e contiene in sé una gamma di visioni del mondo. Un possibile mutamento prodotto dalla poesia non riguarda necessariamente la gestione sociale o politica del mondo. Per cambiare il mondo bisogna cambiare la vita, per cambiare la vita occorre che cambino gli individui. La poesia può farsi manifestazione di questa necessità. Quanto più il mondo in cui la poesia nasce è complesso, tanto più l’apice dei margini di libertà si riduce, e tanto più è difficile il lavoro del poeta. Un Rimbaud che postula la modernità e il cambiamento della vita oggi si troverebbe in difficoltà, perché la modernità attuale è andata orientandosi verso una ossificazione dell’esistente. La società dello spettacolo, la civiltà di massa, la globalizzazione, stanno portando a un immobilismo delle coscienze, delle individualità, delle vite. È indubbio che, in una situazione del genere, il ruolo che può svolgere la poesia, come esperienza intellettuale e come scandaglio emotivo e psichico, diventa più arduo.
STUDENTESSA: Lei prima sosteneva che la poesia è un’esperienza intellettuale. Io non sono propriamente d’accordo. Credo che la poesia sia soprattutto una esperienza di vita. Mi viene da pensare a tutti i poeti della Resistenza, e a Primo Levi. Quelle sono esperienze di vita e sono pagine, a mio avviso, di autentica poesia. La poesia, quindi, non risponde solo ad un’operazione intellettuale.
GIOVANARDI: La poesia è un’operazione intellettuale allo stesso modo in cui lo è scrivere una lettera. Rimanda al rivivere un’esperienza di vita, una condizione psichica, o una condizione emotiva, alla luce di una elaborazione intellettuale. Nel momento in cui si scrive si compie una elaborazione intellettuale. Io non credo che la poesia debba legarsi ad esperienze di vita particolari, non comuni. Si sono dati grandissimi poeti, dalla vita apparentemente piatta, ma che avevano un serbatoio psichico molto consistente. Molte volte il risultato di un impegno può essere del tutto indipendente dalla volontà dell’autore. D’altra parte le grandi contingenze storiche favoriscono una presa di coscienza da parte della poesia.
STUDENTE: Se il poeta vive in una società che lo coinvolge e lo influenza, potrà comunque scrivere poesie non impegnate civilmente?
GIOVANARDI: Non vi è prescrizione che tenga, per quanto riguarda la poesia. Ogni individuo è coinvolto in qualcosa. Tuttavia, quale che sia il coinvolgimento nel sociale, ogni individuo può parlare d’amore. Parlando d’amore il poeta rischierebbe la sua posizione sociale? Assumerebbe un impegno civile? Io dico di no. È nondimeno scontato che una poesia d’amore possa avere una ricaduta di tipo sociale o politico. È importante che la poesia abbracci una dimensione totale, una dimensione in cui l’uomo poeta entri in tutto e per tutto, qualsiasi sia il campo di applicazione. Nel caso contrario la poesia non entra nel circuito della storia.
STUDENTE: Abbiamo scelto il sito Internet dedicato a Giuseppe Ungaretti dove abbiamo trovato questa poesia: http://www.club.it/autori/grandi/giuseppe.ungaretti/poesie.html
Fratelli
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
Le parole di pace di questa poesia potrebbero essere paragonate, secondo Lei, a quelle più propriamente di guerra dell’”Inno” di Mameli?
GIOVANARDI: L’alternativa storica all’Inno di Mameli è il “Va pensiero sull’ali dorate” di Giuseppe Verdi. Un discorso così pacifista va bene come manifesto. L’Inno di Mameli è un classico esempio di poesia volontariamente impegnata. In situazioni diverse un messaggio pacifista può risultare altrettanto forte, altrettanto dirompente. La poesia è di per sé scandalosa, di per sé rivoluzionaria, la poesia è “di per sé”. Quando è vera poesia, di per sé può cambiare le cose.
Puntata registrata il 19 Gennaio 2000
Da: Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche
www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=643