Archive for gennaio 2009

Vedi alla voce: genocidio. Contro tutti i genocidi della storia.

WannseeHouse01

 

OLOKAUSTOS

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Filmato da YOUTUBE

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Diario di Helga Deen tradotto in Italia da Marika Viano,

uscito nel 2009 per Rizzoli

helga deen

Corriere della sera  del  16 gennaio 2009

Testimoni. Esce da Rizzoli il quaderno della diciottenne olandese scritto nel campo di concentramento e rimasto segreto per quasi sessant’anni

Diario di Helga, l’ amore perduto in un lager

Le lettere al fidanzato dell’«altra Anna Frank»

Sabato 12 giugno 1943 Oggi sono passati 2 mesi e mi sento così profondamente infelice. Per tutto questo tempo sono stata allegra e forte, anche se sono successe tantissime cose incresciose, talmente tante che non si possono appuntare tutte. Abbiamo dormito troppo poco e io sono così terribilmente stanca che a volte tutto si accumula. Forse sono una grande egoista, ma tutti i giorni arrivano dei pacchetti e Greet, la ragazza accanto a me, riceve sempre qualcosa dai suoi conoscenti. A Gerda stasera è arrivata una salsiccia, ma una così bella. Qualche volta vorrei ricevere qualcosa da voi, non perché ho fame, ma perché me lo mandate voi. Anche se tutti, ma proprio tutti, sono gentili con me, io mi sento così sola. Ogni giorno vediamo la libertà al di là del filo spinato. C’ è anche un sentierino, contornato di arbusti e betulle, che finisce molto in lontananza in un campo di grano. Spesso vagheggio che tu lo trovi e che io possa vederti comparire alla sera. Uffa, non si può mai star da soli, tutto intorno è un continuo litigare e sbraitare. Tu stesso lo avrai esperimentato a Haaren. A volte è come se dovessi rimanere qui per sempre, ma comunque è impossibile. Adesso lavoro all’ospedale, faccio le pulizie. Se la svignano tutti, tranne Greet e io. Credo che noi siamo troppo ammodo, perché se c’ è del lavoro da fare, generalmente siamo le uniche a rimanere incastrate. Naturalmente ce la prendiamo con tutto comodo, ma è normale se la notte si dorme troppo poco! Il giusto mezzo qui non esiste. Da una parte hai le bestie da soma e gli operosi e dall’ altra i fannulloni. E se a volte ti ritrovi in mezzo a donne ebree tedesche, che impartiscono ordini, anche i peggiori sembrano migliori, basta solo che uno sia gentile e cortese e non ti ringhi contro, ma ti offra un pezzo di pane e una tazza di tè. Oggi la roba da mangiare era acida; sicuramente a causa del caldo. Signore, mi sento di nuovo un po’ meglio, ora che ho scritto un pochino mi torna il buonumore. Lo farò più spesso comunque. Non è che oggi pensi di più a me? Martedì 15 giugno 1943 Sembra un’eternità e quanto durerà ancora. M. era qui, avrebbe dovuto portare qualcosa. Non l’ ha fatto. Dio, non vedo né un principio né una fine, sembra resterò qui in eterno. Oggi tutto è nero e tetro, non un solo puntino di luce. Ho pianto fino a poco fa, ora scrivo: scrivere mi dà sempre sollievo e mi ridona fiducia. Appello, fra poco continuo. È già pomeriggio. Forse vado subito a passeggiare per un poco con mia madre. È stata una giornata così terribile. Stamattina ero rimasta coricata, perché non mi sentivo bene. Agognavo un po’ di pace, ma qui essere malati è la cosa peggiore che ti possa capitare. Non c’è pace, tutto il giorno è un bisticcio continuo, la «plebaglia» si insulta, sbraita, i vecchi contro i giovani e viceversa. Sono tutti tremendamente asociali qui. Ognuno pensa a se stesso, nessuno capisce niente; molti, generalmente i ragazzi, non si rendono neanche conto della situazione, pensano di essere qui per divertirsi. Nonostante le continue richieste educate degli altri, continuano a cantare, schiamazzare e ridere fino alla sera tardi. Non hanno rispetto per nessuno, né malati, né anziani. Prendono addirittura in giro una ragazza che era una suora. Anche se hai una fede incrollabile, sono offese che fanno male, pur sapendo da quale pulpito arrivano. E io stessa sono andata da loro, volevo parlargli: ma mi hanno solo deriso. Non capiscono niente, e non vogliono proprio capire. Attraverso un pezzetto di finestra ho visto tramontare il sole, oro fuso dietro a luccicanti foglie di betulla. Un silenzioso fuoco sacro. Com’è possibile tutto questo? Da una parte quella bellezza sacra, tranquilla, e me stessa e dall’ altra questa atrocità rivoltante. Voltavo le spalle all’ uno, mentre non potevo raggiungere l’ altro e mi sentivo così sola. Greet piangeva, anche per il disgusto, per l’ indescrivibile dolore che tutto questo causa. Dio mio, perché deve esistere una cosa del genere, perché le persone devono rendersi l’ un l’ altra la vita così difficile? Questi sono quelli che si chiamano primitivi istinti di sopravvivenza. È qualcosa di terribile, ma io non credo che me ne lascerò mai trascinare, perché mi disgusta. Qui corre voce che domenica ci sarà un altro convoglio. Si vive nella miseria più totale. Neanche i sogni ti appartengono più. E allora ti tormenta dentro la miseria più tetra: tremenda, frastornante, urlante, ossessionante. Oppure sogni il cibo, le leccornie più diverse. Stamattina nel mio sogno, mi hanno messo davanti tante fette di pane con marmellate di ogni tipo, ma erano irraggiungibili, e pensare che non ho neppure veramente fame. La tensione costante e tutto il resto logorano i tuoi nervi e chi non ha una volontà di ferro finisce a pezzi. Ma io la volontà ce l’ ho e resisterò. E poi c’ è anche quello che ho visto ieri sera, anche se non potevo raggiungerlo. Finché lo tengo costantemente di mira, il pericolo di soccombere e venire sopraffatta non è così grande, credo. E se nonostante la mia volontà dovessi soccombere, allora vuol dire che doveva andare così. Forse questa è la prova del fuoco oppure è il volere di Dio, a cui devo conformarmi, rassegnarmi. Comunque tienimi stretta, la notte fammi riposare sul palmo della tua mano, come un tempo la tua principessina e allontana i brutti sogni. Dammi pace, pace e forza. * * *

La storia Uccisa con la famiglia nel luglio ’43 I testi che pubblichiamo in questa pagina sono tratti da Non dimenticarmi. Diario dal lager di un’adolescenza perduta, da oggi in libreria per Rizzoli (traduzione di Marika Viano, pp. 184, 17).

L’autrice, Helga Deen, ebrea olandese, aveva 18 anni quando dal campo di concentramento di Vught cominciò questo diario in forma di lettere al fidanzato, Kees van den Berg. I due ragazzi non si sarebbero più rivisti: Helga, deportata il primo giugno 1943, venne uccisa con la famiglia il 16 luglio. Il diario, uscito fortunosamente dal campo di Vught è stato conservato da Kees e soltanto nel 2001, alla sua morte, il figlio Conrad lo ha ritrovato e consegnato all’archivio di Tilburg.

Deen Helga  Pagina 39

Pasquale VITAGLIANO. “Trittico”

occidente

 

OCCIDENTE I

Non c’è più il Jazz !
Tornano le velette e i redingote,
Infilzate sulle baionette:
Vecchie arie decadenti
Di operette belle époque
Strozzate
(Ormai non più)
Dalle marce militari.
E’ tornata la Serbia !
Luogo del passato,
Parola da Bignami,
Eco di walzer.
Film-cutting :
Stregoneria moderna
Che riempie
Il silenzio,
Che colora
Il bianco.
Lontani da ieri.
Lontani da lì.
Ancora su lama tagliente
Si dividono
Le Grazie
Dalle cocottes.
……………………………………………
Olive, vodka e…
Perché no,
Caviale.

Bon Appètit

*

OCCIDENTE II

Cos’è l’Europa
Dalla Murgia ?
E’ un sorso d’acqua,
Il luogo della distanza,
Il lavoro,
E una lingua bastarda.
O è vagheggiare
Il passato
In simulacri
D’Avanspettacolo :
Caffè e lungofiume.
Ti ricordi del ‘92?
E’ passato
Sotto il ponte di Mostar.
Noi lo aspettavamo a Parigi,
Poi ognuno
Se ne è tornato da solo.
Cos’è l’Europa
Dalla Murgia ?
Non è l’armonia
Di uno spartito.
Forse è la casbah
Delle lingue;
La Porta d’Oro
Ai semafori;
Gli acidi approdi
Della fame.
Non è il grasso accento
Dei barbari.
Cos’è l’Europa
Dalla Murgia ?
E’ la tristezza
Dell’Avvento;
La quiete verde
che inumidisce
l’essere.
E’ il vicolo
che si spopola;
E’ la fabbrica
Che si svuota.
E’ il viaggio di nozze.
Non è il peraspro
O la ferula rotta.
Non è la croce d’ulivo.
Cos’è l’Europa
Dalla Murgia ?
Non è l’aridità
Del calvario;
Il cranio arso
Dei colli.
Non è liberazione.
Dalla Murgia
Non si vede ancora
L’Europa.
Dalla Murgia si sono visti
Gli spari in Jugoslavia.
Dalla Murgia
Si vede
La terra
Delle aquile uccise.
E si vedono
Le cupole delle chiese
Che sembrano
Minareti
O seni.
E per questo,
Di giorno
Sono soli
E di notte
Sono lune.

(La Murgia è una zona collinare molto aspra della Puglia che degrada verso la Basilicata)

*

OCCIDENTE – Apocalypse

Anche tu hai atteso
Sulla Promenade,
Uomo di scoglio
E di terra salata,
Tre vecchie signore
In carrozzella
E certi scrittori
Affacciati ai Caffè
Sui fiumi rumorosi:
Acheronti senza approdo.
L’ Europa perse il mare:
Non ha più mappe, né recapiti.
Se fu difesa in Cambogia,
Lungo la via dell’Orrore,
A Gerico fu perduta.
Non contro nomi di Popoli,
Contro inerti nomi
impronunciabili.
E senza mare
La porta d’Otranto
Non portò al cielo
Ma ad un castello
Abbandonato.
Chi attese al Bosforo,
Fu ingannato:
A Panama
Era il passaggio.
Eppure le Tigri
Non passeranno da lì.
E adesso attendono
Sulle Black Hills.
Per loro il sangue
Fu nutrimento;
Non fu un fiore
All’occhiello.
E la capitale
Del Nuovo Ordine
non sarà più Roma
Ma Bogotà o Pechino:
Mucchio selvaggio di volontà,
Primo incesto di purezza,
Danza cieca
E acutissimo canto:
Grande illusione d’ombre.
Portate le navi in arsenale.
non è più il tempo di viaggiare.
Prore sono le facce approdate
Sulle nostre tovaglie sparecchiate:
Naturalismo ottocentesco
Non è più l’orizzonte.
Adesso è soqquadro.
La storia non è finita in Occidente.
E la caduta dei Ciclopi
Non sarà la vittoria di Davide.
E’ suonata la ricreazione.
Lanciammo i bianchi reggiseni
E ritirammo il mare:
Non c’è più la frontiera.
Ed è rimasta una piaga,
O una piega,
Una smagliatura:
Smarrendomi in essa,
Un tempo
Bronzea sponda,
Chiedo a te,
Viaggiatore immobile:
Chi sono i barbari?
Chi sono i pionieri?
Noi chiamiamo
Villaggio Globale
Quello che fu solo
Un recinto:
A chi una tanica d’acqua;
A chi un paio di scarpe.
Per voi il gsm;
Le paure dell’euro
E dei cinesi.
I templi dell’Epiro,
Distrutti dagli Illirici,
Non valgono il pianto
Di un chador,
O il sudore di spezie.
Chi si chiamò Skandemberg
Non servirà il nostro pranzo,
Non lo fermerà il leone.
Save Our Souls.
Risponderà il silenzio.
Ci rimarrà: http www
Indirizzo invisibile,
Recapito inesistente,
Per una pietà umana,
Nient’altro che parola,
Senza più
Umanità.

Fabrizio DE ANDRE’ – (1999 – 2009: Assenza, più forte presenza…)

Fabrizio_De_Andre

Preghiera in gennaio

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(Anche sul blog la Poesia e lo spirito)

Premio di poesia

05-san Nicola Sassari

II Edizione Concorso Internazionale di Poesia

L’Isola Dei Versi

SCADENZA: 30 Aprile 2009

BANDO

 

II Edizione Concorso Internazionale di Poesia

Buio di corpi

immigrati

In qualche angolo di tempo, tutti siamo stati gli ultimi

 

Due metri di ossa.
Il figlio minuto saltella
tra i fusti sottili delle gambe,
fasciate da jeans corti e svolazzanti.
Scambiano battute e ridono
nel loro idioletto afro italiano.
Dietro un altro padre
col figlio infagottato e pallido,
silenziosi e tristi.
Li vedo scendere dalla scala mobile,
verso il market e l’uscita.
I bambini hanno grembiuli identici.
Guardo le nuche e le spalle offerte
a chi potrebbe colpirli da dietro.
Sono ancora più fragili
pensati in questo modo
affidati al buon cuore del mondo.
Ho immagini dentro di possibili agguati
a un buio di corpi che inquieta.
Non siamo forse lucidi
ed empatici abbastanza vivendo
tra imperfetti Abeli e Caini,
nel pianto secco di greti abbandonati
che scuote e resiste nei millenni.
Tornano immancabili la rabbia
e la pietà
girando come ruote impazzite.
Soffio sulle vele ebano di un padre
e di un figlio. Viaggio qualche metro
con loro, e la loro gioia.
Penso ai loro simili che crescono
come non si sa, nel fosso d’un continente
di luci che vacillano e si spengono,
che abbagliano solo nel nero più nero.


 

Michele RANCHETTI “POESIE SCELTE edite e inedite”

michele ranchetti

Il testimone si confronta
solo col testimone e acquista
nel trasmettere un senso.
Non è una verità ma un lascito
ciò che da mano a mano
percorre l’esistente.
Nel dare si compone
il tempo delle mani.
*
Curo, come vedi, un giardino
piccolo, su misura
del bambino che in me
vive da adulto: figura
del mio premio terrestre.
Alberi senza rami, recisi
dal gelo dell’eterno, frutti
su tronchi inesistenti
uccisi dai silenzi.
Terra senza colore, lutti
aridi, spoglie, muore.
*
La linea della vita della mano s’arresta
a una croce: dirotta, poi, dentro il palmo
ad incontrare segni più leggeri di ferite
malattie morti stravaganze, precipita
in un solco più fondo sino alla più certa
fine vicino al polso e nel tragitto
crepe di dolori, fitte sofferenze, tagli
(amori collinari dentro l’ombra)
delle alture lunari delle dita.
*
I)
Ora, sono i dolenti a morire: i testimoni.
Io, solo tra un morto e me, in infinita
distanza dalla vita.
II)
I luoghi santi da percorrere ancora
ma prima del silenzio nell’itinerario
della mente incrociata da diverse
fedi secondo il secolo.
III)
Tra il silenzio imminente e la parola
che trema per la mia voce si distinguono
voci diverse dalla mia secondo il tempo
che le incrocia e le abbatte come forme
prive di senso.
IV)
Scendi a trovarci come se fossimo
io e tua madre il giardino
della tua infanzia e noi vecchi il sorriso
nella desolata tragedia del tuo vivere
senza un incanto, fissa nell’assenza
d’aria e di luce nel presente
inorridito dal brivido di morte
di ogni cosa vivente contro di te
che ne rimani illesa.
V)
Quanto, diceva mio padre, mi dovrete
rimpiangere, quando sarò morto.
Non è stato così, ma è stata
una corsa a raggiungerlo
tra mio fratello e me,
e lui l’ha vinta. Ancora
io gli serbo rancore.
VI)
Un morto mi è
caduto addosso, io volevo
che andasse altrove
dove già era
ma via da me… Anzi volevo
stare solo con lui
ma senza la sua morte.
VII)
All’aprirsi del giorno non sai
se la luce più ti riguarda: i fatti
sono morti nel sonno: accadere
vivo non sei più presente.

*

Michele RANCHETTI
POESIE SCELTE edite e inedite
Anterem Edizioni, 2008
Saggio di Marco Pacioni

*


Altre poesie e saggio di Marco Pacioni  su Rebstein

Recensione di Alessandro Zaccuri su LPELS

Altre poesie di Michele Ranchetti su LPELS

Lettera a Renato Soru

renato soru

 

Caro Renato Soru,

 

scrivo per esprimerle la mia preoccupazione – assai diffusa, nell’isola – che la coalizione di destra, che fa riferimento a Cappellacci, possa davvero farcela a vincere le prossime elezioni regionali. Sarebbe a mio avviso un colpo mortale per la Sardegna, e per l’azione politica da lei intrapresa in questi anni. I valori della coalizione avversa li conosciamo o li intuiamo, senza troppi voli di fantasia e di memoria. Non sappiamo ancora chi è Cappellacci, ma conosciamo il suo "datore di lavoro", e cosa ha fatto e cosa intende fare di quest’isola: un paradiso per lui e per i ricchi e furbi come lui;  una colonia neppure dell’Italia, ma sua  personale, governata da amici devoti,  fedeli e solerti come domestici privati. I sardi sono già stati avvisati: l’isola avrà finanziamenti e sostegni solo se farà parte della stessa scuderia del gran capo.

Ma non tutti, vivaddio, sono disposti a vendersi e ad abbassare la testa, anche se la dignità ha il suo costo.

 

Su tre aspetti importanti, a mio parere, bisognerebbe meglio riflettere nel breve tempo che precede la consultazione elettorale:

 

1. Il forte bisogno di eticità, nella società e da parte di coloro che ambiscono a rappresentarla; si sente il bisogno di personalità esemplari, del mondo professionale e intellettuale; persone che stanno fuori dalla politica, pur avendo capacità di ascolto, di mediazione e di interazione coi propri simili; personalità che abbiano dimostrato di saper fare qualcosa nella loro vita, e che non intendono fare della politica un mestiere; la coalizione che si candida dovrebbe a mio parere dare segnali forti e simbolici di cambiamento: primo tra tutti, che si dimezzi il compenso dei consiglieri regionali, inaccettabile in mezzo a tanta miseria crescente; sarebbe un segnale forte e tangibile della sinistra, coerente con la sua pretesa di "diversità", e di esempio a livello nazionale.

 

2. La crisi della politica, vista dal di fuori, è dovuta forse in misura prevalente alla complessità dei temi, e alla difficoltà di compattarsi (le forze di sinistra) intorno ad una decisione comune e univoca; paradossalmente, proprio là dove c’è più confronto e democrazia – rispetto alla coalizione di destra che (a livello nazionale) si presenta verticistica e compatta (seppure non esente, com’è noto, da contrasti interni) – si avverte  nella sinistra, assieme a non poche contraddizioni, una persistente debolezza, mancanza di coesione,  lontananza dalla sensibilità e dalle esigenze reali della gente;  da ciò, indubbiamente, deriva la diffidenza dei cittadini verso i suoi rappresentanti politici.

Si rende perciò necessario, oltre che proporre una squadra coesa sui programmi, sulle modalità del confronto, e sui processi decisionali, adottare strategie comunicative accorte ed efficaci, rispetto a quelle praticate finora, e  mirate a:

a. meglio informare gli elettori, a consuntivo, sulle molte e meritorie attività fin qui svolte dal governo regionale; reiterandola, l’informazione, affinché gli elettori abbiano piena cognizione del lavoro fin qui fatto, e non lo dimentichi (il repetita iuvant, in un mondo bombardato dai media, e sempre più psicolabile, si rende purtroppo necessario);

b. anteporre la svolta etica (sub 1) a tutte le altre, spiegando le ragioni che hanno indotto alla scelta dei candidati e dei vari punti del programma;

c. spiegare in sintesi – ma con possibilità di approfondimento – le strategie politiche della coalizione nei vari settori; gli aspetti di continuità e quelli di cambiamento;

d. creare filiere nei vari settori (con istituzioni politiche locali e del mondo accademico, professionale, intellettuale e produttivo; coi cittadini, rianimando le sezioni dei partiti facendole lavorare – con rapidità e professionalità – avvalendosi dei nuovi strumenti informatici, al fine di renderli organismi di raccordo con la società, per meglio ascoltarla e coinvolgerla ogni volta che ce ne sarà bisogno, anche attraverso mail list ed interviste);

e. informare costantemente e reiteratamente la collettività sulle cose realizzate, quelle che si vorrebbero fare e gli ostacoli alla loro realizzazione, tenendo conto dei suggerimenti.

 

3. Tra tutti gli interventi che la coalizione di sinistra ha in programma nei vari settori, è necessario esplicitare quelli a tutela dei posti di lavoro a rischio, e quelli che prevedono la creazione di nuovi posti di lavoro.

 

 

Si tratta, come vede, di cose in parte già dette, ma che non vanno dimenticate, se si considerano i mezzi potenti e inapparenti di chi ben altro destino ha programmato per quest’isola.

 

 

Le auguro ogni bene, e di riuscire a vincere questa  dura battaglia.

 

Giovanni Nuscis     

 

 

(*) Lettera inviata privatamente al Governatore della Regione Sardegna

 

 

Fabrizio DE ANDRE’ – (1999 – 2009: Assenza, più forte presenza…)

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Preghiera in gennaio

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“AMBIENTE. Vicino alle nubi sulla montagna crollata.”

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Luca Ariano (inedito)

Un lungo viale di tigli accanto al Naviglio
-quando il Paesone non era un dormitorio-
profumava la primavera mentre passavi davanti la finestra
in attesa d’un cenno;
oggi solo una balaustra di metallo e odore di fogna,
d’hinterland e la Metropoli a due passi.
Sbocciano le torri dell’Innominato in quartieri
di plastica dove macchie verdi si seccano di calce:
si scavano resti di civiltà, una foto e poi ricoprire
di parcheggi e appartamenti vuoti.
Il professor Emilio prenderà una camera
in affitto “buongiorno
e buonasera” nel cigolio d’orgasmi a ore.
Se vai dall’architetto con le tre buste
e pesca quella giusta vinci il tuo appalto e lui ingrassa
sgasando il suo jeeppone e sbattendo sorrisi di vetro.
In quella piazza fanno il loro gioco:
abbassi gli occhi ma una stretta di mano non si nega
tu che cerchi un posto più forte del tuo verso.
I muratori pranzavano sulla rotonda all’ultimo sole
sognando una lampada
da tronista e ora il freddo un cicchino di Gazza.
-E’ arrivata la nebbia nei Borghi- dicevano
che non c’era più e non sai che regali fare per Natale,
come al povero Andrea che suo padre ogni anno
regala un cofanetto nuovo di Rino Gaetano.

*

Cristina Babino (Cuore di Tetrapak)

Volo plastica su ali di polimero
se rotta e abbandonata
mi svuoto d’ogni peso e gravità
degli avanzi della cena

e allora come vela gonfia
d’aria e niente sopra
megaliti urbani plano
invento traiettorie oblique

tra container clessidre
dall’alluminio senza
sabbia e senza tempo.

Poi mi poso m’impiglio
a un ramo secco tra
refusi industriali mi riposo.

Una volta qua era tutta campagna.

*

Enrico Cerquiglini (inedito)

Piangi, madre mia, di nascosto, anche quando sei primavera e t’inghirlandi
i crini, libellula di festa in festa. Hai ferite che nascondi, ulcere riaperte
dal vibrare di questo treno che dissimuli con sorrisi che a ben guardare
hanno la stessa radice dell’urlo. Cerchi di tenerci attorno a te, come pigolìo
di stelle e a volte sei fiera di noi figli che goffamente amiamo
o goffamente ci stupiamo di esserci. Sei bella madre, anche nel dolore
ed abilmente nascondi le ferite che ti hanno offesa, le sonde che ti penetrano
il ventre, i prelievi di sangue sempre più frequenti, le ustioni su tutto
il corpo. Sei bella e qualcuno ti crede eterna fanciulla, vergine ignuda,
giovane donna da possedere, da violare, da rendere schiava d’inammissibili
desideri… Sai sopportarci con quell’amore che tutto mosse, privandoti
della salute, mortificata nell’aspetto, pallida e febbricitante, hai mille
quotidiane gravidanze da portare a termine ed altrettanti figli da seguire
in funerale: riso e pianto, nascita e ritorno, affetto e angoscia
muovono il tuo seno in palpiti ritmati, ma non sai spiegarti
perché il tuo ventre s’è creato tanto male, né darti pace per dei figli,
allevati con sublime affetto, che armati di odio contro te, contro fratelli
infieriscono, quasi assoldati da un potere ascoso che asserve e nega.
Rubano le tue lacrime da vendere in bottiglie, succhiano il tuo sangue
per nutrirsene, scavano le tue viscere per un banchetto infame, depilano
il tuo pube, le tue ascelle, la tua testa per riti a te ignari, ti privano del sudore,
devastano i tuoi seni per avere latte in polvere di facile digeribilità,
incidono il tuo corpo con bulini dolorosi, scavano come scabbia
gallerie dolorose per giochi che stenti a capire… “E sono miei figli”
-sussurri al vento- “Lo ripeti spesso crollando un po’ il capo, tremando
per siringhe di prelievi diuturni che ti lasciano stremata e vuota
di forze. Senti che un liquido di fuoco ti percorre, che la tua fronte
scotta, che la tua pelle levigata si disquama, avverti continui brividi
e mille bisturi incidono neoplastiche formazioni e biopsie ripetute
scoprono insospettate malattie, senti che non potrai a lungo sostenere
l’assedio del male e la stanchezza ti predispone alla morte, a lasciarci
orfani col rimorso stampato in fronte, orfani in odore di matricidio.

*

Carmine De Falco (inedito)

Il caglio fresco non va ingerito.
Ci respiriamo addosso, sento,
un fiato che non è mio in aria
che non è dolce. Lasciano che i fiori
siano contaminati. Ci beviamo
brucellosi,ritardi, vuoti legislativi
e l’amore dei gatti di febbraio.
L’oro bianco s’è macchiato

Si cade sull’Appennino Centrale
da fermi, ci si rompe le ossa
a peso morto, fratture
scomposte, rotture di polsi,
fasce e poi ingessature

le Calle cominciano a sbocciare
in anticipo di due mesi e mezzo
dovrei retrodatare il compleanno?
Siamo nati tutti un po’ prima, qualcuno
non è nato. Ci saranno conseguenze
sul cielo della nostra pelle?

Ma a Pomigliano era il tempo
della spazzatura accumulata
dalle mattine super umide velate
da un leggero e distribuito
strato di fumo, decomposizione
e diossina.
La gente non vuole
gli inceneritori per poter incenerire?

*

Gianni D’Elia (E qui concluse)

“Ci stanno avvelenando, lentamente,
da decenni, per fretta d’incassare
produrre, distribuire, vendere, smerciare

ogni creatura vegetale e animale; bestie,
han fatto diventare cannibali gli erbivori,
dando lo da mangiare loro stessi;

le chiamano farine, ma sono ceneri, queste,
degli animali morti e sminuzzati,
che per mangiarsi si sono ammalati,

impazzendo di prioni nei cervelli;
sedici mila anni contadini, ecco,
non erano bastati; ci volevano i nati

nel secondo Novecento, per guastare
tutta la catena della vita naturale;
con tutta la nostra intelligenza artificiale,

questa Europa, questo mondo, fa vomitare…
Che la voce delle lotte li perseguiti,
come costoro i corpi infermi ed esili…

Pochi o nessuno dice in alto niente;
e tu, che poco fai, pure cuore-mente
no cedere loro; tieniti al presente

che dal passato sale al suo futuro,
per tutti i vivi oppressi dietro il muro
dei soldi ascosi nei caveaux del mondo…

Ricorda, solo un nuovo sentire-pensare
potrà cambiare davvero il vecchio fare,
e paria tra i paria è il poeta, nel fondo…

E tu ragiona con noi, tra storia e rima,
con la gioia a venire del diverso, spero,
che rivà incontro al vero della riva…

Ogni onda, amico, ogni riga, ogni deriva…”

*

Anna Maria Farabbi (inedito)

Le cose stanno così madre

abbiamo perso le stagioni incatramando gli orti
anche quelli interiori
i ghiacciai si sciolgono si scioglie
anche la pietra di Saint Victoire
Ii quadro giallo di Vincent lo specchio di alice
dentro cui non passa più io

Leggici nei polmoni cosa abbiamo fatto nell’aria
pesci ed ucceli improvvisamente scoppiano
si rovesciano tutti gli animali dell’arca quasi capovolta

manca noè manca un filo con cui tessere memoria e responsabilità
nell’eredità dei quattro elementi
manca un vaso femmina dentro cui immergersi e rinascersi
riconoscendoti

il vento svuota una tempia dopo l’altra e chiacchiera in ogni bocca

Anche in quella dei poeti
che illanguidiscono senza pane limpido e fuoco liquido
nel sangue nel canto nel vino
mentre creano tende di carta e tornei durante il loro esodo

Di questo non piango
perché attraverso e vivo ancora con insistenza e ancora impa-
rando dall’alba
l’alba in me permane tutto il giorno e nella notte ruota
i suoi chiarissimi rossi i suoi chiarissimi tuorli

Scrivo ormai solo sui palmi dei miei piedi mentre ti cammino
non insegno a nessuno il mio non verbale alfabeto
insisto ancora a leccare con la mia lingua il mio abisso
insisto ancora tramandando l’alba nel donare questa lingua
e questo mio abisso

*

Fabio Franzin (Muore il panorama)

Muore il panorama
e lo scorcio, e la veduta

perduta ne è ormai ogni eco
fra i crepacci della memoria
e se lo sguardo è costretto
a sgomitare col rumore
e la storia di ogni luogo urla
ai cieli i brandelli strappati

se la ruggine impana i cancelli
e il cemento copre i richiami.

Il poggio ci annuncia che l’asfalto
ha già raggiunti le radici dei faggi

all’ultimo tornante prima del rifugio.

Nessun possidente di antico stampo
potrà ancora sporgersi dal belvedere
col figlio primogenito, far vagare
un indice, laggiù, insieme alla consueta
e bella frase ereditaria

e sperare che ciò che il suo dito indica
dica all’epoca del poi di preservare.

*

Davide Nota (Il fiume)

Hai il corpo smangiato dagli olii, morto
fiume che penoso passi… a pezzi
la pelle del letto riarsa s’affaccia
coi peli di paglia stecchiti e la piaga
del sole nel petto; qualche brandello
di carne s’attanaglia. Sei, torrente,
dai rovi ricoperto e dalle pile
delle auto; su un masso
dove stente s’incagliano le rive
un grasso laureando scrive
le sue orribili poesie, stirando
le fibre smagliate del ventre… già,
l’estate è rovi, copertoni e batterie
sul bordo sfiancato del niente, Ivan.

E i sampietrini rialzati,i calcinacci
di questa ultima periferia
dove sei cumulo di resti e vanghe
tra presti lavori di muratura
e i cementizi tumuli… reale
è questo campo che tronco fecale
alla deriva trapassi, Tronto
che fosco gli abusi ritingono e vile
tra gli scarichi industriali e i rifiuti
ti vedo sotto i piloni fluire
dalle circonvallazioni, non fiume
ma rivolo di sangue, sterco, muco
che scende, non sorgente ma rifiuto,
scarico urbano che la vita abiura.

*

Luca Paci (inedito)

1.
Grandine, case & snodi tangenziali
curve apolidi bisecanti

parallele s’incrociano
nell’illusione della collusione.

Avamposti di paessaggio
discariche-passaggio
a manciate
scarti organici e tossici,

Nostalgia di capannoni dimessi al bordo […]

2.
Ove Calipso e i ciclopi ed un uomo
Chiamato nessuno
Percorreva l’inconscio della
Vela
Con la docilità d’un encomio
Un cartello pubblicizza il nuovo
Centro commerciale
Dalla collina terra d’occasione
Solo
S
venduta
S
mangiata
Passata di mano
In mano

Sotto il segno dell’irruzione merce
Le stigmate d’asfalto
Segnano fresca la pelle del Monte
Lucidi scudi d’auto
Accecano il lucore
Di pareti e
Palazzi
E
Casazze
Arginando
Il rollio
Del mare

*

Marco Saya (Lische)

Il bambino e la sua bolla,
scoppia a una certa altezza.
Schegge di sapone a nozze con polveri
sottili nevicano l’asfalto.
Il camino fuma ceneri
di lische consumate.
Balconi anneriti nero di seppia.
Gran fritto di olii nelle branchie ingurgitati.
Rigurgita l’atmosfera,
rigurgito della massa a terra:
“dove andiamo?”
Il fondotinta nasconde gli involucri,
“pioverà?”
Laviamoci ammollandoci nelle cicerchie.

*

VICINO ALLE NUBI
SULLA MONTAGNA CROLLATA
Campanotto Editore, 2008
Prefazione di Leonardo Mancino
A cura di Enrico Cerquiglini e Luca Ariano

*

Da Una terra di canti e disincanti

[…] Questa antologia è nata con spirito pasoliniano, mi spiego meglio. Il nostro obiettivo non è certo “scimmiottare” le battaglie politiche e culturali di Pasolini né osiamo considerarci suoi eredi o vediamo nella figura di Pasolini un profeta, solo vorremmo che quello spirito critico del poeta friulano e di tanti altri intellettuali della sua generazione come Volponi o legati a quella stagione come Fortini, Vittorini, Alfonso Gatto ed altri fosse presente in questo lavoro. In questa stagione post guerra fredda, post muro di Berlino, post ideologie, post-post-post non guardiamo a certa ideologia con nostalgia o dietrologia (certe logiche oggi sarebbero impensabili) ma vorremmo che un tipo di intellettuale civilmente (nel senso di ‘cives’) e politicamente (sempre nel senso etimologico del termine ‘Polis) si affacciasse nel panorama attuale. Non siamo certo così ingenui da pensare che un’antologia (che non ha nelle nostre intenzioni valenza critica, ma di sensibilità verso una certa situazione) possa modificare nell’immediato le cose, ma ci piace credere, pensare e tentare di fare in modo che attraverso una poesia, un semplice verso qualcuno possa accorgersi che i poeti non vivono nel loro mondo, ma sono parte attiva e con la loro voce cercano di migliorare, far riflettere e cambiare le cose, proprio in quest’ottica abbiamo inserito anche due nostre poesie, proprio perché non di lavoro critico si tratta, bensì di testimonianza di dissenso, e sofferenza verso la realtà contemporanea. (Luca Ariano e Enrico Cerquiglini)

(*) Le dieci poesie, tra gli ottimi testi antologizzati, sono state scelte per la loro particolare aderenza al tema dell’ambiente, e alla rubrica (“Ambiente”) di questo blog.

“Del dialetto siciliano” di Marco SCALABRINO”

sanscrito1

 

La concezione del dialetto quale codice dei parlanti di un ristretto consesso sociale, un codice chiuso, non contaminato e/o contaminabile, un codice sinonimo di sottocultura, è tuttora diffusa. Concezione fondata sul luogo comune, sul pregiudizio, sulla sconoscenza di quanto invece c’era – c’è – di bello, di prezioso, di antico nel nostro dialetto.
E allora, perché il Dialetto? E si può – si deve – scegliere fra l’uno, il Dialetto, o l’altro idioma, l’Italiano? E in relazione a che? All’argomento, al destinatario, al caso …? E dulcis in fundo, zumando sulla specificità che più da vicino ci coinvolge, l’annosa questione: il Siciliano è Dialetto o Lingua?
Nessuno di noi ritengo si accosterebbe mai al Francese, all’Inglese, al Tedesco … senza conoscerne l’ortografia, la morfologia, la sintassi, la semantica … E dunque perché farlo col Siciliano?
Non credo basti essere nati – e cresciuti – nell’Isola per scrivere il Siciliano! Noi tutti ne siamo sì, in virtù di ciò, naturaliter, dei parlanti. Per acquisire l’altra qualità, la qualità che ci qualifichi scriventi, occorre un praticantato, occorre un impegno diuturno volto all’apprendimento delle opere degli Autori siciliani e dei saggi inerenti agli stessi e al Dialetto, occorre la frequentazione di un preliminare, diligente esercizio di scrittura.
In definitiva, bisogna amare, studiare, votarsi toto corde al Siciliano.
All’interrogativo “il Siciliano è Dialetto o Lingua?” reputo opportuno abbinare – al fine di approfondire – quell’altro che viene posto, sovente, da taluni: “non esistendo un Siciliano nel quale scrivere ha senso dannarsi sulla corretta trascrizione delle parole?”
Affrontiamo complessivamente le due domande, tramite le autorevoli valutazioni di Mario Sansone e di Salvatore Camilleri:
1) dal punto di vista glottologico ed espressivo non c’è alcuna differenza essendo la lingua letteraria un dialetto assurto a dignità nazionale e ad un ufficio unitario per complesse ragioni storiche;
2) il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana;
3) il Siciliano è stato strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello.
Riportiamo oltre a ciò l’avviso di Guido Barbina: “Tralasciamo, perché puramente accademico e fuorviante, il pretestuoso problema della differenziazione fra lingua e dialetto”, e un passo tratto dal pezzo LE LINGUE MINORITARIE PARLATE NEL TERRITORIO DELLO STATO ITALIANO di Roberto Bolognesi. Bolognesi asserisce: “Tecnicamente i termini lingua e dialetto sono interscambiabili … il loro uso non implica nessuna precisa distinzione genetica e/o gerarchica. Tutti i cosiddetti dialetti italiani sono lingue distinte e non dialetti dell’Italiano”.
“Il dialetto – assevera Salvatore Riolo – non è una corruzione né una degenerazione della lingua e non potrebbe mai esserlo, perché i dialetti non sono dialetti dell’italiano, non derivano cioè da esso ma dal latino e soltanto di questo potrebbero eventualmente essere considerati corruzione”.
Ulteriori considerazioni (appena ricordando peraltro che nella Sicilia del Cinquecento operavano già due Università: quella di Catania e quella di Messina, nonché la proposta del 1543, del siracusano Claudio Mario Arezzo, di istituire il siciliano come lingua nazionale) potrebbero passare attraverso la presenza di Vocabolari, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera.

Questa incursione nel passato ci porge il destro per dei brevi cenni di etimologia.
Se oggi io inframmezzassi il mio intervento con termini quali: LIPPU, OGGIALLANNU, TABBUTU, RACINA, TRUPPICARI, SPARAGNARI, nessuno di noi – credo – si allarmerebbe, si lamenterebbe di non comprendere, si riterrebbe escluso. Tutti, piuttosto, troveremmo palese conferma a una nostra sensazione che uno studio del Centro Ethnologue di Dallas ha compiutamente così fissato: “Il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata; è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui” in Siciliano e in Italiano standard.
Quelli, LIPPU, OGGIALLANNU, TABBUTU, RACINA, TRUPPICARI, SPARAGNARI, sono termini che adoperiamo con naturalezza, con proprietà di significato, sono parole con le quali assolviamo egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione. Ma la cosa più rilevante ai nostri fini è che tali, ed altri lemmi, fanno parte, a pieno titolo, del nostro odierno parlare, sono pregni di attualità.
Ciò detto non ci rendiamo forse conto, perché magari mai ci siamo interrogati in tal senso, che sono antichi di secoli quando addirittura non di millenni.
Il Siciliano, le cui radici diciamo così ufficiali affondano nel lontano 424 a. C. con la virtuale costituzione ad opera di Ermocrate della nazione siciliana, “Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi”, è dunque un organismo vivo, palpitante. Un organismo capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali si è “incontrato”, capace di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta più utile al suo arricchimento e di stratificare tali conquiste sulle proprie, originarie fondamenta.
Ecco, si avvicendano nel tempo il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma sostanzialmente sempre una lingua, una sola: il Siciliano.
Ricordando per inciso che l’etimologia è la scienza che studia l’origine e la derivazione delle parole di una lingua, ci chiediamo: “Quali sono le origini del Siciliano?”
La risposta, in parte, è insita già nella premessa appena fatta, ma il quesito necessita comunque di una trattazione, impone una ancorché succinta esposizione.
Lucio Apuleio, scrittore siciliano del II secolo d.C., asseriva che i Siciliani parlavano tre lingue: il Greco, il Punico e il Latino. Ma da allora, e fino al XIX secolo, ne sono passati di “ospiti”!
Veniamo pertanto a rievocare le frequentazioni del Siciliano servendoci di alcuni esempi.

DAL GRECO, VIII secolo a.C.:
Bastaz – Vastasu; Kerasos – Cirasa; Babazein – Babbiari; Lipos – Lippu; Baukalis – Bucali; Keiro – Carusu; Rastra – Grasta; Bubulios – Bummulu; Apestiein – Pistiari.
E in aggiunta: Naca, Cannata, Taddarita, Ammatula …

DAL LATINO, III secolo a.C.:
Muscarium – Muscaloru; Crassus – Grasciu; Hodie est annus – Oggiallannu; Ante oram – Antura; et cetera et cetera.

DALL’ARABO, 827 d.C.:
Zbib – Zibibbu; Qafiz – Cafisu; Suq – Zuccu; Tabut – Tabbutu; Qashatah – Cassata; Saut – Zotta; Giâbiah – Gebbia; Babaluci – Babbaluci; Giulgiulan – Giuggiulena; Sciarrah – Sciarra.
E poi: Lemmu, Funnacu, Giarra, Margiu, Zagara, Burnia, Zimmili …
Una curiosità: l’Etna è chiamato Mungibeddu, voce che assomma la radice latina di mons (monte) e quella araba di gebel (bello).

DALLA RADICE FRANCESE, in conseguenza della dominazione normanna e angioina, tra il 1060 e il 1282: Ache – Accia; Mucer – Ammucciuni; Boucherie – Vucciria; Couturie – Custureri; Trousser – Truscia; Raisin – Racina. E: Giugnettu, Accattari, Avanteri …

DALLO SPAGNOLO, che praticammo quasi ininterrottamente per cinque secoli dal 1412 al 1860: Abocar – Abbuccari; Lastima – Lastima; Encertar – Nzirtari; Scopeta – Scupetta; Esgarrar – Sgarrari; Alcanzar – Accanzari; Tropezar – Truppicari. E quindi: Muschitta, Sarciri, Picata, Ammurrari …

DAL TEDESCO, tra il 1720 e il 1734 quando la Sicilia venne assegnata dagli Spagnoli all’impero austriaco: Hallabardier – Laparderi; Rank – Arrancari; Sparen – Sparagnari; Wastel – Guastedda; Nichts – Nixi.

E, per accuratezza di informazione e con la puntualizzazione dello stesso autore: “questo mio articolo vuole essere un invito a chiunque ha nel cuore la nostra Isola, per discutere sulla nostra lingua e collaborare con unità d’intenti perché essa venga riconosciuta de jure”, annotiamo altresì l’ipotesi di Giovanni Ragusa: “I Siculi erano un popolo indo-europeo. Dall’India essi vennero verso l’Europa e quelli che giunsero nella nostra Isola, guidati da Siculo, furono chiamati Siculi. La loro lingua pertanto doveva essere, se non la sanscrita, una che certamente ne derivava. Alcuni vocaboli: il nostro pùtra (puledro) nel sanscrito è pùtra che vuol dire figlio; il nostro màtri non deriva dal latino mater, ma dal sanscrito màtr; il nostro bària (balia) nel sanscrito è bhâryâ e vuol dire moglie, e Murika chiamavasi la sicula Modica.” E prosegue: “I Siculi, sottomessi dai Greci, furono costretti per necessità a far proprio il lessico dei dominatori, ma lo espressero con la fonetica che era ad essi congenita. Ciò avviene anche a noi che, dovendo parlare l’italiano, lo esprimiamo (foneticamente e sintatticamente) come ci è naturale; e ciò fa sì che veniamo riconosciuti “siciliani” in ogni luogo e da tutti. Sappiamo che la nostra lingua ha, come il sanscrito e le lingue semitiche che ne sono derivate, soltanto vocali a, i, u. Sappiamo che la lingua siciliana rifiuta in modo assoluto la e e la o atone. Sappiamo anche che ha suoni cacuminali non esistenti nel latino (ggh, dd, tr, str, sdr) e che si esprime con regole diverse da quelle delle lingue latina e italiana. Di essa non dobbiamo vergognarci, perché non ci rivela, come dicono i concittadini del Nord Italia, terroni, ma gente di antica e nobile civiltà.”

Non possiamo chiudere il capitolo delle influenze senza fare una ulteriore brevissima allusione. Tra il secolo XI e il secolo XIII, schiere di militari, di cavalieri, di fanti, con a seguito le famiglie, dal Monferrato e dalla Gallia Cisalpina calarono in Sicilia. Le popolazioni delle località, tra le quali Piazza Armerina, Aidone, Nicosia, San Fratello, Sperlinga e Novara di Sicilia, ove costoro si stabilirono, mantengono tuttora nella loro parlata le connotazioni fonetiche, morfologiche e lessicali ben distinte da quelle del Siciliano, che hanno determinato il c.d. GALLO-ITALICO.

Ci siamo ovviamente limitati a pochi condivisi casi, ma le relazioni sono innumerevoli quante le parole stesse del dialetto siciliano e di certo ognuno di voi potrebbe immediatamente suggerire chissà quanti e quali altri vocaboli o locuzioni.

Alla luce di quanto esposto, ritengo si possano sciogliere, entrambi positivamente, i quesiti che ci siamo posti e affermare:
A) il Siciliano può essere considerato, se proprio vogliamo impuntarci su questo termine, alla stregua di una Lingua; l’appellarlo però Dialetto nulla gli sottrae e niente affatto lo diminuisce –
B) ha senso, per chi vuol dare dignità al proprio dettato e a se stesso, perseguire la corretta trascrizione del Siciliano.
Rebus sic stantibus: “Perché il Siciliano? E quando?”
La questione, in realtà, è ben altra! La scelta del sistema di comunicazione non è, infatti, abito soggetto alla moda, al fine, all’ambiente. La scelta è dettata a priori: il “sentire siciliano”. Il che significa, ci soccorre daccapo Salvatore Camilleri, “esprimersi con forme, con spirito, con immagini profondamente siciliani e non già con scialbe traduzioni dall’Italiano”, significa “liberarsi dal preconcetto che il dialetto debba solamente rivolgersi alle piccole cose, al folclore, al ricordo”, giacché “il dialetto può esprimere tutte le complesse realtà: la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali ma come patrimonio culturale che chi scrive consuma nell’atto della creazione.”
E perciò quale Siciliano? Quello di Catania o quello di Palermo? Quello di Siracusa o quello di Trapani? E perché non tutti assieme, il prodotto di tutti essi? L’Agrigentino, l’Ennese, il Messinese, il Nisseno, il Ragusano non sono pure essi Siciliano?