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Fabio PUSTERLA – Le terre emerse

E poi qualcuno va, tutto è più vuoto.

Se ci ritroveremo, sarà per non conoscerci,

diversi nei millenni, nella storia

faticosa di tutti; e intanto arretrano

i ghiacciai, s’inghiotte il mare

lo stretto, ed il passaggio

è già troppo profondo, impronunciabile,

sepolto nel passato il tuo viaggio. Se ci ritroveremo

non ci sarà memoria per me, insetto,

per te, fatto farfalla tropicale.

D’altra parte, lo sai, non ci vedremo

più. Nessun colombo verrà, nessuna pista

a ricucire lo strappo, la deriva

di morte.

*

Al castello

Dentro le case, al nocciolo dei giorni,

tira un vento impetuoso. Sulle pietre

lise della cucina scorre l’acqua, nella casa

scricchiola il legno, l’ora;

fuori, la notte, un uomo che non vedi

strascina il proprio sacco di fatica:

foglie secche. Ci osservano le cose, il loro immobile

resistere a quel vento. Alari, mensole.

Una scintilla pazza

imbocca la sua gola di camino

e poi scompare.

*

Le terre emerse

Là, dove nidificheranno molti uccelli.

Insisti nello scrutare a lungo il mare

diffidando del tuo sguardo disabile.

No, niente di maestoso, per fortuna.

Piuttosto una nuova calma, una diversa

geometria della spuma.

Si vorrebbe raggiungerle

proprio nei giorni peggiori, quando le onde

sembrano ghiaccio azzurro, il cielo pesa

più grigio, e unico scampo

rimane l’improbabile.

Se ci sono,

se brillano sotto il pelo

dell’acqua, inconosciute

eppure attese, fuori vista,

saranno lastre verdi di sasso,

lievemente inclinate.

L’emersione

si addebita alle forze

e alle frizioni che sconvolgono in assenza

di ogni altra possibilità.

Un lunghissimo periodo di mestizia

si può considerare inevitabile.

Avranno freddo anche loro, intirizzite,

e forse pioverà, ci sarà il vento.

dovremo accoglierle bene, riconoscerle,

scostare adagio il buio dai loro brividi,

convincerle dolcemente a rimanere.

La geografia e tutte le coordinate

cambieranno da sole, senza fretta;

ci vorrà un po’ di tempo per capire.

E poi non devi illuderti: vedremo

al massimo l’inizio,

la timida colonia dei molluschi, un po’ di bava

d’alga bagnata nelle scanalature,

la sosta di un gabbiano, un grido roco

che sembra senza senso o troppo fragile,

eppure si propaga si moltiplica.

I fiori, l’erba e le altre cose bellissime

verranno forse dopo, ma ci basta.

*

Arte della fuga

Resisti a tutto, fuggi. Fallo in nome

di niente. Lascia i nomi

ai nuovi costruttori di bandiere.

Dai, topolino: è ora.

Guarda: questo è un bosco, e questa

una lattina di carne. Questo è un fiume.

Dal ponte vedi una città bianchissima,

una polla di sangue raggrumato. E gli anni,

gli anni sui loro cavalli neri. La città

è fatta di calce e gesso, di silenzio.

Il passo è qui, la fuga un’altra strada.

*

A quelli che verranno

Allora voi, che volgerete

lo sguardo verso di noi dalle vette

dei vostri tempi splendidi, come chi scruta una valle

che non ricorda neppure di avere percorsa:

non ci vedrete, dietro lo schermo di nebbie.

Ma eravamo qui, a custodire la voce.

Non ogni giorno e non in ogni ora

del giorno; qualche volta, soltanto,

quando sembrava possibile

raccogliere un po’ di forza.

Ci chiudevamo la porta

dietro le spalle, abbandonando

le nostre case sontuose

e riprendevamo il cammino, senza meta.

*

Lettera da Nikolajevka

Sento urlare in tutti di dialetti, è un urlo solo

Nuto Revelli

Se c’è stata una colpa, credo,

dico di noi fuscelli,

è stata l’ignoranza. Il non potere,

il non voler capire. Trascinati

da un vento troppo forte, e ogni domanda

era domanda d’ansia: ci bastava

un urlo di risposta, un po’ di caldo.

Non solo allora, sempre, chi ne è uscito:

l’abitudine

a chinare la testa, o a rialzarla

solo in un moto d’ira rovinoso. Ma voi, adesso,

siete molto diversi? Te lo chiedo

davvero, te lo chiedo

sapendo già che non potrai rispondere,

che non vorrai rispondere temendo

di sbagliare, o di ferirmi

ancora. Ma è questa

l’unica nostra speranza, brucia e insiste

qui, sotto neve e fango, sola brace.

Altri capirono, forse, non noi: colpa e condanna,

ecco l’eredità. Questa manciata

di terra magra e povera, un passato

di fumo. Raccoglietelo nel palmo di una mano,

fate fiorire qualcosa di non guasto,

se può crescere ancora. Diffidate

d’ogni risposta. Con fiducia e sospetto

riscattateci. Capite anche per noi, se lo potete.

Fabio PUSTERLA

LE TERRE EMERSE

POESIE SCELTE 1985-2008

Einaudi, 2009

Pietro PANCAMO – Poesie

Midnight-Sun-Norway-II

Da: «Manto di vita» (LietoColle)

Spiegazione di un giorno

Il giorno che saltella

lungo le impronte delle mie scarpe;

il giorno che saluta frantumato,

quasi appostato

fra le dita.

Ogni minuto è fluido di rumori:

sbattono le ali

contro pannelli d’aria. L’impatto

vibra di scherno:

è un lazzo di sdegno

voluto dalla mia notte.

*

Confronto

S’alza al mattino

un fumo di tigri

dalle iridi aperte,

in campagna;

un’espressione grinzosa

rimbocca la faccia

dei contadini.

E mentre il fiume

s’accalca ai loro piedi,

si spulciano gli occhi

scrupolosamente

trovandovi affogate

zampette di ragno.

Io invece,

montanaro del cuore che batte,

m’inerpico per un letto castano

di mie pietruzze in salita.

Poi, di sera,

– tornando a zonzo verso casa –

sembro un fantasma nero che,

appuntito come un ago,

viaggio sui trampoli del buio.

*

Da: “Gli intercalari del silenzio” – silloge inedita in quattro parti-

Filosofia

Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio

che smette, ogni tanto,

di pronunciare il vuoto.

Allora qualche indizio di materia

deforma l’aria,

descrivendo le pause del nulla

prima che il silenzio

si richiuda.

(Le mani s’infrangono

contro un gesto incompiuto)

*

Il nulla

I miei sogni leggeri, scanalati

fra ombre creole di tenera luce

e foglie di facciata

(ovvero blande

come ballerine

morse dal vento).

E quando l’incubo arriva

il nulla esce dal suo fuori

per annuire agli occhi del presente;

«io sono» – dice –

«un barbaglio di notti camuse

e la pioggia di quel che verrà:

del futuro mi rivelo

l’unica, insomma,

l(’)abile traccia!».

*

Nausea

Morbido silenzio, soffice

come una preghiera del sonno.

Il buio che adora fruscii e parole:

il buio, affannato dal mio respiro,

può solo accarezzare la

nausea di questa vita.

Nel giorno,

sputo della notte,

fiori freddi

come steli di pioggia.

Un’orma di luce

imbavaglia lo spazio.

*

Da: “I sottomultipli delle ore” -silloge inedita-

Trattatello

PREFAZIONE :

le parole seguenti

sono un fango di cellule nervose,

tenute insieme dal silenzio.

Il silenzio è un’isteria di solitudine

che genera e accumula:

prodotti temporali,

energie cinetiche,

reazioni di gesti a catena.

I sogni, inseriti nella rassegnazione

come in un programma di noia pianificata,

sono gli arti di questo silenzio;

o, se preferiamo,

gli organuli ciechi del silenzio

che lavorano a tastoni

dentro il suo liquido citoplasmico.

Il silenzio può anche essere

la cellula monocorde

di un sentimento spaventato,

di un amore rappreso,

di un guanto scucito:

in tal caso

trasforma la solitudine

nella raggiera cerimoniosa

d’una nausea che procede,

maestosa,

con moto uniformemente accelerato.

(Si registra un’accelerazione a sbalzi

solo quando

un’effervescente disperazione

s’intromette con scatti sismici

a deviare il corso

dell’accelerazione stessa).

Per concludere,

l’evoluzione della nausea

può secernere un vuoto,

avente più o meno

le caratteristiche della morte;

o germogliare per gemmazione

quella strana forma di vita

identificata col nome di indifferenza,

la quale risulta essere (da approfondite supposizioni)

il chiasmo di paura e odio.

POSTFAZIONE:

le parole precedenti

sono un fango di cellule nervose,

tenute insieme dal silenzio.

Ogni allusione

a sentimenti e/o fatti reali

è voluta

silenziosamente.

*

Pietro Pancamo (1972) coordina il portale «L(’)abile traccia» (citato in un volume della Zanichelli); è redattore del blog collettivo «Viadellebelledonne», nonché direttore editoriale e conduttore di un programma che, intitolato Poesia, l(’)abile traccia dell’universo, va in onda ogni giovedì alle 22:30 su Pulsante Radio Web, emittente digitale di Milano.

È autore di Manto di vita (LietoColle, 2005), una silloge di versi che ha suscitato l’interesse di Giancarlo Pontiggia. Compare nelle antologie Poetando. L’uomo della notte (Aliberti editore, 2009) e Mentre un’altra pagina si volta (Giulio Perrone Editore, 2010) curate rispettivamente da Maurizio Costanzo e Walter Mauro.

Fra le riviste da cui è stato pubblicato, talora in inglese, o recensito figurano «La poesia e lo spirito», «Tuttolibri» (inserto de «La Stampa»), «Poesia» (Crocetti Editore), «Poesia» (blog del canale televisivo Rai News), «Scriptamanent» (Rubbettino Editore), «Gradiva», «Atelier», «La Mosca di Milano», «Stilos», «El Ghibli», «Corpo12», «Lettera.com», «Subway Letteratura», «Sagarana», «Il Paradiso degli Orchi», «BooksBrothers», «TerraNullius», «Progetto Babele», «Tangram», «InFonòpoli», «Filling Station» (quadrimestrale canadese) e «Snow Monkey» (periodico statunitense).

Recensioni a sua firma sono uscite sia nel sito della rivista «L’Indice dei libri del mese», che in quello dell’edizione fiorentina del «Corriere della Sera». 

Mario BERTASA – Tiro con l’arco

mario bertasa

Da:

un’altra,

                       un’altra volta

.IV

Fu una stagione in cui credevo

che le parole non mi bastassero.

Da allora ne ho imparate di nuove, ne ho pure inventate.

Oggi che provo scipito, e non l’avrei mai immaginato possibile, quel senso

trasecolato d’amore che sentivo diffuso in me per sempre,

sono voci a vuoto.

La menzogna più indecifrabile mi ha assalito, e scarnato – le parole

non servono più per gli oggetti, peggio quelli che non si toccano con carne

l’attimo in fuga mi interessa meno del vecchio infinito, nella scrittura

ne abbozzo un contorno una volta ma la volta dopo rinuncio e non ho rimpianti

in queste ore dovevo essere altrove, sono qui

, quando poi sarò altrove, magari per un oggetto più bello

che ho visto alla fiera, dovrò lasciare qui la scrivania

disabitata – vivere è moltiplicare le proprie assenze

ogni volta che si deve scegliere se partire o restare.

soltanto la morte è l’affermazione della presenza: ho, esistito.

eppure, come un bambino che vuol fare tutto da solo

mi lascio ad immaginare che la prossima stagione accadrà qualcosa

*

: III

Anche alcuni insetti hanno sbagliato stagione,

si sono svegliati in questo fragore di gennaio

ronzando presto contro i vetri dell’aula.

hanno insistito che mi affacciassi:

allora mi impressionò una polvere di sole che stemperava

il giardino in un bigio pastello

e la memoria di chi ci ha lasciato.

credevo che fosse primavera. Era invece un’altra

la presenza, e io segnato da quei sensi brulicanti

che mi avevano accennato a breve distanza

Non loro, ma compiangerei noi per queste requiemeternam,

poche

*

,

guardando alcune fotografie

con G** in università

non è vero che non c’è stagione

con colori più belli dell’autunno –

c’è una stagione che ha colori

ancora più belli e non è l’estate

né primavera né inverno

*

Da:

un’altra volta #5 (tavole d’espansione)

: I, 1

In primavera mi si sputtana il sistema immunitario

poco ossigeno permea fra le sbarre della gabbia toracica

quando le brezze pazzerelle si contaminano

di polveri e pollini sottili

mi alzo, mi sdraio, in preda alla paura di schiattare aggrappato

alla bocchetta del cortisone che mi corrompe lo scheletro

eppure

eppure

puntuale ai primi scorci

di vie soleggiate a gennaio

ai primi tramonti che

riversano nell’aria tersa

tutti i gradienti fra il giallo e il magenta

l’umore che s’addensa nell’addome fugge in prospettiva là

a quanto si potrà fare nel golfo della stagione che si schiude all’estate

Poi rammento la ciclicità del malanno che là mi attende

e tra i due estremi dell’arco, l’oggi agognato e il domani scomodo,

di tanto in tanto mi si affaccia l’elastico

varianti per “golfo”: vallo, catino

*

guardando alcune lastre delle mie vertebre

con un giovane dottore in una clinica

per sempre

il fisiatra mi ha detto

che questi esercizi dovrò

farli per sempre. Nella voce

aveva un che di dispiaciuto

, qualunque movimento

mi aiuti a vedere più a lungo amabile questo cielo che dovrò lasciare:

è vero, uomo di scienza, lo ripeterò per sempre, magari non in fretta,

prima di andarmene a dormire dopo

aver consumato la mia scienza quotidiana

o con in pancia il miele centellinato del mattino

o raccogliendo conchiglie

o sulla panchina di una stazione

(qui

centellinare il miele del mattino

raccogliere conchiglie

stare sulla panchina di una stazione

versi gesti omaggi faremo un Gran Finale al poetese unto e bisunto al più

scapicollato versificare occasionale pulsionale sciamannato

le carte cambiate non si rinserrano – a ritroso quante altre potrei tornare

a frullare a frollare. Ma no, per ora mi do pace.

*

Da: “[…] alle mie dislocazioni”

[tema]

ogni volta che riparto, cielo scremato o nebbia,

ritroverò i parchi dove mi sono disteso

anche il randagio conosce insenature fisse

nel suo andirivieni lungo la circonvallazione

le valli sparse dei teneri occhi

ritorno a quei luoghi per pregarli intatti

e se li desideri vissuti riconosceremo

la strada per una passeggiata in centro

*

[5]

sono stordito dall’immenso che si acquatta

nel palmo di un uomo; non riesco a rileggere

ogni parola che ho sottratto alla necessità

della consunzione se non mi inceppo a leggere

una vita da un’anatomia plantare – incespichi

malattie stati psichici topografia di callosità

eppure nessun fuoco è più ignoto ai chiromanti

e agli oroscopi di quello che sfuoca sul vespro

*

[19]

E’ così che ci vedo: piccoli in una

cartolina: due alberi si sono sformati

per anni alle raffiche, su un fianco,

ma le punte dei rami inorgogliscono di foglia;

due colline hanno ceduto molta argilla

e roccia al pianoro, ma sono più dolci

E’ così che ci vedo: il recinto è alle spalle

e i rami spogli per l’arte dei fiori.

*

Mario BERTASA

TIRO CON L’ARCO

LAMPI DI STAMPA (Milano, 2011)

*

Strumento antico e ricco di metafore, l’arco: tensione, resistenza, concentrazione, mira, volo, centratura dell’obiettivo. Ognuno ha il suo, di arco, come quello di Ulisse, in grado lui soltanto di (im-)piegare ai suoi obiettivi. Così la vita di ogni giorno ("e tra i due estremi dell'arco, l’oggi agognato e il domani scomodo”), e la scrittura, piegando e vincendo la resistenza della non-vita, dell’inerzia, della non-scrittura, della non-bellezza, nella tensione del fine o del sogno da realizzare?

L’arte, in questo caso la letteratura, nel suo farsi richiede inevitabilmente una tensione, per vincere la resistenza della lingua  – sempre più consunta e povera – per superare i déja vu dei discorsi, delle immagini, delle descrizioni e dei suoni abusati.

Il bel libro di poesia di Mario Bertasa, “Tiro con l’arco”, rende evidente questa tensione che anima ogni ricerca, coglibile anche sul piano formale nella titolazione delle sezioni e dei testi, nell’interpunzione originale: Continue to search. (John Cage), recita l’esergo che apre la raccolta.

Il racconto di giorni e di stagioni, di un vissuto personale ma declinabile su un piano generazionale, ma non solo, fa da sfondo a queste poesie distese che vedono alternarsi stati d’animo, meditazioni e quadri descrittivi; nel tempo dilatato e assorto che solo l’arte può creare, ben altra cosa da quello fuggevole della quotidianità; e del resto: “l’attimo in fuga mi interessa meno del vecchio infinito”. L’uso della prima persona e gli inserti di vissuto (“il fisiatra mi ha detto/che questi esercizi dovrò/farli per sempre”; “In primavera mi si sputtana il sistema immunitario/poco ossigeno permea fra le sbarre della gabbia toracica/quando le brezze pazzerelle si contaminano/di polveri e pollini sottili/mi alzo, mi sdraio, in preda alla paura di schiattare aggrappato/alla bocchetta del cortisone che mi corrompe lo scheletro”) contribuiscono a rendere viscerale e persuasiva questa scrittura,  preludendo a versi che fissano pensieri (“qualunque movimento/mi aiuti a vedere più a lungo amabile questo cielo che dovrò lasciare:/è vero, uomo di scienza, lo ripeterò per sempre, magari non in fretta,/prima di andarmene a dormire dopo/aver consumato la mia scienza quotidiana”) e squarci di bellezza (“eppure/puntuale ai primi scorci/di vie soleggiate a gennaio/ai primi tramonti che/riversano nell’aria tersa/tutti i gradienti fra il giallo e il magenta”). Meditazione e bellezza, dunque, s’intrecciano nelle delicate descrizioni della natura, e aleggia su tutto un respiro metafisico (“sono stordito dall’immenso che si acquatta/nel palmo di un uomo;”; “vivere è moltiplicare le proprie assenze/ogni volta che si deve scegliere se partire o restare./soltanto la morte è l’affermazione della presenza: ho, esistito.”; “credevo che fosse primavera. Era invece un’altra/la presenza, e io segnato da quei sensi brulicanti/che mi avevano accennato a breve distanza//Non loro, ma compiangerei noi per queste requiemeternam,//poche”).

“Un libro compiuto”, questo di Mario Bertasa, come si dice giustamente in copertina, “che ad ogni pagina però sembra ancora volersi espandere, saltar fuori, riprendere la riflessione, tornare indietro, un libro liquido…”, ragion per cui le riflessioni anzidette non hanno alcuna pretesa definitoria. gn

Maria Grazia CALANDRONE – “Sulla bocca di tutti”

Quando non eravamo

 

 

La terra era bellissima, conoscevo ogni appezzamento d’er-

   ba, l’area dei formicai come un soglia

di solitudine prima

del bosco e serpentine di calore terrestre e venti in rota-  

   zione.

Camminavo col passo e col pensiero quando comincia a

   scendere

dalle montagne e avvicina la cronaca domestica ed era alta

la probabilità che avrei ucciso, ora non dubitavo che avrei

   ucciso

per venire da te, nascondendo nel petto un lago sistematico

   di pianto.

 

Qui niente è lieve, siamo larve

dolorose – eppure

alla sventagliata di schegge

segue l’istinto verso la salvezza

della testa. Altrimenti osserviamo che la vita ricolma gli

   abissi

che si sono aperti

nel corpo con filamenti rossi

e con la colla della granulazione:

le proteine fondono e si sdoppiano

in mute cuciture prenatali

tra i bordi di lesioni provocate

da uno sgomento

sproporzionato alla fragilità del corpo.

Ma la natura conserva per noi

tanta dolcezza e tanta

lungimiranza da non avere occhi per il dolore e quasi

pazza d’amore perdutamente incatena

cellula a cellula sopra la circostanza, ogni volta il suo ago

ci ricrea mentre ci trafigge. La vita cresce contro l’imme-

   diata

volontà. Dico dell’anima

e del corpo dico

che quasi niente

uccide e ciascuno comprende la sua soglia.

 

Uomini e donne sono alberi degni di innalzarsi nei boschi

   colpiti da immortali

raggi di sole, ponti d’argento con cifre rosse inclinati in tut-

    te le direzioni e nonostante

l’epidemia delle trincee, sale al colmo calcinato della Viola

   Magna

celeste una lauda

su lontananza, amore e tradimento

perché ognuno porta nel petto la torcia bianca di un nome,

   la meta.

 

Le fiamme consumavano il sottobosco e i simulacri in pie-

   tra. Nessuno

-prima-

aveva nel cuore una parola

per significare guerra, eppure la violenza era l’alfabeto

di tutte le mani: pietra

focaia-acciarino-miccia-gusci di mine.

Depongo stanotte nelle tue mani l’insieme delle mie ossa

come una candela che rimane accesa

sotto la direzione del tuo amore.

 

Alcune venivano per identificare

corpi ai quali avevano consegnato il respiro

dell’unica notte

d’amore e con esso

la bocca da fuoco di tutte le armi.

Sei caduto e cospargi la terra

del bruno che è colato dalle semine

e dalle stimme

addominali. Solo tu

sai che sfioravo il cuore con la bocca, tanto

era fragile il costato sotto la percussione delle parole:

senza neanche essere vicini eravamo il solco

e la frana – il tremito

e la scossa inumana della struttura

sotto un urto che non si può ripetere e adesso

tu non sei più

circonfuso di luce sei freddo

e la macerazione del tuo corpo

ha il suo corrispettivo nel mio cuore che si va spegnendo e

   non

dà quasi più sole e porterà fino alla fine del mondo

la cicatrice immatura del tuo nome

poi che avrò conosciuto con la vita intera

quello che insieme sapevamo.

 

La contrazione e il biancore degli scomparsi, il loro corpo

coperto di lacune con lo sguardo che termina

a valle nella terra vangata. L’ultimo della fila

innalza i muri della casa con un’occhiata

che è quasi terra e sulla soglia

ricorda lei già quasi inginocchiata

per il dolore – e per l’acuto e per il profondo

e a causa dell’altezza

del suo dolore, lei si è avviluppata

come un tralcio a un cuore lontanissimo

dal sedimento molle nel loro petto d’angeli, lontanissima

dai pilastri centrali delle loro ossa

rivolte come assi

verso il centro perfetto

del cielo. Niente andava perduto, nemmeno un petalo ca-

   deva

inosservato, eravamo

Attenzione-e il mondo era bellissimo

e chiaro. E la mia larva adesso

non sa morire, è già terra

e non muore, la carcassa non schianta per lo scherno i suoi

   lombi

sotto i piedi del bosco fatto sangue, nel bosco

azzurro che abbiamo versato dal petto mentre ci chiama-

   vamo.

 

Le armate degli scomparsi hanno passato la frontiera

a est, grattano le pareti delle celle-diseredati

e lievi

con un cuore caldissimo: ora

vediamo con i nostri occhi le nostre case

abitate da altri, vediamo l’arroganza di altre mani

sopra quello  che per eccesso d’amore non osammo nem-

   meno

sfiorare e vi seguiamo, vi seguiamo sempre

sotto forma di un niente senza voce. I nostri corpi

sono evaporazioni del superfluo

dalla cella del mondo e crediamo di essere evidenti

e siamo inafferrabili e invisibili

come un cielo velato che per amore porta le sue lacrime.

 

Roma, 13 febbraio 2008

 

*

cover_sulla_bocca_di_tutti

 

Maria Grazia CALANDRONE

SULLA BOCCA DI TUTTI

Crocetti Editore (Milano, 2010)

 

 

Flora RESTIVO – DUDICI (DODICI) Racconti in siciliano

RESTIVO

Flora Restivo, siciliana di Trapani, è poeta dialettale autrice delle raccolte poetiche Ciatu (Sfamemi, 2004) e Po Essiri (Samperi Editore, 2008). Non deve sorprendere questo suo primo libro di racconti che richiama qualità importanti già presenti nella sua poesia: l’essenzialità del dettato, lo sguardo acuminato ed ironico sul mondo e una forte sensibilità. La misura del racconto breve riesce dunque a riproporle, dette qualità, con nuovo equilibrio e tensione narrativa. Proprio riguardo all’essenzialità del dettato, scrive Marco Scalabrino nel suo saggio introduttivo (Flora Restivo – Dda notti chi spariu la luna & autri cunti): “Edgar Allan Poe ha individuato nella short story gli elementi della essenzialità, della densità, della unicità; Henry James ha affermato che il racconto bisognerebbe “farlo tremendamente conciso, con la più stringata scelta di particolari”; Evelyn Waugh ha sostenuto che “lo stile non è un attraente ornamento applicato, ma parte dell’essenza stessa”. Questi, dunque, gli elementi che caratterizzerebbero il genere; e si viene realmente inghiottiti nella lettura di questi racconti che spiazzano, sorprendono, a cominciare dal primo racconto “La notte in cui sparì la luna”, che principia inquadrando un insonne trentottenne insegnante di greco e latino. Una bella donna “statuaria”, “al culmine del suo fascino” a cui nulla mancava se non la capacità di avere una relazione duratura con un uomo, perché “ogni volta che una storia aveva inizio, sembrava quella giusta, ma dopo un po’ di tempo, si stufava, la persona la disgustava, così lasciava perdere tutto.” Un racconto che procede come un film “che la vede spettatrice e protagonista nello stesso tempo.” E torna all’infanzia e alla sua storia familiare personale, segnata dall’azione più riprovevole che si possa compiere nei confronti di un figlio – l’incesto – ripetutosi negli anni fino al gesto estremo di liberazione da parte della vittima, con l’uccisione del padre progettata nei dettagli. Una storia che al pari delle altre di cui nulla diremo, però, per non privare il lettore del piacere di farsi trasportare da esse, riga dopo riga, viene raccontata in modo davvero avvincente, con una forza descrittiva che rende vividi e plastici i luoghi, i personaggi e le azioni. Tra i racconti più belli vanno segnalati ”Mano pelosa”, rielaborazione della favola di Barbablu, “Storia di Maria soprannome “l’orba” professione …puttana”, lo splendido e commovente “Le ali di Angelo”, “Nozze d’argento” e “Franco”. Un libro, dunque, che, se si fa apprezzare nella traduzione in lingua, nella versione in dialetto si suppone ancora più dilettevole, per il senso e l’evocatività di parole e suoni e colori e allusioni propri della lingua e d’una comunità.

Flora RESTIVO

DUDICI (DODICI) – Racconti in siciliano

Edizioni del Calatino (Castel di Judica, 2011)

Prefazione di Marco Scalabrino

Traduzioni a cura dell’autrice

Filippo DAVOLI – “Come all’origine dell’aria”

filippo davòli

Tre cartoline

1.

Escono la domenica mattina

con le fiammanti utilitarie

e un’andatura di accompagno,

quasi fermi nel sole invernale.

I contadini solidi nel riposo

col cappello che rade la cappotta

sorridendo bruniti

al ciglio deserto della carreggiata,

frenando nelle discese, rallentando

al ticchettio dei contagiri. Vanno

ad una passeggiata con la macchina.

Sono piceni assennati, porosi

nel tratto bianco delle residue mulattiere.

Le donne hanno il vestito buono fiorato,

l’oro di casa le orna come madonne

e le bambine portano le orecchine

con il pendaglio, e un filo di smalto

e le trecce imbrigliate nei fermagli.

Ostentano con garbo un italiano

che l’assedio dei simili tritura.

I fumatori arrochiti parlano basso,

pasteggiano le parole con sobrietà.

Le vecchie si salutano per strada

sollevando la testa e le mani,

beate nel cappotto coi bottoni grandi

e il collo di finto pelo, vanno alla messa

dolci nel passo lento della lucidità.

2.

Quieti palazzi della periferia

che vi ergete a baluardo contro i monti,

che difendete le disperazioni

di chi vi abita. Quieti palazzi domenicali,

dove le donne che piangono

tacciono nel segreto di passi leggeri

trascorsi al fuoco basso della tenacia,

al giusto della pazienza.

Quieti palazzi della periferia

dove i figli sonnecchiano aspettando

di sentire i rumori di cucina

coltivando il riposo

e una luce radente veste i letti

prima dell’abbandono. Adusti salgono

i giovanetti come la mattina.

Fingono nelle loro sicurezze

di non sapere quello che conoscono

nel fondo dei loro muscoli. Guardano

il giorno con apparente tranquillità,

appesi al filo fragile dell’infanzia.

Quieti palazzi indenni

alle usure del sentimento, alle ubbie

dei cani, al graffio ripido dei gatti,

che resistete immobili alle tempeste,

nell’antica saggezza del sopravvivere.

3.

Nelle pozze la pioggia si fa acqua.

Specchio di perla che partorisce il mondo

e simulacro limpido di insetti.

L’aria punge assodante le pupille,

snerva la vista un ritorno di luce.

Dentro il verde dei platani lontani

S’azzitta la città, vanno i bambini

a stuzzicare l’acqua e la vita.

*

Il paese di mia madre ha gli occhi larghi

verdi d’erba e di mare, e il naso d’aquila.

Il paese di mia madre ha i capelli neri

liberi dentro il vento, ma una lacrima breve

chiusa nella memoria.

Il paese la copre fino al tramonto

poi la lascia vibrare nel suo sogno,

disperdersi nelle contrade della campagna.

Il paese di mia madre è svanito con me.

*

Madre, mia prima ed ultima sorella

cui forse ritornerò da polvere schiusa,

se leggi certo capirai chi sono.

Da tanti giorni nei giorni non ti penso

se non nelle preghiere.

Madre, fosti un tumulto

che sprofondava l’anima in delirio.

Poi ritornò la pace, ed eri e sei

la sorella segreta che mi volle

e questo di sicuro non è poco.

Sei il sangue che mi ammala, sei le ossa

che cedono all’usura anticipata.

Sei gli atomi degli occhi, che sono tuoi.

E in tutto questo che tocco mi manchi.

*

Ti ricordava ancora la puerpera

che si ricorda di me quando dormivo

nelle tue sacche incolumi. Scoprivo

la bella tenerezza di chi cerca.

Parlava di una donna innamorata,

giovane bella e sola, maltrattata

da una madre assillata dal buon nome.

Mi avevi conservato nel silenzio

per paura di loro – e quanto avevi

ragione, se al mio dunque si levarono

indifferenti del tuo cuore di madre.

Ma il nome che salvarono è il mio sangue

che vive ancora. E’ il tuo segreto assillo

che viene per parola a dirti grazie.

*

Se ti incontro tutti i giorni non so

se magari ti sfioro e ti saluto

e tu non lo sai che c’è di più.

Non lo so, non lo sai, forse sospetti

oppure no un volto familiare

sperso nel mondo ed invece l’hai qui.

O forse così lontana, così altra

soltanto altrove ti conoscerò. Guarderemo

distrattamente il ticchettio degli astri

e farsi strada la luce, la comprensione

del sangue, ma come in un fiume

sovrumano di tenerissime solitudini.

*

Non ti ho potuta cogliere, ti sperde

una congiura umana di decreti

e forse un’altra vita, un’altra piena

d’acque libere ormai da giorni inquieti.

Ho smesso di cercarti quando l’angelo

a cui ho dato da sempre il tuo affettuoso

nome insostituibile, ha intrapreso

la discesa dei giorni, fino a spegnersi

dopo un Natale in cui non c’era il mondo.

Sono già dodici anni, tra poco.

Uno strappo feroce che ha graffiato

l’unico specchio della mia esistenza,

quello del cuore. Ma il mio volto ha il tuo nome.

Così il pensiero ti tocca a ogni risveglio

e non ti ha più lasciato. Ti sorride.

*

Vorrei che queste parole non fossero parole

ma un piccolo testamento del volere.

Non però assimilabile a un lasciarsi andare,

quanto piuttosto una più piena coscienza.

Come la rondine che sigilla il lascito

in un volo infingibile.

*

Vorrei scivolare dentro l’acqua come il mistero

complice di chi vede e di chi sa,

tornare a quel primo giorno innocente

privo di scorie, senza memoria di altro

che dell’amore. Un amore schiodato.

Io sola carne vestita di luce

che sorrido al mio corpo.

*

Vorrei dunque sparire lievemente

pur continuando a vivere. Restarmene

nel dono dei segreti quotidiani,

dove tutto significa.

*

Filippo DAVOLI

Come all’origine dell’aria

L’Arcolaio di Gianfranco Fabbri (Forlì, 2010)

Introduzione alla lettura di Lucia Tancredi, Gianfranco Fabbri e Andrea Ponso 

Mauro GERMANI – “Terra estrema”

terra estrema

E’ questa notte l’uomo

dice la Terra

il corpo ignoto nel vento

che lo scuote e lo trascina

fino all’ultimo

bordo,

al cuore fermo

del suo puro nulla.

E’ questo solo

lo scandalo della carne,

l’enigma di ogni nome,

il pianto segreto

delle mie parole…

*

Adesso che Dio non c’è

ed è senza nome

l’edificio del mondo

vanno vanno i fiumi

nell’ora che tramonta

soli nel loro

destino segreto

là dove anche il mare

è nulla,

bocca che inghiotte

ogni mistero

e tace.

*

Non sappiamo il corpo

l’assoluta verità del sangue.

Com’è sola la carne

e noi assenti in lei

e lei nel mondo.

Oh esistere davvero,

essere veramente

le nostre parole,

noi appartenenti

per sempre alla terra

come un respiro

alla vita…

*

Dall’acqua e dal sangue

di quella voragine

da quella ferita aperta

da quell’urna cieca

da quell’abisso ignoto

da quei singhiozzi atroci

da quelle lacrime buie

da quel mortale

sporco infinito

noi tutti veniamo.

*

Torna ogni volta

all’indistinta notte,

non dorme mai

il corpo.

cerca l’antico sangue

i flussi, i battiti,

i palpiti spenti

nell’immemorabile

buio.

Chiama gli dei

senza più dimora

noi ignari,

persi

nel nostro sonno.

*

Scrittura d’ombra

e d’esilio,

capovolta aurora

di pagine perse.

Dov’è il vento

che chiama

le labbra,

il raggio bianco

che scuote

la terra?

Dov’è la voce

perduta

del sasso,

l’eco ammutolita

del cielo?

Tutto

si cancella

dove tutto

perdura.

*

Spegnere un nome

eppure vederlo

amarlo

senza ritegno.

Finire adesso

il mai

cominciato.

E sapere le notti

che non sanno

e invocare il cielo

prima

del cielo.

Aspettare

il silenzio.

Scrivere.

Scrivere sempre

il già

cancellato.

*

Mauro GERMANI

TERRA ESTREMA

L’ARCOLAIO di Gian Franco Fabbri (Forlì, 2011)

Interventi di Marco Ercolani e Fabio Botto 

Nadia AGUSTONI – Il peso di pianura

il peso di pianura

Il peso di pianura è il titolo dell’ultima raccolta di Nadia Agustoni (Lietocolle 2011) dopo Taccuino nero (Le voci della luna 2009); ed è anche il titolo della seconda sezione del libro, assieme a Cosa vuoi che dica la polvere. Titoli che paiono assumere un carico di ironica disillusione; associamo infatti l’idea di peso alla salita, piuttosto che alla pianura; una pianura che, del resto, potrebbe intendersi come appiattimento: il peso dell’appiattimento, appunto; una sorta di resa a qualcosa di negativo. Il titolo della prima sezione, Cosa vuoi che dica la polvere, richiama invece quello del romanzo di John Fante Chiedilo alla polvere, storia che ha come protagonista lo scrittore Arturo Bandini col suo sogno, infine deluso, di successo letterario e di rivalsa sociale. I versi “…qui viviamo,/qui moriamo, un dio non ci ha salvato.” concludono il testo di apertura, dal titolo eponimo della sezione, dove i diari dell’olocausto diventano la deriva di un re e di un regno, con l’immagine, forte, di un Edipo ormai vecchio e cieco preso per mano dalla figlia Antigone, entrambi in fuga facendo il vuoto, intorno. Si ripete nella poesia successiva il tema dell’olocausto, che non è flagello né destino, ma ritorno della bestia, e storia che resta sospesa, ma visibile, ancora, a sguardi sensibili (“i bambini di terezin nel silenzio maiuscolo/di nuvole immobili, dove è già accaduto/e accade per sempre mentre guardi, il giorno/vicino alla luce.” (“non avremo più niente). Il tono ricorda quello di una fiaba triste, in cui si narra di qualcosa andato perduto, o trasformato (ridotto a minerale? a vegetale?): “non avremo più niente”,/dal mondo trapassano pietre, le mani//sono corteccia, nomi di betulle il bene:/una volta le parole erano la giubba dei re/ognuno viveva per vivere ognuno/chiedeva perdono molte volte.”)

Il talento affabulatorio dell’autrice, già apprezzato nelle prose pubblicate in rete, trova espressione anche in questa raccolta attraversata da visioni e immagini originali e potenti, col loro carico di archetipi, metafore, rimandi letterari; con sequenze di parole felicemente inusuali (“dev’essere la vita/o un giugno di roghi per sterrati/cagne orfane di corse e tralicci/bambini di pane.//dev’essere nei piedi radice” (dev’essere la vita); “l’animale fuggiasco e lumini-astri/fabbrica-stella appesa al gesto/il buio nel largo del mondo e sghemba ai paesi” (“uomini-foreste”); “fermenterà il dolore/la notte avrà ovili e montagna/e oltre la corsa dei cani viaggeremo/la terra nel sonno midollo di paesi/un mietere fumi” (“mare nostrum”). Questa attenzione linguistica e iconica caratterizza fortemente la scrittura di Nadia Agustoni, e del resto: “una teoria è la casa/di cose fin troppo note/e di altre che filtrano i nostri passaggi:/il salto mortale della lingua/quel bisogno di scalare il buio.” (“labirinto”). Immagini e discorso che zumano talvolta all’unisono sul qui ed ora, alle radici del sentire, alle ragioni della disillusione: “è a nord/l’orfanità precisa di fiumane/musi cavati da utopia/santi-rimbaud appollaiati alle costole/dei veri santi” (“nord”); “io abito in una via di prati/col sole i muri e rifiuti di fabbriche/ed è giusto e ingiusto oscuro e chiaro/essere superflui negli occhi dell’altro” (“io abito in una via di prati”).

La poesia è talvolta calco di orme e transiti, buio raggelante di tunnel, referto di stati d’animo presenti e passati; e alcune parole, in particolare, echeggiano, rimbalzano tra i versi così come nella prima sezione della raccolta: “ho pensato/ che sempre la pianta/è rami e spiragli/e mai risana il proprio dolore/ma coincide,”; “ho avuto l’età che ogni giorno è nuovo/che t’importa e non t’importa del dolore e sai che non altro/c’è da sapere che non un chiarore all’alba…”; “ma a me il male è questo dolore quest’ora/in cui il ragno oscilla tra tela e parete e i muri/fino al soffitto costruiscono ombre”; “i morti aprono il dubbio dei nomi,/anch’io vivo dove l’ombra chiede pazienza”. Ma la poesia è anche apertura al chiarore del sogno: “credo al tempo chiaro delle case/penso che esistono cielo mare elementi/e nuoterò volerò avrò scampo dal vuoto/e in una forma di conchiglia metterò sabbia/vicino al falco – irrevocabile -/abdicherò un regno.”

Essere in questo mondo, ma non di questo mondo; stare oltre la piccola storia, diversa ed in fondo uguale nei millenni; per dirla con Pasternak, “così che alla fine/ci si attiri l’amore degli spazi”:

a finestre

non i vivi mi aspettano a finestre

ma l’abbondanza del tempo

quel disegno senza figure a dirmi

quale parabola di gigli

e uccelli nel campo mi porti.

*

Nadia AGUSTONI

Il peso di pianura

Lietocolle (2011) 

Stefano GUGLIELMIN – C’è bufera dentro la madre

guglielmin_arcolaio

3.

capisce quando la vita svacca. ne sente il crepo destro

e il sinistro. cura per questo la piaga che è sua, salta di lato.

poi la sera, in groppa al leone che è stato, sfila la calma dal chiodo

la scuce, mentre dorme, una ventina di femmine gli stira le pieghe

gli alza il livello del mare.

8.

cura col maglio il rischio d’impresa e con metafore vive:

sangue che gira dove non sa, e cresce. annusa il tractatus

ci pesca un dedalo nuovo dove posare la pietra. dove pensare.

il meglio lo intaglia dal verbo, il peggio, dalla scatola

in cui semina vento. e nazione, se lievita male.

21.

la caccia grossa l’ama distesa sul piatto. tanti amici tordi

intorno, e l’animale spolpato. il re, la sua corte e il resto

del corpo cotto. fa festa a tutti, mangiando.

e mentre la tata sparecchia, lui regola i piani agli assessori

unge le buste ai tavoli.

22.

seduto sul suv squadra la sera, là dove la fabbrica chiude.

c’infila denari in quella diletta cruna e, di rado, un larvale

tormento: sugo di famiglia perbene, pensa, pasta contadina.

ci passa il pane, allora, l’asciuga. prepara la pista

ai quaranta ladroni.

24.

anche se vuota, la fabbrica pulsa. un affetto sconsolato

gli tocca la tasca, a vederla. padania, dice, è parola di falce

e valigia. cosa migrante. se dunque togli il foresto, aggiunge

resta un pieno di salute pura in città, un callo dove l’arido

abbaglia.

30.

dichiara una cosa per volta, come: qui io, oppure

ogni mia scelta, e: mai abbastanza guadagno, mai tremato

però. adesso che c’è bufera sin dentro la madre

qualcosa gli zoppica, tuttavia, sa che solo dormendo

può seguirne le tracce, capire quale piede manchi.

34.

se dalla luna, lui, portasse indietro un grammo di ragione

o il suo lume. se studiasse i modi finiti e infiniti di spinoza

e vi scavasse dentro una pozza di vita vera. se insabbiasse

il perno che lo lega alla pancia del denaro, se ogni tanto

si girasse come l’angelo di klee. se inorridisse.

37.

semina piombo intanto, ma non si vede. lo copre col bene comune

infatti, e un assegno sotto il tavolo: smussa gli angoli al naufragio

lasciando così i cocci ai ciechi. figli suoi e dei cosi

che lui chiama gente, tutta roba che parte per discariche e tombini.

quando passeggi, guarda altrove: le altre spose, gli orti…

39.

a proposito del sesso. e del frutto al petto suo denaro. a proposito

della ciliegina sulla tomba e dell’angelo che sfoca la sua foto.

a proposito di lui, che suona le parti e fa bottega, di lui, fratello,

e di me, a proposito di noi e della faccia che mette lui per me.

a proposito di questo, ora, torna indietro, e rileggi.

*

Stefano GUGLIELMIN

C’è bufera dentro la madre

L’arcolaio (Forlì, 2010)

Prefazione di Cristina Annino

L’ultima raccolta di Stefano Guglielmin (“C’è bufera dentro la madre” – L’arcolaio 2010) sembra tracciare, con occhio puntuto ed ironico, un tipo antropologico d’un luogo e di un tempo definito. Un perfetto paradigma di cui, con sapienti pennellate, ci viene indicata la morale (“lui regola i piani agli assessori/unge le buste ai tavoli.”; “c’infila denari in quella diletta cruna”; “se dunque togli il foresto, aggiunge/resta un pieno di salute pura in città, un callo dove l’arido/abbaglia.”; “semina piombo intanto, ma non si vede. lo copre col bene comune/infatti, e un assegno sotto il tavolo”), la postura “(seduto sul suv squadra la sera, là dove la fabbrica chiude.”; “dichiara una cosa per volta, come: qui io, oppure/ogni mia scelta, e: mai abbastanza guadagno, mai tremato/però.”), il cinismo (“il re, la sua corte e il resto/del corpo cotto. fa festa a tutti, mangiando.”; “smussa gli angoli al naufragio/lasciando così i cocci ai ciechi. figli suoi e dei cosi/che lui chiama gente, tutta roba che parte per discariche e tombini.”

Con distacco descrittivo Guglielmin ci mostra l’apparente normalità d’un paesaggio desolato, le sue vittime sacrificali, in filigrana, ed i suoi carnefici mentre si guardano intorno, con calma indifferenza, certi d’una dovuta buona sorte; ché è questione di stoffa, di selezione naturale, e mai, per questo, ci si deve dare per vinti, pur tra cadaveri di maestranze e di colleghi imprenditori, concorrenti. Il mondo è così, non può che essere così, e prima lo si comprende e meglio è, sembrano infatti dire.

Il poeta perviene a questi quadri concisi e omogenei, nella loro misura – lasse di cinque versi non lirici – con un lavoro accorto sulla lingua, la cui sintesi e concentrazione, come in un file compresso, esige l’attesa paziente della sua riespansione. Cristina Annino, nella sua prefazione, parla di “poesia percussiva che sottrae all’orizzonte spazio, creando invece un immaginabile tetto-limite-cornice contro cui le parole sbattono il loro significante per poi riabbassarsi; movimenti ripetuti e cortocircuitati che costituiscono la bufera semantica per l’effettiva bufera che Guglielmin sta mettendo in scena.”

*

Nota bio bibliografica

Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (Vi). Laureato in filosofia, insegna presso il locale liceo artistico. Ha pubblicato le sillogi poetiche Fascinose estroversioni (Quaderni del gruppo “Fara”, 1985), Logoshima (Firenze Libri, 1988), come a beato confine (Book editore, 2003), La distanza immedicata / the immedicate rift (Le Voci della Luna, 2006), il foglio d’arte Il frutto, forse (Arca Felice, 2008), Erosioni, in Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est (Fara, 2008) ed i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), e Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009). E’ presente in alcune antologie, fra le quali Il presente della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi (LietoColle, 2006) e Caminos del agua. Antologia de poetas italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato (Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web. Gestisce il blog di poesia Blanc de ta nuque (www.golfedombre.blogspot.com  ). 

Vincenzo MURA “Poesias Sèberas”

Vincenzo Mura 001

Sos ojos mios arribbo

S’ùltima marrada ‘e sole

at isconzu s’istiu.

De sa chìgula restat su repiccu

in ùngias de saucu

e s’imprenta ‘e su càntigu sou

s’est inferchida in ispinas

de ‘ardu siccu.

Immùrinat s’istiu

in su mudor’ ‘e sas cannas

de trigu moriscu,

isbentulende ammentos.

Sos àrvures sun annuzados

che puzones chena nidu

e fintzas a beranu

no an agattare risu.

In s’ùmbra ‘e unu sàlighe

sos ojos mios arribbo

appittu ‘e dies noas

(Ripongo i miei occhiL’ultima zampata di sole/ha disfatto l’estate.//Della cicala è rimasta l’eco/tra le unghie dei sambuchi/e l’impronta del suo canto/s’è infilzata in spine/di cardo bruciato./Imbruna l’estate/nel silenzio degli steli/di granturco,/sventolando memorie./Gli alberi sono mogi/come uccelli senza nido/e fino a primavera/non ritroveranno il sorriso.//All’ombra di un salice/ripongo i miei occhi/ad aspettare nuovi giorni.)

*

Pensamentu drommidu andalienu

Morzo che ti morzo

est s’istajon’ ‘e festa.

Sa terra pro mudare

s’intanat in sas tramas

de chentu nieddores pesperinos.

S’ultima istròscia ‘e ràmine

incispit isvanida

in àrvures mesu nudos.

Dae sas naes attambainadas

làgriman fozas chena sàmbene

in lentolos de filighe e lanedda.

S’ispozat sa natura

pro s’intuvare in su mudore sou.

S’imbena montanina ‘e duas puntas

at interradu unu sole

impastadu ‘e fogu.

In su cunventu meu mi sizillo

bestende

sa cotta’e sos meledos

chena cabu e chena coa.

Unu drommidu andalienu

est su pensare meu

chi no ‘ischit

de naspare a sa tzega.

(Pensiero sonnambuloAll’ultima spiaggia/è la stagione di festa./Per cambiare pelle la terra/si nasconde negli inganni/di cento foschie vespertine./L’estremo scroscio di rame/fiammeggia fumoso/su alberi discinti./Dalle fronde accasciate/lacrimano foglie e muschi./La natura si spoglia/per rinchiudersi nel proprio silenzio./L’inguine montano di due vette/ha sepolto un sole/di magma.//Mi ritiro nel mio convento/indossando/la tunica delle riflessioni/senza capo né coda.//Il mio pensiero/è un sonnambulo/che ignora/di vagare al buio.)

*

Cuntaminu antigu

Si m’appìtzigat

s’isermone antigòriu

chena remèdiu

de sa zente mia revessa.

Non bi resesso pius a cuare

arrajolos e chéscias

e troppu tronosas

mi si faghen

sa disania locca

e sa marrania iscasciada

chi diventan anneu pro sa vida.

E comente sa rébula mia

in un’atzola de mudesa

m’inserro che arcanu presoneri

chena boleos e boghe.

Non mi potto amparare

dae s’ambisua de venenu lenu

chi custu mudìmine isparghet.

So disaminadu

e in sas intragnas mias

no agatto cumpanzos

Pro ‘enner accabu

de s’assussegu meu

de pedra.

(Contagio arcaicoMi contagia/la tristezza arcaica/irreversibile/della mia razza ostinata.//Non riesco più a nascondere/rabbia e rancori/e insormontabili/si presentano/il livore ideologico/e la folle sfida/che diventano tedio senza ritorno./E come la mia gente/in una matassa di mutismo/mi isolo come arcano prigioniero/privo di slanci e voce./Non posso sottrarmi/al parassita di lento veleno/che questo silenzio produce./sono sottomesso/e dentro di me/non trovo alleanze/per far fronte/al mio immobilismo/di pietra.)

Istentérios

Pro tottu s’istiu

su sole at bistrasciadu su mare.

Si ch’est falada s’appara

e peri sas carreras

chena una filigheddu ‘e umbra

an affieradu a trèmidas

muscas e muschina.

Dae su chelu

onzi nue at disterradu

e bénnida mi paret s’ora

de istrobeire sas campanas mudas

dae su cannau ‘e s’attédiu

e las sonare a s’istérrida

abboighende a boghe posta

sos isettos ammacculiados

de poveraza e filigresos in caratzas noas

e ispabarare a su ‘entu

sas banderas de s’arrempellu

frundidas che istratzos

in sos fundajos de s’olvidu.

In coro pro vilesa

nos est créschidu su murgore

de s’intiriolu chertadore

chi sa cuscèscia ‘e tottu at luadu

e sa trùvida abbulottera,

ma a nie sighit a mi percossare

s’istentériu rivolussioneri

oramai in assoloddu.

(DeliriPer tutta l’estate/il sole ha seviziato il mare./E’ appassita la cipolla selvatica/e per le strade/senza un filo d’ombra/hanno infierito schiere/di mosche e moscerini.//Dal cielo/hanno migrato le nubi/e il momento mi sembra giunto/di liberare le campane mute/dalle corde del tedio/per suonarle a distesa/e a voce piena gridare/le speranze assopite/di poveri e proletari in nuove vesti/e dispiegare al vento/le bandiere della rivolta/abbandonate come stracci/nei ricettacoli della memoria.//Per ignavia nel cuore/è ammuffita/la passione per la lotta/infettando la coscienza collettiva/e la spinta al cambiamento,/ma a me continua a torturarmi/il delirio di rivolta/ormai in letargo.)

Trementu

Nos ingalerat

sa complitzidad’ ‘e zente meda

e su mudine asseliadu ‘e sos àteros.

Ma cheret chi nos nd’ischidemus

dae s’assoloddu ‘e mente

prima chi falet

su trementu chena fine.

S’est pesada in sos fondale

una nue niedda

allivrinzada dae s’indiffereréntzia

onzi sa libertade e sa giustìscia.

In custas lunas mattanzosas

bisonzat de imparare

chi nudda at a éssere pius

comente a sicutera.

Sun fertas sas inchérridas

e istasida s’atza allimbadora

contr’a chie nos cheret imboligare

e addrummentare sa cuscéscia

impittende sas trassas

anfaneras de Circe sa brùscia

contende chi ‘olan sos àinos

e chi bivimus in sa ‘idda ‘e sos giogos

cun s’attinnu de revertire onz’òmine

isoltu e a contu sou

in marionetta isporada

e fiadu masedu.

Ma como chi s’istròscia est agabbende

e su chelu cumintzad a ispallattare

s’ilgiarin sas bideas mias

e iscòppian comente pro isermone

in manera chimentosa

sìddidas e sentidos rebelles.

(BuioCi imprigiona/la complicità di molti/e il rassegnato silenzio degli altri./Ma è necessario risvegliarsi/dal letargo delle menti/prima che cali/il buio irreversibile.//All’orizzonte s’è levata/una nube nera/alimentata dall’indifferenza/ogni giorno più forte/per la libertà e la giustizia.//In queste lune difficili/bisogna prendere coscienza/che nulla sarà più/come nel passato.//Gli sguardi sono feriti/e fiaccata la capacità critica/contro chi vuole illuderci/e sopire la coscienza/usando gli espedienti/lusingatori della maga Circe/raccontando che gli asini volano/e che viviamo nel paese dei balocchi/allo scopo di trasformare gli uomini/liberi e indipendenti/in marionette senz’anima/e animali mansueti.//Ma adesso che la tempesta sta cessando/e il cielo comincia ad aprirsi/diventano chiare le mie idee/ed esplodono come per incanto/in modo fragoroso/sussulti e sentimenti di rivolta.)

*

Vincenzo MURA

Poesias sèberas

Edes (Sassari, 2010)

Prefazione di Giovanni Fiori

*

Vincenzo Mura è nato a Pattada nel 1935 e vive attualmente a Sassari. Ha esordito alla fine degli anni cinquanta nella narrativa con racconti, novelle e servizi di letteratura e costume ne “La Nuova Sardegna”, della quale fu per alcuni anni corrispondente e collaboratore della terza pagina. E’ stato per diversi lustri impegnato nella politica attiva.

Ha pubblicato Il ballo del sole (Firenze 1967)(vincitrice del premio letterario “opera prima” N. Machiavelli), La stagione delle mantidi (Cagliari, 1966); La rivolta dei gigantinani (Cagliari 1999); Su Deus Iscultzu (Cagliari, 2002).

Poesias Sèberas è la sua prima opera in versi, e contiene una selezione delle molte poesie scritte negli ultimi vent’anni.