Non sei sovrano
nel castello di atomi e di carte
in cui vivi
ma quando pianti un fiore o un albero
ti bacia le dita la terra
sapida di vita in divenire.
I tanti come te,
maggioranza che vede, inerme. Continua a leggere
8 Dic
Non sei sovrano
nel castello di atomi e di carte
in cui vivi
ma quando pianti un fiore o un albero
ti bacia le dita la terra
sapida di vita in divenire.
I tanti come te,
maggioranza che vede, inerme. Continua a leggere
7 Ago
Ora la tua piccola anima a vegliarci,
in prima fila, dal paradiso dei gatti
-ché ce n’è uno, di sicuro, in qualche posto-
per ridiscendere poi, a tempo debito
in altro corpo.
Così minuta e bella, eri,
il pelo tartaruga,
l’affetto giocoso,
il tuo affidarti alle carezze
tra tante fusa; così minuta e cara
che grave, doloroso è stato
il distacco, dopo mesi di pena,
l’acuirsi della sofferenza;
così minuta e quasi ignota al mondo
tra le pareti della nostra, della tua casa.
Non la bravura, i meriti, la fama
-che non potevi avere, da gattina che eri-
ma la tua piccola, amatissima presenza
ti serberà per sempre in noi.
Sassari, 6.8.2022
5 Ago
SASSARI MEIA
Cara e bedda eri Sassari meia
acciaradda sobra un taurari di cantoni bianchi
curunada d’aribari e di giardhini
cumenti una regina,
ti begu, t’intendu
più t’abbaiddu
più mi pari vizina. Continua a leggere
12 Nov
Due parole su Paolo Messina
Di più non le avrebbe gradite.
Domenica è mancato il poeta, drammaturgo, saggista, uomo di cultura ad amplissimo raggio, Paolo Messina. Non me l’aspettavo, non ce l’aspettiamo mai dai grandi personaggi, li si vorrebbe eterni, ma non è così che funziona.
Non era malato, se non di quella immensa malinconia che era impastata col suo essere, tuttavia, non c’è più ed io ne sentirò la mancanza.
Persona non facile, sincero fino all’osso, talvolta scontroso, forse anche duro, ma talmente grande che il tempo trascorso ad ascoltarlo, sembrava sempre poco.
Ti strabiliava con la sua cultura, mai esibita, ti destabilizzava con quell’amarezza che traspariva, malgrado il suo “aplomb” da gentiluomo d’altri tempi, da frasi, parole, accenti.
Non farò un “coccodrillo”, non amo questo genere di omaggi e, sono certa che lui ne riderebbe, parlerò dell’uomo, con cui ho tante volte conversato, della sua grandezza, non abbastanza riconosciuta nella sua terra, ma accreditata altrove, persino all’estero. I suoi lavori teatrali, in specie “Il muro del silenzio” e “Le ricamatrici”, sono state ampiamente rappresentate in tutto il mondo, altre quattro ne ha scritte, fino al 1985, poi si è occupato solo dei suoi studi.
In poesia e parlo di poesia in dialetto, è stato un grande innovatore, sfondando il muro delle ovvietà e delle insulse cantilene che avevano impantanato (e, ahimè, ancora impantanano, cosa che lo faceva imbufalire), l’espressione poetica in siciliano. Non voglio infilarmi in un’indagine sul come, perché, con chi, Messina ha mosso i suoi passi nella direzione in cui li ha diretti e che non mutò mai per tutta la vita, questo, mi auguro che ci saranno altri a farlo.
Io voglio andare al di là di notizie che, con metodo e buona volontà, si possono trovare abbastanza facilmente, e mi richiamo, nella fattispecie, ad un attento saggio che il poeta e sicilianista Marco Scalabrino, ad esempio, gli ha dedicato, non molto tempo fa, desidero, piuttosto, esprimere quanto mi abbia gratificato l’apprezzamento che ha sempre mostrato per i miei scritti e le parole lusinghiere che non mi ha mai fatto mancare, lui, il “babau” di tanti e tanti, i libri che mi ha mandato e dedicato e che io tengo infinitamente, cari.
Era un momento di gioia pura quando, ogni tanto, a sera, squillava il telefono e, al mio “Pronto?” m’arrivava l’inconfondibile voce, con quella particolare cadenza che, poco o nulla, aveva di palermitano. Allora, si parlava di tutto, ma, soprattutto, ascoltavo.
Parlava di sé, della guerra, di quell’esperienza terribile, vissuta in un modo che ricordava il famoso film “Mediterraneo”, degli insulti e critiche feroci che provocò la sua visione della poesia, quasi fosse un iconoclasta, pochissimo del suo privato, solo della moglie tanto amata, di cui si occupava con abnegazione ammirevole, dei soggiorni in Francia (parlava un francese perfetto, oltre al tedesco), della vita di ogni giorno, la sua, la mia.
Non potrò farlo più, ma ciò che ha scritto continuerà a parlare, nei decenni e secoli a venire, ciò che mi ha detto, resterà nel mio cuore, finché avrò vita e mente per ricordare.
Parole semplici, quelle che usiamo per chi ci è veramente caro, così desidero omaggiare un grande e con questa sua poesia, che lui non ha tradotto e che mi permetto di tradurre io, scusandomi se non avrò saputo renderla al meglio, ma l’ho fatto all’impronta.
VERSI PI LA LIBIRTA’
Ammanittati lu ventu
si criditi
ca vi scummina li capiddi
lu ventu ca trasi dintra li casi
pi cunurtari lu chiantu.
Ammanittati lu chiantu
si criditi
di cuitari lu munnu
lu chiantu ca matura ‘ntra li petti
e sdirrubba li mura
e astuta li cannili.
Ammanittati la fami
si criditi
d’addifinnirivi li garruna
ma la fami nun havi vrazza
lu chiantu nun havi affruntu
lu ventu nun sapi sbarri.
Ammanittati l’ummiri
ca di notti vannu pi li jardina
a mettiri banneri supra li petri
e chiamanu a vuci forti li matri
ca nun hannu cchiù sonnu
e vigghianu darreri li porti.
Ammanittati li morti
si criditi.
*
Ammanettate il vento
se pensate
che vi scombini i capelli
il vento che entra nelle case
per consolare il pianto.
Ammanettate il pianto
se vi illudete
di chetare il mondo
il pianto che matura nei petti
e abbatte i muri
e spegne le candele.
Ammanettate la fame
se vi sta a cuore
di proteggervi i polpacci
ma la fame non ha braccia
il pianto non conosce vergogna
il vento non tollera barriere.
Ammanettate le ombre
che di notte vanno per i giardini
a mettere bandiere sulle pietre
e chiamano con voce forte le madri
che senza più sonno
vegliano dietro le porte.
Ammanettate i morti
se ne siete capaci.
1955. Paolo Messina aveva 32 anni.
29 Ott
Poesia versicolare, frammentata da una crescente interpunzione, sempre abitata dalla rima, spesso dedicata in calce al testo, raccolta sotto titoli per lo più enfatici (Le tese braccia, Migrazioni, Discendenze, Luna mutante, Amate assenze, Le aperte stanze, Vaganti stelle, Solo l’amore, Dalla finestra del cielo); paiono difetti, invece è una poesia che arriva come poche altre, che mantiene una disperata fedeltà alla vita, che riesce ad essere diario rimanendo poesia.
Ogni tanto affiora l’eco di altri poeti: l’ironia della Lamarque (Tu vedi in me l’eguale/ e io il diverso:/ per favore,/ potremmo amarci adesso?; non lo conosco/ e non lo conoscerò:/ questo è rassicurante – / non lo perderò; ritrovo intatto/ il vocabolario/ d’amore: mi viene/ da ridere/ di tutto cuore), la speculazione di Caproni (Se l’anima stanca/ si raccoglie, e ancora/ stanca, ancora/ stanca sceglie, è allora/ che passate le soglie,/ avremo diritto a/ Perfezione; il mio interlocutore/ è solo/ l’assoluto,/ solo con lui io fotto/ solo con lui/ mi illudo) e poi, immanenti o dedicatarii, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Sandro Penna, Dario Bellezza e le amiche Luciana Frezza, Amelia Rosselli e Giovanna Sicari, ‘ tre “compagne di poesia”…icone e muse silenziose ’, come annota Massimo Onofri nella sua accurata e intensa introduzione. Sono però moltissimi, in quest’opera omnia, i testi che brillano di luce propria, specialmente quelli amorosi e quelli del disincanto. (Antonio Fiori)
*
caro ho bisogno
dei tuoi ostacoli
dei tuoi tragitti
a ritroso dei tuoi
labirinti secolari,
troppo in fretta
da sola arriverei
fino al fondo. Caro
ho bisogno
dei tuoi passaggi
umettati dall’aurea
ammissione del bordo,
dei tuoi fraintendimenti
dei tuoi spaventi serrati,
troppo in fretta da sola
traverserei l’acre mondo
***
deve essere bello oggi
in montagna
qui piove
è l’ultimo giorno di marzo
alzo lo sguardo
a fianco del tetto
e la getto la palla dorata
che mima lo scettro, ci fosse
per caso un bosco di lato.
***
c’era un cielo di tulle
dietro villa Borghese,
era dicembre, la spesa
delle feste il cielo la
faceva lancinante, celeste.
***
Stringimi.
Al tuo petto io darò
corona.
Ti amerò per sempre.
Sprona il mio giudizio
al tuo.
Sei l’unico.
Tacendo, livelli
ogni diverso.
In te trovo parole
in te converso.
***
Mi piace questo baciarci
come bambini – questo
stare stretti
vicini –di nuovo
l’albero è verdino –
il pesco è in rosa –
il velame dei petali
coincide con le labbra –
chiedi una mano –
non sento patimenti –
la carità si sposa
ai nostri eventi –
***
torna prima
della morte
raccoglimi
di nuovo –
ti abbraccerò
più forte
ti convincerò
di quel che provo –
***
dorso scintilla
solidificata
meraviglia – briglia
tesa e resa – pietra
scavata in forma
di fontana – anima
non illesa – barlume
cigno sul fiume
– albergo – rifugio –
incavo cessazione –
ombra pianeta
nuova ripetuta
formazione – creta
argilla movimento –
suono – conto
fino a cento (cento
e cinquanta la gallina
canta – animala vagula
blandula – passa e scola
l’orto di un’infanzia)
***
(vita)
mi conquistano le date
migratorie – quel partire
in volo degli uccelli –
quei viaggi celesti –
sortilegio resistente –
istintivo – sapiente
del dirigersi – andare
quel venirci a trovare
pur senza conoscerci –
miracolata specie – immune
dalla certezza fatale
del tracciato –
*
Anna CASCELLA LUCIANI
Tutte le poesie
Gaffi, 2011
Introduzione di Massimo Onofri
*
Anna Cascella Luciani è nata a Roma nel 1941
26 Ott
E poi qualcuno va, tutto è più vuoto.
Se ci ritroveremo, sarà per non conoscerci,
diversi nei millenni, nella storia
faticosa di tutti; e intanto arretrano
i ghiacciai, s’inghiotte il mare
lo stretto, ed il passaggio
è già troppo profondo, impronunciabile,
sepolto nel passato il tuo viaggio. Se ci ritroveremo
non ci sarà memoria per me, insetto,
per te, fatto farfalla tropicale.
D’altra parte, lo sai, non ci vedremo
più. Nessun colombo verrà, nessuna pista
a ricucire lo strappo, la deriva
di morte.
*
Al castello
Dentro le case, al nocciolo dei giorni,
tira un vento impetuoso. Sulle pietre
lise della cucina scorre l’acqua, nella casa
scricchiola il legno, l’ora;
fuori, la notte, un uomo che non vedi
strascina il proprio sacco di fatica:
foglie secche. Ci osservano le cose, il loro immobile
resistere a quel vento. Alari, mensole.
Una scintilla pazza
imbocca la sua gola di camino
e poi scompare.
*
Le terre emerse
Là, dove nidificheranno molti uccelli.
Insisti nello scrutare a lungo il mare
diffidando del tuo sguardo disabile.
No, niente di maestoso, per fortuna.
Piuttosto una nuova calma, una diversa
geometria della spuma.
Si vorrebbe raggiungerle
proprio nei giorni peggiori, quando le onde
sembrano ghiaccio azzurro, il cielo pesa
più grigio, e unico scampo
rimane l’improbabile.
Se ci sono,
se brillano sotto il pelo
dell’acqua, inconosciute
eppure attese, fuori vista,
saranno lastre verdi di sasso,
lievemente inclinate.
L’emersione
si addebita alle forze
e alle frizioni che sconvolgono in assenza
di ogni altra possibilità.
Un lunghissimo periodo di mestizia
si può considerare inevitabile.
Avranno freddo anche loro, intirizzite,
e forse pioverà, ci sarà il vento.
dovremo accoglierle bene, riconoscerle,
scostare adagio il buio dai loro brividi,
convincerle dolcemente a rimanere.
La geografia e tutte le coordinate
cambieranno da sole, senza fretta;
ci vorrà un po’ di tempo per capire.
E poi non devi illuderti: vedremo
al massimo l’inizio,
la timida colonia dei molluschi, un po’ di bava
d’alga bagnata nelle scanalature,
la sosta di un gabbiano, un grido roco
che sembra senza senso o troppo fragile,
eppure si propaga si moltiplica.
I fiori, l’erba e le altre cose bellissime
verranno forse dopo, ma ci basta.
*
Arte della fuga
Resisti a tutto, fuggi. Fallo in nome
di niente. Lascia i nomi
ai nuovi costruttori di bandiere.
Dai, topolino: è ora.
Guarda: questo è un bosco, e questa
una lattina di carne. Questo è un fiume.
Dal ponte vedi una città bianchissima,
una polla di sangue raggrumato. E gli anni,
gli anni sui loro cavalli neri. La città
è fatta di calce e gesso, di silenzio.
Il passo è qui, la fuga un’altra strada.
*
A quelli che verranno
Allora voi, che volgerete
lo sguardo verso di noi dalle vette
dei vostri tempi splendidi, come chi scruta una valle
che non ricorda neppure di avere percorsa:
non ci vedrete, dietro lo schermo di nebbie.
Ma eravamo qui, a custodire la voce.
Non ogni giorno e non in ogni ora
del giorno; qualche volta, soltanto,
quando sembrava possibile
raccogliere un po’ di forza.
Ci chiudevamo la porta
dietro le spalle, abbandonando
le nostre case sontuose
e riprendevamo il cammino, senza meta.
*
Lettera da Nikolajevka
Sento urlare in tutti di dialetti, è un urlo solo
Nuto Revelli
Se c’è stata una colpa, credo,
dico di noi fuscelli,
è stata l’ignoranza. Il non potere,
il non voler capire. Trascinati
da un vento troppo forte, e ogni domanda
era domanda d’ansia: ci bastava
un urlo di risposta, un po’ di caldo.
Non solo allora, sempre, chi ne è uscito:
l’abitudine
a chinare la testa, o a rialzarla
solo in un moto d’ira rovinoso. Ma voi, adesso,
siete molto diversi? Te lo chiedo
davvero, te lo chiedo
sapendo già che non potrai rispondere,
che non vorrai rispondere temendo
di sbagliare, o di ferirmi
ancora. Ma è questa
l’unica nostra speranza, brucia e insiste
qui, sotto neve e fango, sola brace.
Altri capirono, forse, non noi: colpa e condanna,
ecco l’eredità. Questa manciata
di terra magra e povera, un passato
di fumo. Raccoglietelo nel palmo di una mano,
fate fiorire qualcosa di non guasto,
se può crescere ancora. Diffidate
d’ogni risposta. Con fiducia e sospetto
riscattateci. Capite anche per noi, se lo potete.
Fabio PUSTERLA
LE TERRE EMERSE
POESIE SCELTE 1985-2008
Einaudi, 2009
18 Ott
Da: «Manto di vita» (LietoColle)
Spiegazione di un giorno
Il giorno che saltella
lungo le impronte delle mie scarpe;
il giorno che saluta frantumato,
quasi appostato
fra le dita.
Ogni minuto è fluido di rumori:
sbattono le ali
contro pannelli d’aria. L’impatto
vibra di scherno:
è un lazzo di sdegno
voluto dalla mia notte.
*
Confronto
S’alza al mattino
un fumo di tigri
dalle iridi aperte,
in campagna;
un’espressione grinzosa
rimbocca la faccia
dei contadini.
E mentre il fiume
s’accalca ai loro piedi,
si spulciano gli occhi
scrupolosamente
trovandovi affogate
zampette di ragno.
Io invece,
montanaro del cuore che batte,
m’inerpico per un letto castano
di mie pietruzze in salita.
Poi, di sera,
– tornando a zonzo verso casa –
sembro un fantasma nero che,
appuntito come un ago,
viaggio sui trampoli del buio.
*
Da: “Gli intercalari del silenzio” – silloge inedita in quattro parti-
Filosofia
Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio
che smette, ogni tanto,
di pronunciare il vuoto.
Allora qualche indizio di materia
deforma l’aria,
descrivendo le pause del nulla
prima che il silenzio
si richiuda.
(Le mani s’infrangono
contro un gesto incompiuto)
*
Il nulla
I miei sogni leggeri, scanalati
fra ombre creole di tenera luce
e foglie di facciata
(ovvero blande
come ballerine
morse dal vento).
E quando l’incubo arriva
il nulla esce dal suo fuori
per annuire agli occhi del presente;
«io sono» – dice –
«un barbaglio di notti camuse
e la pioggia di quel che verrà:
del futuro mi rivelo
l’unica, insomma,
l(’)abile traccia!».
*
Nausea
Morbido silenzio, soffice
come una preghiera del sonno.
Il buio che adora fruscii e parole:
il buio, affannato dal mio respiro,
può solo accarezzare la
nausea di questa vita.
Nel giorno,
sputo della notte,
fiori freddi
come steli di pioggia.
Un’orma di luce
imbavaglia lo spazio.
*
Da: “I sottomultipli delle ore” -silloge inedita-
Trattatello
PREFAZIONE :
le parole seguenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Il silenzio è un’isteria di solitudine
che genera e accumula:
prodotti temporali,
energie cinetiche,
reazioni di gesti a catena.
I sogni, inseriti nella rassegnazione
come in un programma di noia pianificata,
sono gli arti di questo silenzio;
o, se preferiamo,
gli organuli ciechi del silenzio
che lavorano a tastoni
dentro il suo liquido citoplasmico.
Il silenzio può anche essere
la cellula monocorde
di un sentimento spaventato,
di un amore rappreso,
di un guanto scucito:
in tal caso
trasforma la solitudine
nella raggiera cerimoniosa
d’una nausea che procede,
maestosa,
con moto uniformemente accelerato.
(Si registra un’accelerazione a sbalzi
solo quando
un’effervescente disperazione
s’intromette con scatti sismici
a deviare il corso
dell’accelerazione stessa).
Per concludere,
l’evoluzione della nausea
può secernere un vuoto,
avente più o meno
le caratteristiche della morte;
o germogliare per gemmazione
quella strana forma di vita
identificata col nome di indifferenza,
la quale risulta essere (da approfondite supposizioni)
il chiasmo di paura e odio.
POSTFAZIONE:
le parole precedenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Ogni allusione
a sentimenti e/o fatti reali
è voluta
silenziosamente.
*
Pietro Pancamo (1972) coordina il portale «L(’)abile traccia» (citato in un volume della Zanichelli); è redattore del blog collettivo «Viadellebelledonne», nonché direttore editoriale e conduttore di un programma che, intitolato Poesia, l(’)abile traccia dell’universo, va in onda ogni giovedì alle 22:30 su Pulsante Radio Web, emittente digitale di Milano.
È autore di Manto di vita (LietoColle, 2005), una silloge di versi che ha suscitato l’interesse di Giancarlo Pontiggia. Compare nelle antologie Poetando. L’uomo della notte (Aliberti editore, 2009) e Mentre un’altra pagina si volta (Giulio Perrone Editore, 2010) curate rispettivamente da Maurizio Costanzo e Walter Mauro.
Fra le riviste da cui è stato pubblicato, talora in inglese, o recensito figurano «La poesia e lo spirito», «Tuttolibri» (inserto de «La Stampa»), «Poesia» (Crocetti Editore), «Poesia» (blog del canale televisivo Rai News), «Scriptamanent» (Rubbettino Editore), «Gradiva», «Atelier», «La Mosca di Milano», «Stilos», «El Ghibli», «Corpo12», «Lettera.com», «Subway Letteratura», «Sagarana», «Il Paradiso degli Orchi», «BooksBrothers», «TerraNullius», «Progetto Babele», «Tangram», «InFonòpoli», «Filling Station» (quadrimestrale canadese) e «Snow Monkey» (periodico statunitense).
Recensioni a sua firma sono uscite sia nel sito della rivista «L’Indice dei libri del mese», che in quello dell’edizione fiorentina del «Corriere della Sera».
17 Set
Da:
un’altra,
un’altra volta
.IV
Fu una stagione in cui credevo
che le parole non mi bastassero.
Da allora ne ho imparate di nuove, ne ho pure inventate.
Oggi che provo scipito, e non l’avrei mai immaginato possibile, quel senso
trasecolato d’amore che sentivo diffuso in me per sempre,
sono voci a vuoto.
La menzogna più indecifrabile mi ha assalito, e scarnato – le parole
non servono più per gli oggetti, peggio quelli che non si toccano con carne
l’attimo in fuga mi interessa meno del vecchio infinito, nella scrittura
ne abbozzo un contorno una volta ma la volta dopo rinuncio e non ho rimpianti
in queste ore dovevo essere altrove, sono qui
, quando poi sarò altrove, magari per un oggetto più bello
che ho visto alla fiera, dovrò lasciare qui la scrivania
disabitata – vivere è moltiplicare le proprie assenze
ogni volta che si deve scegliere se partire o restare.
soltanto la morte è l’affermazione della presenza: ho, esistito.
eppure, come un bambino che vuol fare tutto da solo
mi lascio ad immaginare che la prossima stagione accadrà qualcosa
*
: III
Anche alcuni insetti hanno sbagliato stagione,
si sono svegliati in questo fragore di gennaio
ronzando presto contro i vetri dell’aula.
hanno insistito che mi affacciassi:
allora mi impressionò una polvere di sole che stemperava
il giardino in un bigio pastello
e la memoria di chi ci ha lasciato.
credevo che fosse primavera. Era invece un’altra
la presenza, e io segnato da quei sensi brulicanti
che mi avevano accennato a breve distanza
Non loro, ma compiangerei noi per queste requiemeternam,
poche
*
,
guardando alcune fotografie
con G** in università
non è vero che non c’è stagione
con colori più belli dell’autunno –
c’è una stagione che ha colori
ancora più belli e non è l’estate
né primavera né inverno
*
Da:
un’altra volta #5 (tavole d’espansione)
: I, 1
In primavera mi si sputtana il sistema immunitario
poco ossigeno permea fra le sbarre della gabbia toracica
quando le brezze pazzerelle si contaminano
di polveri e pollini sottili
mi alzo, mi sdraio, in preda alla paura di schiattare aggrappato
alla bocchetta del cortisone che mi corrompe lo scheletro
eppure
eppure
puntuale ai primi scorci
di vie soleggiate a gennaio
ai primi tramonti che
riversano nell’aria tersa
tutti i gradienti fra il giallo e il magenta
l’umore che s’addensa nell’addome fugge in prospettiva là
a quanto si potrà fare nel golfo della stagione che si schiude all’estate
Poi rammento la ciclicità del malanno che là mi attende
e tra i due estremi dell’arco, l’oggi agognato e il domani scomodo,
di tanto in tanto mi si affaccia l’elastico
varianti per “golfo”: vallo, catino
*
guardando alcune lastre delle mie vertebre
con un giovane dottore in una clinica
per sempre
il fisiatra mi ha detto
che questi esercizi dovrò
farli per sempre. Nella voce
aveva un che di dispiaciuto
, qualunque movimento
mi aiuti a vedere più a lungo amabile questo cielo che dovrò lasciare:
è vero, uomo di scienza, lo ripeterò per sempre, magari non in fretta,
prima di andarmene a dormire dopo
aver consumato la mia scienza quotidiana
o con in pancia il miele centellinato del mattino
o raccogliendo conchiglie
o sulla panchina di una stazione
(qui
centellinare il miele del mattino
raccogliere conchiglie
stare sulla panchina di una stazione
versi gesti omaggi faremo un Gran Finale al poetese unto e bisunto al più
scapicollato versificare occasionale pulsionale sciamannato
le carte cambiate non si rinserrano – a ritroso quante altre potrei tornare
a frullare a frollare. Ma no, per ora mi do pace.
*
Da: “[…] alle mie dislocazioni”
[tema]
ogni volta che riparto, cielo scremato o nebbia,
ritroverò i parchi dove mi sono disteso
anche il randagio conosce insenature fisse
nel suo andirivieni lungo la circonvallazione
le valli sparse dei teneri occhi
ritorno a quei luoghi per pregarli intatti
e se li desideri vissuti riconosceremo
la strada per una passeggiata in centro
*
[5]
sono stordito dall’immenso che si acquatta
nel palmo di un uomo; non riesco a rileggere
ogni parola che ho sottratto alla necessità
della consunzione se non mi inceppo a leggere
una vita da un’anatomia plantare – incespichi
malattie stati psichici topografia di callosità
eppure nessun fuoco è più ignoto ai chiromanti
e agli oroscopi di quello che sfuoca sul vespro
*
[19]
E’ così che ci vedo: piccoli in una
cartolina: due alberi si sono sformati
per anni alle raffiche, su un fianco,
ma le punte dei rami inorgogliscono di foglia;
due colline hanno ceduto molta argilla
e roccia al pianoro, ma sono più dolci
E’ così che ci vedo: il recinto è alle spalle
e i rami spogli per l’arte dei fiori.
*
Mario BERTASA
TIRO CON L’ARCO
LAMPI DI STAMPA (Milano, 2011)
*
Strumento antico e ricco di metafore, l’arco: tensione, resistenza, concentrazione, mira, volo, centratura dell’obiettivo. Ognuno ha il suo, di arco, come quello di Ulisse, in grado lui soltanto di (im-)piegare ai suoi obiettivi. Così la vita di ogni giorno ("e tra i due estremi dell'arco, l’oggi agognato e il domani scomodo”), e la scrittura, piegando e vincendo la resistenza della non-vita, dell’inerzia, della non-scrittura, della non-bellezza, nella tensione del fine o del sogno da realizzare?
L’arte, in questo caso la letteratura, nel suo farsi richiede inevitabilmente una tensione, per vincere la resistenza della lingua – sempre più consunta e povera – per superare i déja vu dei discorsi, delle immagini, delle descrizioni e dei suoni abusati.
Il bel libro di poesia di Mario Bertasa, “Tiro con l’arco”, rende evidente questa tensione che anima ogni ricerca, coglibile anche sul piano formale nella titolazione delle sezioni e dei testi, nell’interpunzione originale: Continue to search. (John Cage), recita l’esergo che apre la raccolta.
Il racconto di giorni e di stagioni, di un vissuto personale ma declinabile su un piano generazionale, ma non solo, fa da sfondo a queste poesie distese che vedono alternarsi stati d’animo, meditazioni e quadri descrittivi; nel tempo dilatato e assorto che solo l’arte può creare, ben altra cosa da quello fuggevole della quotidianità; e del resto: “l’attimo in fuga mi interessa meno del vecchio infinito”. L’uso della prima persona e gli inserti di vissuto (“il fisiatra mi ha detto/che questi esercizi dovrò/farli per sempre”; “In primavera mi si sputtana il sistema immunitario/poco ossigeno permea fra le sbarre della gabbia toracica/quando le brezze pazzerelle si contaminano/di polveri e pollini sottili/mi alzo, mi sdraio, in preda alla paura di schiattare aggrappato/alla bocchetta del cortisone che mi corrompe lo scheletro”) contribuiscono a rendere viscerale e persuasiva questa scrittura, preludendo a versi che fissano pensieri (“qualunque movimento/mi aiuti a vedere più a lungo amabile questo cielo che dovrò lasciare:/è vero, uomo di scienza, lo ripeterò per sempre, magari non in fretta,/prima di andarmene a dormire dopo/aver consumato la mia scienza quotidiana”) e squarci di bellezza (“eppure/puntuale ai primi scorci/di vie soleggiate a gennaio/ai primi tramonti che/riversano nell’aria tersa/tutti i gradienti fra il giallo e il magenta”). Meditazione e bellezza, dunque, s’intrecciano nelle delicate descrizioni della natura, e aleggia su tutto un respiro metafisico (“sono stordito dall’immenso che si acquatta/nel palmo di un uomo;”; “vivere è moltiplicare le proprie assenze/ogni volta che si deve scegliere se partire o restare./soltanto la morte è l’affermazione della presenza: ho, esistito.”; “credevo che fosse primavera. Era invece un’altra/la presenza, e io segnato da quei sensi brulicanti/che mi avevano accennato a breve distanza//Non loro, ma compiangerei noi per queste requiemeternam,//poche”).
“Un libro compiuto”, questo di Mario Bertasa, come si dice giustamente in copertina, “che ad ogni pagina però sembra ancora volersi espandere, saltar fuori, riprendere la riflessione, tornare indietro, un libro liquido…”, ragion per cui le riflessioni anzidette non hanno alcuna pretesa definitoria. gn
20 Ago
Quando non eravamo
La terra era bellissima, conoscevo ogni appezzamento d’er-
ba, l’area dei formicai come un soglia
di solitudine prima
del bosco e serpentine di calore terrestre e venti in rota-
zione.
Camminavo col passo e col pensiero quando comincia a
scendere
dalle montagne e avvicina la cronaca domestica ed era alta
la probabilità che avrei ucciso, ora non dubitavo che avrei
ucciso
per venire da te, nascondendo nel petto un lago sistematico
di pianto.
Qui niente è lieve, siamo larve
dolorose – eppure
alla sventagliata di schegge
segue l’istinto verso la salvezza
della testa. Altrimenti osserviamo che la vita ricolma gli
abissi
che si sono aperti
nel corpo con filamenti rossi
e con la colla della granulazione:
le proteine fondono e si sdoppiano
in mute cuciture prenatali
tra i bordi di lesioni provocate
da uno sgomento
sproporzionato alla fragilità del corpo.
Ma la natura conserva per noi
tanta dolcezza e tanta
lungimiranza da non avere occhi per il dolore e quasi
pazza d’amore perdutamente incatena
cellula a cellula sopra la circostanza, ogni volta il suo ago
ci ricrea mentre ci trafigge. La vita cresce contro l’imme-
diata
volontà. Dico dell’anima
e del corpo dico
che quasi niente
uccide e ciascuno comprende la sua soglia.
Uomini e donne sono alberi degni di innalzarsi nei boschi
colpiti da immortali
raggi di sole, ponti d’argento con cifre rosse inclinati in tut-
te le direzioni e nonostante
l’epidemia delle trincee, sale al colmo calcinato della Viola
Magna
celeste una lauda
su lontananza, amore e tradimento
perché ognuno porta nel petto la torcia bianca di un nome,
la meta.
Le fiamme consumavano il sottobosco e i simulacri in pie-
tra. Nessuno
-prima-
aveva nel cuore una parola
per significare guerra, eppure la violenza era l’alfabeto
di tutte le mani: pietra
focaia-acciarino-miccia-gusci di mine.
Depongo stanotte nelle tue mani l’insieme delle mie ossa
come una candela che rimane accesa
sotto la direzione del tuo amore.
Alcune venivano per identificare
corpi ai quali avevano consegnato il respiro
dell’unica notte
d’amore e con esso
la bocca da fuoco di tutte le armi.
Sei caduto e cospargi la terra
del bruno che è colato dalle semine
e dalle stimme
addominali. Solo tu
sai che sfioravo il cuore con la bocca, tanto
era fragile il costato sotto la percussione delle parole:
senza neanche essere vicini eravamo il solco
e la frana – il tremito
e la scossa inumana della struttura
sotto un urto che non si può ripetere e adesso
tu non sei più
circonfuso di luce sei freddo
e la macerazione del tuo corpo
ha il suo corrispettivo nel mio cuore che si va spegnendo e
non
dà quasi più sole e porterà fino alla fine del mondo
la cicatrice immatura del tuo nome
poi che avrò conosciuto con la vita intera
quello che insieme sapevamo.
La contrazione e il biancore degli scomparsi, il loro corpo
coperto di lacune con lo sguardo che termina
a valle nella terra vangata. L’ultimo della fila
innalza i muri della casa con un’occhiata
che è quasi terra e sulla soglia
ricorda lei già quasi inginocchiata
per il dolore – e per l’acuto e per il profondo
e a causa dell’altezza
del suo dolore, lei si è avviluppata
come un tralcio a un cuore lontanissimo
dal sedimento molle nel loro petto d’angeli, lontanissima
dai pilastri centrali delle loro ossa
rivolte come assi
verso il centro perfetto
del cielo. Niente andava perduto, nemmeno un petalo ca-
deva
inosservato, eravamo
Attenzione-e il mondo era bellissimo
e chiaro. E la mia larva adesso
non sa morire, è già terra
e non muore, la carcassa non schianta per lo scherno i suoi
lombi
sotto i piedi del bosco fatto sangue, nel bosco
azzurro che abbiamo versato dal petto mentre ci chiama-
vamo.
Le armate degli scomparsi hanno passato la frontiera
a est, grattano le pareti delle celle-diseredati
e lievi
con un cuore caldissimo: ora
vediamo con i nostri occhi le nostre case
abitate da altri, vediamo l’arroganza di altre mani
sopra quello che per eccesso d’amore non osammo nem-
meno
sfiorare e vi seguiamo, vi seguiamo sempre
sotto forma di un niente senza voce. I nostri corpi
sono evaporazioni del superfluo
dalla cella del mondo e crediamo di essere evidenti
e siamo inafferrabili e invisibili
come un cielo velato che per amore porta le sue lacrime.
Roma, 13 febbraio 2008
*
Maria Grazia CALANDRONE
SULLA BOCCA DI TUTTI
Crocetti Editore (Milano, 2010)